17 Maggio 2022

Una proposta di civiltà

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Dopo 7 anni, dal 2021 è entrata in vigore la Conflict Minerals Regulation: la normativa con cui l’UE obbliga gli importatori di stagno, tantalio, tungsteno e oro a trasparenza e diligenza onde evitare di alimentare il lavoro forzato e altre violazioni dei diritti umani. Una normativa sacrosanta, ma che si dovrebbe poter aggiornare ed estendere a tutti quei minerali che presentano (o presenteranno) le medesime criticità. Inclusi quelli per la transizione energetica.

Dall’1 gennaio 2021 è entrato in vigore il regolamento dell’Unione Europea Conflict Minerals Regulation che rende possibile la tracciabilità di quattro minerali provenienti da zone di conflitto – stagno, tantalio, tungsteno e oro (noti come 3TG) – obbligando gli importatori dell’UE, per legge, ad esercitare la due diligence, il dovere di diligenza.

Con questo regolamento l’UE mira ad arginare il commercio di minerali utilizzato per finanziare gruppi armati, alimentare il lavoro forzato e altre violazioni dei diritti umani oltre ad incrementare la corruzione e il riciclaggio di denaro.

Una normativa che ha richiesto sette anni per passare dalla fase di proposta (2014) a quella operativa, ma che presenta, a nostro avviso, un limite: la mancata possibilità di adeguamento del numero dei minerali a cui applicare il dovere di diligenza. Più opportuno sarebbe convertirla in una lista che viene aggiornata periodicamente sul modello di quella dei metalli critici.

Una scomoda ma sacrosanta lista

Perché in questi ultimi anni si sono aggiunti nuovi minerali che avrebbe senso includere in questa scomoda lista.

Il caso probabilmente più noto è quello del cobalto, da quando nel 2019 il gruppo di difesa International Rights Advocates ha intentato una causa contro Alphabet, Apple, Microsoft, Dell e Tesla poiché stavano consapevolmente favorendo l’uso crudele e brutale di bambini ed adolescenti nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) per estrarre questo componente chiave di ogni batteria utilizzata nei dispositivi elettronici da loro prodotti.

La causa si è conclusa qualche mese fa con la sentenza del giudice distrettuale degli Stati Uniti, Carl J. Nichols, che ha rassicurato le Big Tech statunitensi sullo scampato pericolo di una class action. A detta sua, è vero che si tratta di “eventi tragici”, ma non esiste un collegamento con i giganti della tecnologia statunitensi in quanto “l’unica vera connessione è che le aziende acquistano cobalto raffinato”.

Se il cobalto fosse incluso nella Conflict Minerals Regulation europea o nell’equivalente statunitense (sezione 1502 del Dodd Frank Act), gli importatori avrebbero dovuto seguire le linee guida OCSE che interessano l’intera catena di approvvigionamento: dalla miniera a monte, alla raffinazione a valle.

L’eco mediatico delle vicende dei minatori – bambini ha spinto molte aziende del settore a rendersi proattivi. Le aziende che producono componentistica per l’automotive (OEM, original equipment manufacturer) sono arrivate a proporre l’adozione della tecnologia blockchain per tracciare e documentare le catene di fornitura dei materiali a livello globale. Una proposta che però, ad oggi, non ha registrato particolari progressi.

Quel potrebbe cambiare realmente le cose è invece l’iniziativa Responsible sourcing del London Metal Exchange (LME) di vietare o rimuovere i marchi che non sono approvvigionati in modo responsabile entro il 2022, intrapresa per aiutare a sradicare dal libero mercato il metallo contaminato dal lavoro minorile o dalla corruzione.

Il caso Myanmar

Due minerali provenienti da zone di conflitto e che potrebbero (o meglio dovrebbero) rientrare in queste liste sono, ad esempio, il neodimio e il disprosio, due terre rare estratte in Myanmar ma raffinate in Cina e impiegate nei magneti permanenti.

L’introduzione in Cina dal 2015 di normative ambientali più stringenti ha reso meno redditizio estrarre questi minerali sul suolo cinese, favorendone l’import dal vicino Myanmar, le cui miniere si trovano per lo più al confine con lo Yunnan cinese, nella provincia di Kachin oggi sotto il controllo della milizia armata di un locale signore della guerra.

Stando a fonti locali, l’attività mineraria è causa di espropriazione e di sfruttamento di manodopera locale da parte di società cinesi o comunque riferibili alla Cina. È quindi praticamente inevitabile che il disprosio e il neodimio finiscano all’interno di magneti permanenti montati su turbine eoliche o auto elettriche vendute dalla Cina in Europa.

Analogamente a quanto accaduto per il caso del cobalto, organi di stampa e ONG hanno interpellato le aziende che utilizzano questi magneti: Vestas, Siemens Gamesa. Renault e Stellantis hanno rifiutato di commentare mentre Tesla, BMW, Volkswagen e Volvo hanno sottolineato di richiedere ai propri fornitori la sottoscrizione di impegni in materia di diritti umani e ambiente, ma nessuna delle quattro aziende ha specificamente controllato se il disprosio e il neodimio del Myanmar rientrano nelle loro catene di approvvigionamento.

Riuscire a identificare l’origine dei minerali una volta giunti in Cina è d’altronde praticamente impossibile. Le tre grandi imprese statali che acquistano terre rare dal Myanmar – China Southern Rare Earths Group, Chinalco e Guangdong Rare Earths – aggregano i minerali una volta importati e l’unica certificazione rilasciata è e relativa alle normative ambientali cinesi, con cui si consente l’esportazione dei magneti.

“Non possiamo escludere che”

La giustificazione delle case automobilistiche è così sempre la medesima: nell’era delle catene di approvvigionamento e delle reti globalizzate, non possiamo escludere di utilizzare materie prime provenienti da qualsiasi paese. Di fatto, gli attuali protocolli relativi a turbine eoliche o auto elettriche non sono in grado di identificare l’origine della materia prima con cui vengono realizzati questi componenti.

Ma se cobalto, terre rare o altri minerali venissero classificati come prodotti in aree di conflitto, i produttori sarebbero obbligati a rispettare la normativa sulla due diligence e questo comporterebbe significative difficoltà alla loro distribuzione nel mercato europeo.

Certo esiste il rischio che le normative siano eludibili, come insegna il caso Auxin Solar Inc. “la compagnia solare più odiata d’America”. Questo piccolo produttore di pannelli solari statunitensi è stato denunciato per aver aggirato i dazi doganali imposti ai produttori cinesi (per tutelare la produzione nazionale) semplicemente instradando le loro operazioni attraverso altri paesi del sud-est asiatico, come Malesia, Tailandia, Vietnam e Cambogia.

Non sacrificare la causa dei diritti umani per quella del clima

Se il Dipartimento di Stato USA scoprirà che i produttori cinesi delle tecnologie fotovoltaiche sono, in effetti, impegnati nell’elusione e li riterrà responsabili delle loro pratiche commerciali sleali e illegali, le installazioni di energia solare potrebbero, secondo la Solar Energy Industries Association, calare del 48% solo nell’anno corrente.

E se quanto sta accadendo negli USA venisse replicato in Europa, le incertezze legate al costo e alla disponibilità dei prodotti provocherebbero un ulteriore rallentamento della transizione energetica, in particolare sul fronte eolico e dei veicoli elettrici.

Ma il fatto che le norme possano essere aggirate non significa che non sia opportuno adottarle. Anche perché è pur sempre possibile perseguire chi le infrange, come dimostra il caso Auxin Solar. Deve però esserci la volontà politica di introdurre questa tipologia di norme che, se da una parte rischiano di ostacolare la grande corsa industriale alla transizione energetica, dall’altra evitano di sacrificare – come nella troppo trascurata vicenda degli schiavi Uiguri in Cina – la causa dei diritti umani per quella del clima.


Giovanni Brussato è ingegnere minerario e autore del volume Energia verde? Prepariamoci a scavare, ed. Montaonda


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Foto: Unsplash

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