Da guerra e crisi energetica una forte spinta alla decarbonizzazione. Così sembrerebbe stando ai recenti scenari BP e McKinsey. Tuttavia, la realtà fa ritenere che dopo la guerra niente sia più come prima. Nuove priorità politiche sono emerse e se ne deve tener conto.
Sono usciti recentemente diversi rapporti che sostengono come la crisi energetica e la guerra che l’ha ulteriormente acuita abbiano favorito un’accelerazione della transizione energetica verso l’obiettivo di una piena neutralità carbonica entro metà secolo.
Uno di questi rapporti è l’Energy Outlook 2022 della BP. In tutti e tre gli scenari presentati (Accelerated, Net Zero, New Momentum), la curva delle emissioni dopo il 2020 declina vertiginosamente in coerenza con gli impegni assunti nell’Accordo di Parigi del 2015 e le raccomandazioni dell’IPCC.
La crisi energetica e la guerra non hanno minimamente alterato le tendenze in atto, nonostante la crisi delle economie, l’esplosione dell’inflazione, la caduta degli investimenti, il riemergere della sicurezza energetica come priorità dei governi. La quota dei combustibili fossili è prevista crollare dal 2020 a metà secolo dall’80% a percentuali comprese tra 60% e 20%. Le rinnovabili zompano da meno del 20% sino ad oltre il 60% mentre il peso dell’elettricità aumenta, coerentemente, sino al 50%.
L’energia del 2050 secondo BP: rinnovabili al 60%, penetrazione elettrica al 50%, fossili -60%, crollo domanda petrolifera
La domanda di petrolio – che ha contribuito nel 2021 per la maggior parte dei 164 miliardi di dollari di ricavi e dei circa 13 di profitti della società – è prevista crollare dai 100 milioni di barili al giorno del 2020 a livelli a metà secolo compresi tra 80 e poco più di 20.
Diversamente dalla malcelata soddisfazione che traspira dalle pagine del rapporto, per BP (e le altre imprese petrolifere) parrebbe paventarsi uno scenario da incubo.
Dire tutto e il suo contrario: una strategia comunicativa ad alto rischio
Eppure, così non parrebbe stando alle tinte rosee con cui BP dipinge il suo futuro, con un margine operativo lordo annuo (Ebitda) previsto da qui a fine decennio in 30-35 miliardi di dollari.
I numeri degli scenari e dei bilanci proprio non tornano ed anzi collidono, perché delle due l’una: o crollano i consumi di petrolio, come indicano gli scenari, trascinando al ribasso i profitti; o non crollano consentendo ottimi bilanci.
Dire tutto e il contrario è una strategia comunicativa ad alto rischio, anche se la BP non è certo sola a perseguirla nel tentativo di accontentare insieme mondo green e investitori. Sulla homepage della BP sta d’altra parte scritto che “continuiamo a lavorare duro per produrre l’energia affidabile di cui il mondo abbisogna [alias il petrolio, n.d.a.] mentre investiamo sull’energia del futuro”.
L’energia del 2050 secondo McKinsey: rinnovabili all’85%, quota elettrica triplicata, domanda petrolifera fino a -65%
Sulla medesima frequenza della BP è il rapporto Global Energy Perspectives 2022 elaborato dalla McKinsey. I diversi scenari indicano – indipendentemente dalla durata del conflitto, dal suo impatto sull’economia, dall’andamento dei mercati energetici – risultati simili a quelli di BP: aumento di tre volte dell’elettricità sui consumi energetici, crollo della domanda di petrolio (da 102 a 35-50 mil. bbl/g), maggior resilienza del gas naturale, trionfo delle rinnovabili al 30% del power mix nel 2030 e 85% nel 2050.
Domanda globale di fonti fossili, milioni TJ
Fonte: McKinsey
Le fossili devono comunque continuare a svolgere un’indispensabile funzione di back-up: segno, ed è una gran brutta notizia, che le tecnologie ancora per decenni non saranno in grado di sopperirne la discontinuità (frenandone quindi lo sviluppo).
L’incertezza degli strumenti, la certezza dell’esito
McKinsey riconosce che le rinnovabili potrebbero incontrare nel loro tumultuoso sviluppo vincoli nel consumo di territorio e nell’accettabilità sociale, potendosi in tal caso far ricorso al nucleare o alla CCUS.
Ma l’esito finale è scolpito nei numeri: la decarbonizzazione procederà comunque anche se non sarà in grado di contenere l’aumento della temperatura entro i 2 e preferibilmente entro 1,5 °C, come raccomandato dall’IPCC, con un aumento della temperatura della temperatura nel 2100 tra 1,7 e 2,4 °C.
Quel che dovrebbe suonare come un clamoroso fallimento di quel che si propone, anche considerando gli immani investimenti che dovrebbero sostenersi nelle ‘transition technolgies’.
Ai sentimenti di soddisfazione che questi rapporti sollevano, si contrappone tuttavia una realtà delle cose che porta a conclusioni di ben altro se non opposto segno. Una realtà che fa ritenere che dopo la guerra niente sia più come prima perché nuove priorità politiche sono emerse – dalla sicurezza alla convenienza economica dell’energia – di cui si deve tener conto.
Nuove priorità, anche per la finanza
Non è priva di significato la comunicazione di Black Rock, il maggior fondo di investimenti al mondo con 10 mila miliardi dollari, di non voler più sostenere proposte sul clima nei confronti delle imprese partecipate perché le ritiene, dopo l’Ucraina, troppo estremiste essendo ora necessario realizzare “più investimenti nelle fonti tradizionali per rafforzare la sicurezza energetica”. Un’inversione a U destinata a condizionare altri fondi di investimento e le strategie delle compagnie energetiche.
Lo slogan che meglio fotografa la nuova realtà è molto semplicemente “Coal’s Comeback”.
Il carbone è la fonte che nel 2021 ha registrato il maggior incremento dei consumi, con un aumento nella sua generazione elettrica del 9%, ad un nuovo massimo storico di 10.350 miliardi di Kwh, con conseguente record nelle emissioni cresciute del 6%.
Secondo l’ONG Urgewald, i finanziamenti del sistema bancario mondiale a società impegnate nell’industria del carbone ammontavano a fine 2021 a 1.500 trilioni di dollari, destinati evidentemente a proiettarsi in un lungo arco di tempo.
Il carbone ha assunto un’assoluta priorità nelle politiche governative di tutti i paesi magari riattivando, come nel nostro paese, vecchie centrali da lungo tempo in disuso. In barba alle solenni promesse fatte nel novembre scorso alla COP26 di Glasgow.
Coal’s Comeback
Secondo l’Agenzia di Parigi, i consumi di carbone continueranno ad aumentare sino al 2024 seppur ad un minor tasso di crescita ad oltre 8 miliardi di tonnellate che salirebbero a 8,2 miliardi se non si avverassero le prospettate sue riduzioni di 102 milioni e 77 milioni rispettivamente in Europa e Stati Uniti. Quel che non può darsi per scontato.
A motivare il maggior ricorso al carbone stanno i frutti marci della crisi energetica e della guerra: sua maggior convenienza rispetto al gas, necessità di ridurre il ricorso al gas russo, sua maggior disponibilità sui mercati e maggior sicurezza geopolitica.
Tutte ragioni che è presumibile permangano anche dopo la fine della guerra – da cui sarebbe opportuno trarre le opportune lezioni – e di cui non si può non tener conto negli scenari come quelli elaborati da BP e McKinsey.
Scenari che appaiono più come wishfull thinking che come reale prospettiva, non potendo basare il nostro futuro sulle sole speranze (sincere o meno che siano).
Alberto Clô è direttore della rivista Energia e del blog RivistaEnergia.it
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