Aver raddoppiato la produzione interna di petrolio non vuol dire né avere esaurito del tutto la domanda interna (il doppio dell’offerta domestica) né – men che meno – poter fare a meno dei volumi di importazioni estere di petrolii idonei a far “girare” gli impianti di raffinazione. Pur interessando in modo più spiccato l’Europa, l’embargo sul petrolio russo ha quindi un impatto non irrilevante anche per gli Stati Uniti.
A partire dall’invasione militare dell’Ucraina da parte della Federazione Russa lo scorso 24 febbraio abbiamo in numerose occasioni rivolto la nostra attenzione al tema dell’approccio sanzionatorio adottato dal blocco Occidentale nei confronti di Mosca. In particolare, e soprattutto sul tema “embargo energetico” abbiamo stigmatizzato un errore ottico a nostro parere importante: il grado di vulnerbilità dell’Europa rispetto a quello degli Stati Uniti d’America.
Il grande fraintendimento nasce da un primigenio errore: considerare gli Stati Uniti energeticamente indipendenti a fronte di una invece patente dipendenza europea rispetto in generale alle forniture energetiche ed in particolare a quelle russe.
La shale revolution e il grande fraintendimento
Mentre è del tutto chiaro che il secondo punto sia vero (l’Europa non è dotata né di giacimenti di petrolio o gas metano o carbone in grado di soddisfare il proprio fabbisogno energetico primario), meno ovvio è che sia vero il primo assunto e che pertanto con immediatezza Washington abbia potuto sin dai primi giorni successivi all’invasione dichiarare un embargo ai commerci energetici con Mosca.
Il fatto che la shale oil revolution abbia fatto raddoppiare l’estrazione di petrolio statunitense dai 5,6 mil bbl/g del 2011 ai 12,2 del 2019 rende invero tale circostanza idonea a grandi fraintendimenti.
Con una capacità di raffinazione complessiva da 18 mil. bbl/g (la metà della quale situata lungo il golfo del Messico tra Texas e Louisiana), gli Stati Uniti d’America consumano quotidianamente circa 20 mil. bbl/g di carburanti ottenuti dai processi di trasformazione chimico-fisica del petrolio greggio. L’Unione Europea si assesta ad un consumo giornaliero di 11,5 mil. bbl/g.
Ma parlare di consumi in termini di “barili al giorno” senza entrare nel merito di cosa il sistema socio-economico di ciascuna differente latitudine effettivamente domandi è particolarmente scivoloso.
USA: 12 mil. bbl/g di greggio prodotti vs 20 mil. bbl/g di carburanti consumati
Si osservino ad esempio i due grafici seguenti, ciascuno dei quali decompone in termini percentuali lungo gli ultimi vent’anni il tipo di carburante consumato da Stati Uniti (sinistra) ed Unione Europea (destra) sul totale della domanda complessiva di prodotti derivati dal petrolio.
L’Europa, patria del motore diesel oltre che potenza manifatturiera a livello globale, mostra che oltre la metà di domanda aggregata è riferita da oltre un ventennio alla voce fuel oil: diesel e derivati.
Di tutt’altro tenore la domanda di carburanti propria degli Stati Uniti: ben oltre metà della stessa è relativa al combinato di benzina (stabilmente sopra il 40% della domanda totale) e Jet Fuel, macroclasse relativa ai carburanti per aviotrasporto.
La differente struttura della domanda di prodotti rispecchia la differente tipologia di greggio prevalentemente disponibile in loco.
Il perché la struttura delle due domande aggregate sia così diversa risiede evidentemente sia nella differente struttura del sistema economico che di essa è espressione che dalla tipologia della materia prima – petrolio greggio – prevalentemente disponibile in loco.
L’Europa è un chiaro importatore netto. È storicamente legata alla trasformazione di petrolii provenienti dai mari del Nord (basket BFOET), dalla Russia (varietà Urals) e dal bacino MENA le cui caratteristiche di contenuti solforosi e densità (gravity) hanno nel corso dei decenni dettato la costruzione di impianti di trasformazione relativamente rigidi, configurati sia sulle coste nord-occidentali d’Europa (NWE) che lungo le coste del mediterraneo (Meds) al fine di sposare le sostanzialmente stabili caratteristiche chimico-fisiche della materia prima da esse impiegata con la natura della domanda proveniente dal sistema socio-economico locale.
Gli Stati Uniti sono storicamente un importatore netto – per anni il più grande importatore netto al mondo prima del secolo cinese – che solo nell’ultimo quinquennio ha visto però raddoppiare la propria produzione indigena. La localizzazione di oltre il 50% della propria capacità di raffinazione lungo le coste del golfo del Messico di Texas e Louisiana e di oltre il 20% nel Midwest è squisitamente legata infatti alla natura esterna della provenienza dei petrolii trasformati: d’importazione OPEC ed estrazione dal golfo del Messico per Texas e Lousiana; d’importazione canadese ed estrazione locale per il Midwest.
Stiamo quindi parlando di impianti la cui configurazione industriale è meno rigida di quelli europei proprio in ragione del ben più vasto ventaglio di petrolii che hanno nel corso dei decenni dovuto imparare a gestire a fronte di una sempre molto dinamica crescita economica interna e di una strutturale alea relativa ai flussi di importazione waterborne.
Un’indipendenza presunta
Questa specifica di carattere storico è fondamentale per poter cogliere la radice del grande fraintendimento relativo proprio alla presunta indipendenza energetica USA e dell’altrettanto presunta impermeabilità alle sanzioni sul petrolio russo.
Aver raddoppiato la produzione interna di petrolio di varietà compatibile con il West-Texas Intermediate non vuol dire né avere esaurito del tutto la domanda interna (gli USA ancora oggi consumano volumi di carburanti eccedenti di poco meno del doppio i volumi di produzione petrolifera indigena) né – men che meno – poter fare a meno dei volumi di importazioni estere di petrolii idonei a far “girare” gli impianti di raffinazione.
Nonostante la loro maggiore ed indubbia flessibilità operativa, infatti, non esiste alcun modo per poter consentir loro di abbandonare del tutto le miscele di petrolii d’importazione a maggior contenuto di zolfo e maggior densità da combinare poi con volumi di petrolii autoctoni a loro volta a basso contenuto solforoso ed a minor densità.
Se è infatti vero che le importazioni di petrolio russo hanno nel corso degli anni 2019, 2020 e 2021 rappresentato tra l’1% ed il 6% delle importazioni complessive di petrolio da parte degli USA (importazioni in effetti poco meno che dimezzatesi dagli oltre 10 mil bbl/g del 2006 ma che rimangono pur sempre a circa 6 mil. bbl/g nel 2021), è pure vero però che in relazione al tipo di petrolio importato dalla Federazione Russa essa si collocava tra i primi esportatori negli USA: in particolare, la varietà Light Sour (bassa densità ma alto contenuto solforoso) ha occupato per tre anni consecutivi la seconda posizione tra gli esportatori verso gli States dopo il Canada.
Il combinato disposto di sanzioni dirette alle importazioni petrolifere russe negli Stati Uniti ed indirette (prevalentemente connesse ai complessi temi dell’assicurabilità dei vettori marittimi di trasporto a prescindere dalla loro destinazione verso gli USA) ha fatto calare di molto non già il numero di barili di petrolio disponibili a livello globale quanto proprio il tipo di greggio immesso sul mercato globale dalla Federazione Russa.
Attenti al diesel
La varietà di cui al momento c’è un importante deficit a livello globale, infatti, è proprio quella dei medium-light sour grades, elemento imprescindibile tanto per la produzione di fuel oil tanto nelle geografie del NWE quanto in quelle della Gulf Coast statunitense.
Il tracollo dei volumi di scorte di Heating Oil e Fuel Oil negli Stati Uniti d’America (che pure come chiarito consumano prevalentemente gasoline e non diesel sul fronte della domanda interna) così come pure il tanto poderoso quando molto anomalo grado di backwardation sulla struttura a termine dei contratti futures sul prodotto Heating Oil per consegna negli USA (si veda il grafico sottostante) espone in maniera molto forte la dura fattualità dell’estrema interconnessione che avvinghia i sistemi di approvvigionamento energetico a livello globale.
La crisi del diesel è – e non da oggi come abbiamo ripetutamente ammonito già da molti anni – e rimane il più forte campanello d’allarme rispetto alle criticità scaturenti dall’obliterazione repentina non già dei volumi ma dei tipi di petrolii provenienti dalla Federazione Russa.
Andrea Paltrinieri, Professore associato presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore
Domenicantonio De Giorgio Professore a contratto, Università Cattolica del Sacro Cuore ed Ufficio Studi “EnergyWorking”
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