La Gran Bretagna punta su petrolio e gas domestici, così come gli Stati Uniti di Biden. E l’Unione Europea? Da Versailles emerge che ogni paese europeo va decidendo da sé al di fuori di una qualsiasi “azione comune” europea ed anzi in competizione tra loro, con esiti controproducenti. La somma delle decisioni che si vanno assumendo produrrà un aumento delle emissioni.
Come reagirà la transizione ecologica all’urto della guerra? Come varieranno le emissioni di gas serra a seguito delle misure che i paesi stanno adottando per fronteggiare la duplice sfida dell’indipendenza energetica dalla Russia e della grande crisi energetica esplosa alla fine dello scorso anno e aggravata dalla guerra?
Misure che vanno in direzione opposta agli impegni assunti dai governi nella lotta ai cambiamenti climatici alla recente COP 26 di Glasgow.
Mare del Nord e shale oil, nucleare e rinnovabili: la ricetta britannica
Prendiamo la Gran Bretagna. Boris Johnson ha affermato che per liberarsi delle importazioni di energia dalla Russia (per altro inconsistenti) il suo paese dovrà puntare sull’aumento della produzione interna di petrolio e gas – nuovo pivot della politica energetica – nel Mare del Nord e sullo sfruttamento delle abbondanti risorse di shale oil (stimate nel solo bacino Weald nell’ordine di un miliardo di barili). A seguire: nucleare e risorse rinnovabili.
Non dissimile il capovolgimento delle politiche dell’amministrazione di Joe Biden. Dopo aver stoppato ogni nuova trivellazione sui territori federali e quelli offshore; aver bloccato la realizzazione dell’oleodotto Keystone XL; aver aumentato le royalties ai petrolieri per tener conto dei costi climatici; aver espresso l’intenzione di traghettare la nazione verso l’obiettivo della neutralità carbonica a metà secolo; ebbene dopo tutto questo Biden si trova nella scomoda posizione di premere sulle compagnie petrolifere perché aumentino la produzione interna di petrolio.
Il dietrofront interno di Biden, dopo gli altolà esterni
Cui vanno rispondendo con grande cautela per ragioni di disciplina finanziaria ma anche perché credono poco al mutamento di strategia di Biden.
Dopo aver ottenuto un netto diniego dal Venezuela di Nicolas Maduro, cui si era detto disposto ad attenuare “temporaneamente” le sanzioni comminate da molti anni, essersi visto rifiutare una telefonata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi, aver ottenuto un diniego dall’Opec Plus, Biden va rivolgendosi ad ogni paese produttore perché aumenti la produzione di petrolio non già per ridurre l’insignificante dipendenza dalla Russia, ma per abbattere i prezzi dei carburanti che hanno toccato nuovi massimi storici portandosi oltre i 4 dollari per gallone. Nella certezza che l’elettorato ne tenga conto nelle prossime elezioni di medio termine.
E l’UE? Da Versailles minimi accenni a REPowerEU, nessuno al nucleare, né al gas del Mediterraneo o allo shale gas, né al carbone
E l’Unione Europea? Leggendo la Dichiarazione finale del recente Consiglio di Versailles il minimo comune denominatore dei paesi membri per ridurre la dipendenza dalla Russia – “as soon as possibile” – si limita ad un rapido accenno ad accrescere risorse rinnovabili, GNL e biogas, efficienza energetica, economia circolare, idrogeno (in tempi per altro lontanissimi).
Minimo è poi il richiamo alla Comunicazione della Commissione dell’8 marzo denominata REPowerEU con la richiesta a ripresentarla entro fine maggio. Comunicazione che sostiene in modo raffazzonato di poter ridurre in pochi mesi, entro la fine dell’anno, di due-terzi le importazioni di gas dalla Russia, per 100 miliardi di metri cubi!
Un miraggio visto che dal giorno dell’invasione della Ucraina il 24 febbraio ad oggi l’Europa, le importazioni energetiche dalla Russia non sono affatto diminuite con una spesa complessiva di oltre 13 miliardi di euro, secondo Centre for Research on Energy and Clean Air che ha appuntato una metodologia che le aggiorna in tempo reale.
La domanda da porsi è se l’Unione vuole effettivamente liberarsi di gas, petrolio e carbone importati dalla Russia, obiettivo che la presidente Ursula von der Leyen ha comunque dichiarato di voler conseguire entro il 2027.
Nessun riferimento nella Dichiarazione vi è infatti al nucleare, caro a Macron e ai paesi dell’Est, mentre il governo tedesco va riflettendo se sospendere la programmata chiusura delle sue ultime centrali nucleari e semmai riattivare la altre tre appena chiuse.
Nessun riferimento allo sfruttamento dei 3.500 miliardi di metri cubi di risorse di gas ritrovate nel Mediterraneo, con cui si potrebbe sostituire interamente il gas russo nell’arco di non molti anni, o alla possibilità di sfruttare le risorse di shale gas, potenzialmente estraibili nell’ordine di 2.500 miliardi di metri cubi. Risorse su cui gli Stati Uniti hanno raggiunto la loro indipendenza energetica con prezzi del gas sei volte inferiori a quelli europei.
Da ultimo: nessun riferimento all’impiego del carbone cui molti paesi, a partire dalla Germania, hanno fatto ricorso vuoi per ridurre il peso del metano vuoi per la sua maggior convenienza.
Morale: ogni paese europeo va decidendo da sé al di fuori di una qualsiasi “azione comune” europea ed anzi in competizione tra loro, con l’assurdo esito di far aumentare ulteriormente i prezzi di acquisto, nel tentativo di accaparrarsi quantitativi addizionali di LNG dal Qatar, dall’Algeria o dagli Stati Uniti.
L’approccio europeo produrrà un aumento delle emissioni
La somma delle decisioni che si vanno assumendo produrrà un aumento delle emissioni, per un tempo non breve dato l’arco di esercizio dei nuovi investimenti. Superando così il massimo storico toccato lo scorso anno.
Un contributo addizionale di solare ed eolico potrebbe essere positivo nel contenerle, anche se vale ricordare che nello scorso quinquennio il loro aumento nella generazione elettrica è stato inferiore a quello fornito dal metano (+117 TWh vs. +121 TWh) contribuendo invece per un quarto alla ‘cannibalizzazione’ del nucleare, fonte zero-carbon.
Puntare ad accrescere le rinnovabili, in assenza di accumuli, serve comunque a poco: “perché riduce marginalmente il consumo del gas e fa salire i costi fissi degli impianti largamente sottoutilizzati da tenere in back-up”.
La bassa generazione nucleare attesa nel 2022 in Francia e Germania compenserà il contributo addizionale delle rinnovabili, impedendo quindi una parallela riduzione del ricorso al metano russo nella generazione elettrica.
Da tutto ciò emerge un quadro generale in cui non si riuscirà sostanzialmente a liberarci in tempi brevi dal gas russo, mentre continueranno ad aumentare emissioni e prezzi dell’energia.
Alberto Clô è direttore del trimestrale ENERGIA e del blog RivistaEnergia.it
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