14 Aprile 2022

Diplomazia energetica italiana/3: l’accordo UE-USA, le considerazioni

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Dopo averne inquadrato le premesse, la seconda parte dell’analisi sull’accordo UE-USA propone considerazioni e mette a fuoco le implicazioni per l’Italia.

[Prima parte: le premesse]

Se la strada appare in discesa per una nuova partnership gasifera dell’Occidente, l’addentrarsi nei contenuti dell’accordo Biden-von der Leyen e nelle dinamiche politiche e commerciali sulla sponda Ovest dell’Atlantico solleva problematicità. In particolare, il supporto da parte della Commissione UE verso “meccanismi di contrattazione nel lungo termine”, con l’obiettivo di “incoraggiare i contraenti interessati a supportare decisioni finali di investimento di infrastrutture per l’esportazione e l’importazione di LNG” suscita alcuni dubbi.

Si deve innanzitutto sottolineare che oltre all’impotenza già evidenziata della Casa Bianca, Bruxelles non ha alcuna capacità decisionale in materia. Scelte che sono invece influenzate da interessi nazionali e commerciali delle compagnie che operano in mercati, quelli europei, altamente liberalizzati.

Biden-von der Leyen: gli artefici non hanno potere decisionale

La Piattaforma per Acquisti Energetici (PAE), istituita dalla Commissione Europea per fronteggiare la crisi e riunitasi per la prima volta ad inizio aprile, è stata incaricata di

  • facilitare flussi affidabili e a prezzi stabili verso l’Europa
  • efficientare l’utilizzo delle infrastrutture
  • definire nuove partnership sul modello USA/UE.

Un organo che nasce oggi per sciogliere questioni strategiche che da più di 20 anni non trovano risposta, come la limitata capacità di interconnessione fra l’hub di GNL sulla penisola iberica e il resto della rete gasifera europea. La sfida posta davanti alla PAE appare di insormontabili proporzioni, sia a causa dell’instabilità dei mercati internazionali che della celerità con cui queste scelte strategiche dovranno essere fatte.

Ad ora, pare comunque evidente che i partner europei siano particolarmente restii a siglare contratti di lungo termine con le shale companies americane, comprese le compagnie tedesche e francesi, invise al rischio di forniture nel lungo periodo, così come alla prospettiva di legarsi a processi di estrazione con consistenti emissioni nell’atmosfera. Un recente studio lega, infatti, la produzione di shale gas a più della metà delle emissioni globali da idrocarburi durante il decennio scorso.

L’import di GNL proveniente da massicce operazioni di fracking e sottoposto al lungo processo di liquefazione e ri-gassificazione, anch’esso complice di ulteriori emissioni nell’atmosfera, complicherebbe notevolmente il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione dei sistemi energetici nei termini oggi sostenuti da Washington e Bruxelles.

Oltre a questo, il rapporto fra le shale companies e la finanza americana si è particolarmente complicato a seguito della cancellazione di centinaia di cargo di GNL americano durante il picco della crisi pandemica nel 2020. Oggi, in questo clima d’incertezza, gli istituti di credito rimangono recalcitranti nell’appoggiare la costruzione di costose infrastrutture senza consistenti volumi di GNL assicurati dai buyers finali.

I nuovi terminal dovranno quindi essere realizzati basandosi su di un modello del tutto antitetico a quello precedente e altamente sensibile alle condizioni del mercato internazionale di GNL. L’indecisione europea nel sottoscrivere accordi di lungo periodo, finanziando di fatto la costruzione di terminal negli Stati Uniti, potrebbe rallentare l’intero processo e allontanare il raggiungimento del traguardo ultimo di 50 mld mc entro il 2030.

I competitor asiatici e il paradosso dell’accordo transatlantico

Ancora prima del conflitto, ad assicurarsi una corposa parte della nuova capacità dell’export americano sono state le compagnie asiatiche, e in particolare quelle cinesi. Saranno infatti queste a divenire i nostri principali competitors durante la fuga in avanti per dissociarci dal gas russo.

Dapprima le National Oil Companies (NOCs), seguite dai cosiddetti second-tier buyers, hanno siglato accordi di lungo periodo dai terminal di prossima apertura negli USA. Le stesse, attirate dai prezzi esorbitanti sul mercato europeo, hanno poi dirottato molti cargo verso il mercato europeo. Desiderose di massimizzare i profitti, persino le compagnie giapponesi si sono allineate a questa logica. Una strategia commerciale più che politica, malgrado i diffusi proclami e la pressione americana verso Tokyo per reindirizzare cargo di GNL verso i bisognosi alleati atlantici.

Se i prezzi dovessero mantenersi tali a quelli attuali, o addirittura far crescere ulteriormente lo spread fra TTF e JKM, il GNL americano arriverebbe naturalmente in Europa, inondandone il mercato e traendo profitti sino a pochi mesi fa insperati. Ma cosa succederebbe invece se nei prossimi mesi i prezzi dovessero calare consistentemente o se lo spread TTF-JKM si annullasse o invertisse, ritornando su dinamiche storiche di lungo corso? Da una parte, una tensione evidente emergerebbe fra le premesse di partnership energetica transatlantica dell’accordo Biden-von der Leyen e le ambizioni geopolitiche delle cosiddette “molecole della libertà” made in USA. Dall’altra, la crisi energetica europea rischierebbe di peggiorare ulteriormente, proprio nel momento in cui il GNL americano sarebbe vitale per mantenere in funzione le nostre produzioni e riscaldate le nostre abitazioni. Ciò lascerebbe l’Europa con le spalle al muro, stretta nella paradossale tenaglia del conflitto in Ucraina e della nostra crescente dipendenza dal gas russo.

L’inverno mite ha certamente facilitato l’arrivo del GNL americano in Europa. Eppure, con il crescere delle temperature durante l’estate e il copioso utilizzo di gas nella generazione elettrica, la domanda asiatica è destinata a riaccendersi. Sarà allora che le metaniere cinesi e giapponesi volgeranno nuovamente la prua verso i propri terminal regionali, facendo scattare una nuova corsa al rialzo dei prezzi di TTF e JKM per accaparrarsi i risicati volumi sul mercato a pronti oggi disponibili, in larga parte proprio dagli Stati Uniti.

In quel momento, qualsiasi price cap al gas europeo sostenuto oggi dall’Italia rischierebbe di divenire un boomerang. Ai compratori asiatici basterebbe offrire infatti un prezzo di poco superiore per assicurarsi i volumi necessari di GNL.

Il doppio pericolo del price cap e del populismo energetico in Italia

Correremmo quindi un doppio pericolo. Dapprima le compagnie europee sarebbero limitate nel competere per acquisire il gas necessario sui mercati internazionali. Secondariamente, ciò creerebbe ulteriori squilibri per gli stoccaggi europei, creando una trazione costante fra le condizioni di mercato internazionale e la linea di galleggiamento decisa dalla Commissione UE prima del prossimo inverno. Maggiori le tensioni, più alti saranno i costi sostenuti da consumatori e cittadini.

Quanto all’Italia, sinora il GNL americano ha ricoperto in maniera molto residuale la domanda di gas. Nel 2021, il nostro Paese ne ha importato 0,8 mld mc , pari a circa l’1,1% del totale italiano e l’8,6% dell’intero import di GNL. Sebbene la dipendenza dell’Italia dal GNL americano rimanga limitata, un maggiore afflusso di GNL americano verso l’Europa avrebbe comunque effetti positivi sui prezzi europei, vista la forte integrazione e la scarsità fisica di gas disponibile oggi sul mercato.

Se invece dovesse acuirsi la competizione con i paesi asiatici, eventualmente aggravata dal doppio pericolo del price cap, il nostro Paese risentirebbe della nuova spirale rialzista, con prezzi maggiori sul mercato a pronti e inesorabili conseguenze sul mercato elettrico. Inevitabilmente, l’aumento renderebbe maggiormente esose anche le stesse importazioni da Gazprom, declinate in parte considerevole proprio sul mercato spot per richiesta europea.

Se oggi vediamo sotto i nostri occhi le chiare implicazioni della nostra interdipendenza dal gas russo, l’uscirne comporta moltissime incognite. Il GNL americano può rientrare in una strategia politica ed economica chiara, articolata e consapevole dei propri limiti. Allo stesso modo, si deve tener conto di una doppia dimensione, nazionale ed europea, che guardi al breve e nel medio-lungo periodo. In sua assenza, perentorie dichiarazioni a mezzo stampa riguardanti cittadini posti davanti a dilemmi fra semplici abitudini quotidiane e futuri geopolitici corrono il rischio di profilarsi come mero “populismo energetico”. Con le elezioni politiche a soli 12 mesi, questo rimane la minaccia più grande per l’Italia.


Il post è il terzo approfondimento sulla diplomazia energetica italiana di fronte alla crisi ucraina dopo quelli su Algeria e Libia e Azerbaijan

Francesco Sassi è dottore in geopolitica dell’energia presso l’Università di Pisa e analista dei mercati energetici presso Rie-Ricerche Industriali ed Energetiche


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Foto: PxHere

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