22 Aprile 2022

Il miracolo della moltiplicazione dei gas

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The prospect of additional supply appears limited, scrive la IEA. Dare a intendere – come pare dalle numerose recenti missioni diplomatiche – che di gas disponibile da acquistare in tempi brevi ve ne sia, e in abbondanza, non solo è illusorio, ma anche costoso. Così come che la guerra (come la pandemia) vada favorendo la transizione energetica è l’ennesima non-verità che, ahimè, inquina da sempre la sua narrazione. 

A leggere gli esiti della via crucis che i governi europei stanno facendo per assicurarsi quantitativi addizionali di gas in sostituzione di quello russo – Algeria, Qatar, Egitto, Azerbaijan, Congo, Angola, Mozambico –, verrebbe da credere che nel mondo siano disponibili in tempi brevi decine di miliardi di metri cubi. Che attendono solo di essere acquistati.

Non è così. Darlo a intendere è illusorio e costoso.

Illusorio perché è ben noto a tutti, o quasi, che di capacità produttiva inutilizzata di metano non ve ne è in giro per il mondo, mentre in taluni casi sono le capacità di trasporto ad essere sature. Come nel caso dell’Azerbaijan che va aumentando le sue esportazioni verso l’Europa (via Tanap e Tap) portandole al quantitativo contrattualizzato e alla capacità dei gasdotti di 10 miliardi di metri cubi.

The prospect of additional supply appears limited

Nel recente Gas Market Report Q2-2022 dell’IEA (pag. 7), si legge che: “The prospect of additional supply [of gas] appears limited”. In taluni paesi le disponibilità addizionali potranno aversi solo tra alcuni anni, necessitando di considerevoli investimenti.

Che non vi fosse spare capacity di gas nel mondo lo si era d’altronde capito (o si sarebbe dovuto capire) nella seconda metà del 2021, quando la grande crisi energetica aveva fatto schizzare i prezzi del metano sino a 30 volte (sulla piattaforma nazionale PSV dai 2 doll/Mil. Btu della metà del 2020 alle punte di 60 dollari di fine dicembre 2021).

Esplosione dovuta a una scarsità di offerta a fronte di una forte crescita della domanda di gas naturale sia in Europa che in Asia. Se nell’arco di quest’anno, secondo il citato rapporto dell’IEA, la domanda di gas naturale potrebbe ridursi in Europa ed Eurasia di circa il 5% (per 50 miliardi di metri cubi), nel medio termine riprenderà la sua crescita, specie per il previsto raddoppio di quella cinese.

Un’assurda e dannosa concorrenza intra-europea e il take or pay (double)

Costoso per due ragioni: perché i paesi europei si stanno facendo un’assurda concorrenza e perché la pressione ad acquistare – in un mercato del venditore (seller’s market) – farà salire i prezzi.

Aspetto, quest’ultimo, che nei comunicati ufficiali non viene mai citato quasi fosse di poco conto. Se la Commissione avesse fatto il suo mestiere, coordinare le politiche degli Stati membri, anziché prospettare immaginifiche previsioni di riduzione delle importazioni di metano (due-terzi entro fine anno, pari a 100 miliardi di metri cubi!), questa dannosa concorrenza intra-europea si sarebbe potuta evitare.

Vi è poi un altro interrogativo incombente cui non si sta dando adeguata attenzione, se non su questo blog da parte di Salvatore Carollo. Ed è il fatto che i contratti a lungo termine in vigore tra Gazprom e imprese europee impongono al compratore di ritirare il gas ovvero pagarlo se non lo si ritira.

Vi è chi sostiene che in tempi di guerra i contratti possono anche non rispettarsi. Ne dubito fortemente, a meno di contenziosi giuridici che durerebbero anni e anni. La conclusione è che finiremmo per pagare due volte il gas: una per il metro cubo non ritirato dalla Russia ma che dovremo egualmente pagare, l’altro per il metro cubo che andrebbe a sostituire il primo, a prezzi prevedibilmente superiori.

La complessa posizione di Eni: schiacciata tra il suo azionista di maggioranza (il governo) e il suo primo venditore (la Russia)

Ne è ben consapevole Eni che nel 2021 ha acquisito dalla Russia il massimo storico di 30,2 miliardi di metri cubi di gas naturale (rispetto ai 22,5 miliardi del 2020), su un portafoglio complessivo di circa 70 miliardi di metri cubi (pari al 43%). Se volesse rinunciare al gas russo potrebbe farlo, attingendo alle altre sue disponibilità, ma a costo di perdite per diverse decine di miliardi di dollari.

Nell’ultimo Annual Report Form 20-F di Eni sta scritto (pag. 9): “Although Eni has access to increased supplies from other geographies in Eni’s portfolio and from producing countries where Eni has established relationships, should supplies from Gazprom and other Russian natural gas suppliers be disrupted (including as a result of sanctions prohibiting or restricting purchases of natural gas from Russia) Eni may suffer adverse effects which Eni cannot currently predict or quantify but could be material.”.

La posizione di Eni è d’altronde estremamente complessa: schiacciata tra la volontà del governo, tra l’altro suo azionista di maggioranza, di ridurre le importazioni di gas dalla Russia e l’esserne il suo primo acquirente in un rapporto di collaborazione che perdura dal 1969, quando venne concluso il primo contratto di importazione per 6 miliardi di metri cubi.

È ben difficile in questi giorni dar ragione a Putin ma è nel vero quando sostiene che è difficile in breve tempo fare a meno del suo gas, mentre anche per il petrolio e suoi derivati la capacità produttiva disponibile altrove è molto ridotta.

La produzione di greggio in Russia è crollata a livelli che non si vedevano dal lontano 2006. Rimpiazzarla è estremamente difficile per la molto esigua spare capacity di petrolio, quasi tutta concentrata in Arabia Saudita che ha confermato il suo sostegno a Putin.

Non solo gas: petrolio, carbone, nucleare, pale&pannelli

Il calo delle esportazioni di prodotti petroliferi dalla Russia (o il loro embargo) va mettendo poi in crisi le raffinerie europee notoriamente deficitarie di distillati medi a partire dal diesel i cui prezzi sono quindi destinati a crescere. Insomma: ogni embargo rischia di essere un boomerang ed è difficile discernere tra vincitori e vinti.

Pensare di sostituire il tutto con pale&pannelli cinesi non porta da nessuna parte mentre crea nuove dipendenze. Con buona pace degli astigmatici ecologisti che sostengono sorridenti che la guerra è valsa almeno ad accelerare la transizione energetica e che il mitico obiettivo net-zero è sempre più vicino.

Magari!

I dati dicono altro: che il carbone è stata la fonte energetica che nel 2021 è aumentata di più e che a gennaio di quest’anno nell’intera area OCSE la produzione elettrica da fonti fossili (specie gas e carbone) è cresciuta del 10% rispetto a dicembre contro il 2,8% delle rinnovabili, la cui quota sull’intero mix elettrico si è ridotta di un punto al 30,7%.

La guerra ha modificato le priorità politiche nell’agenda dei governi: passate da quella climatica a quelle della ‘convenienza economica’, che vede il carbone come fonte favorita, e della ‘sicurezza energetica’ che va supportando la affannosa ricerca del gas e il ritorno al nucleare in Francia e Gran Bretagna come auspicato dallo stesso vicepresidente Timmermans (con buona pace della dimenticata Tassonomia).

Non meno importante è la ripresa delle attività di ricerca ed estrazione di petrolio e gas nell’intero Mare del Nord, con investimenti per decine di miliardi di dollari.

Una riconversione non meno evidente la si può poi osservare negli Stati Uniti. In vista delle elezioni mid-term dell’8 novembre, l’Amministrazione Biden ha stoppato il grande piano di finanziamento di 500 miliardi di dollari delle tecnologie low-carbon virando decisamente a favore di un aumento della produzione interna di idrocarburi e consentendo alle imprese di effettuare ricerche in aree prima interdette, con una previsione di un aumento a breve della produzione interna di petrolio di 900 mila bbl/g.

Che la guerra vada favorendo la transizione energetica è l’ennesima non-verità che, ahimè, inquina da sempre la sua narrazione.  


Alberto Clô è direttore della rivista Energia e del blog RivistaEnergia.it


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