L’impatto della guerra è “sistemico, severo e sta accelerando” dice il Segretario ONU Guterres. Prima di prendere in esame i paesi africani, la rubrica sulla diplomazia energetica italiana curata da Francesco Sassi fa il punto sullo stato delle crisi generate – quella alimentare – o acuite – quella energetica del gas – dal conflitto russo-ucraino.
Dopo oltre 100 giorni dall’inizio del conflitto fra Russia e Ucraina, le tensioni internazionali stanno imprimendo ulteriore pressione in tutti quei contesti di crisi strutturale pre-esistenti il 24 febbraio scorso. Un rapporto recentemente stilato dall’ONU stima in 1,6 miliardi le persone distribuite in quasi 100 paesi che sono al momento esposte almeno ad una delle dimensioni innescate dalla crisi.
Sono invece 1,2 miliardi coloro che vivono in paesi vulnerabili a tutte e tre le sue dimensioni, ovvero quella energetica, alimentare e finanziaria. Per lo stesso Segretario ONU Guterres, l’impatto della guerra è “sistemico, severo e sta accelerando”.
1/3 dell’offerta globale, il grano confinato in Russia e Ucraina
In una corsa contro il tempo per evitare una “catastrofe alimentare di proporzioni globali”, inclusa un’estesa instabilità politica e sociale nel continente africano, l’attenzione è nuovamente sui colloqui per consentire al grano ucraino un passaggio sicuro verso il Medio Oriente, il Nord Africa e da lì a Sud.
Da più parti, emerge la possibilità che il grano sia stato in parte consistente espropriato dalle autorità russe e venduto attraverso la Turchia. Dopo aver accusato l’Occidente di ingigantire a fini politici la questione, il Cremlino ha chiesto il ritiro delle sanzioni dirette e indirette alla Russia per consentire al grano della Federazione di raggiungere i mercati internazionali.
Contando la produzione di Russia e Ucraina, circa un terzo dell’offerta globale rimane confinata nei due Paesi, imponendo ulteriori sofferenze a popolazioni già stremate.
Nel frattempo, la guerra d’attrito nell’Ucraina orientale si è abbattuta sulla prima infrastruttura energetica verso l’Europa: Sokhranivka, uno dei due punti d’interconnessione tra la rete del gas russa e quella ucraina. I flussi si sono interrotti dopo che il controllo russo della stazione di compressione di Novopskov ha, secondo l’autorità ucraina GTSOU, minato la sicurezza del transito e sono stati compiuti tentativi di sottrarre lo stesso gas nel Donbass controllato dall’esercito di Mosca.
1/3 di quanto contrattualizzato, il transito quotidiano in Ucraina del gas russo
Ne consegue che il transito quotidiano ucraino di gas russo permane a poco più di un terzo della capacità contrattualizzata.
La seconda “vittima” infrastrutturale, questa volta falciata dalla diplomazia russa, è il transito dal gasdotto Yamal. Per chissà quanto tempo questo rimarrà inutilizzabile, visto lo stop delle forniture di gas russo alla Polonia e il sanzionamento del gasdotto EuRoPol Gaz, di cui la stessa Gazprom è azionista insieme alla polacca PGNiG.
Ultima wild card a inserirsi nel contesto della sicurezza energetica europea, nel pomeriggio del 14 giugno Gazprom ha dichiarato l’incapacità di sostenere flussi superiori ai 100 milioni di metri cubi al giorno attraverso Nord Stream 1. Con un livello di utilizzo ridotto di oltre il 40% rispetto la capacità dichiarata per un guasto alla stazione russa di Portovaya causata, secondo Gazprom, da un ritardo da parte di Siemens nella riparazione di equipaggiamenti di pompaggio, i flussi di gas russi sono diventati ulteriormente più instabili.
La prossima manutenzione, proprio su Nord Stream 1, che interromperà del tutto il transito di gas russo verso la Germania dall’11 al 21 luglio prossimi rischia di aggravare ulteriormente un quadro già molto complesso.
Nonostante i ridotti volumi dell’export di gas che continuano in queste settimane e le sanzioni alla Federazione Russa, il ministero delle Finanze si aspetta di ricevere circa 10,6 miliardi di euro aggiuntivi di introiti dalla vendita di idrocarburi nei soli mesi di maggio e giugno.
Esplosione in Texas, un duro colpo per il salvifico GNL americano
Sull’altra sponda dell’Atlantico, l’esplosione dell’8 giugno all’impianto di Freeport in Texas ha inferto un duro colpo al salvifico GNL americano che ha fatto da sfondo all’accordo fra Commissione Europea e Amministrazione Biden per liberarci dalla dipendenza russa (si rimanda all’analisi del 14 Aprile Diplomazia energetica italiana/3: l’accordo UE-USA).
Freeport LNG opera il 20% dell’intera capacità di liquefazione degli Stati Uniti, il 4% dell’offerta globale di GNL. La sua chiusura è stata annunciata dalle autorità dapprima per almeno tre settimane. Il 14 giugno, la società che gestisce l’infrastruttura di Quintana Island ha confermato che il terminal non ritornerà a piena produzione prima di fine anno. Con una domanda europea che ha attrarre in media circa il 70% dell’export da Freeport nel corso degli ultimi mesi, si rischia la perdita per l’Europa di un volume compreso fra i 6 e i 10 mmc di gas nel 2022.

Fonte: Reuters/Refinitiv Eikon
Sotto un forte stress, il TTF ha reagito facendo segnare l’ennesima impennata del 2022. Per il doppio effetto delle restrizioni all’export di Russia e Stati Uniti, il prezzo del gas sul mercato TTF ha dapprima interrotto la quieta e lenta decrescita nelle ultime settimane sino alla soglia degli 80€/MWh per risalire a oltre i 90€/MWh per le quotazioni al mese di luglio.
Serve poca immaginazione per capire quale sarebbe stato l’effetto sui prezzi del gas se i sindacati dei lavoratori offshore norvegesi avessero innescato uno sciopero diffuso su varie piattaforme offshore dopo aver richiesto un aumento salariale oltre la soglia dell’inflazione riducendo così l’output di gas del paese, già ridimensionato da interruzioni non programmate.
Un mercato tuttora regionalizzato
Le reazioni internazionali all’incidente di Freeport sono state invece diversificate, ribadendo ancora una volta che, a dispetto della “mercificazione” e globalizzazione del mercato del gas dovuta proprio alla produzione di GNL, quello del gas naturale rimane un mercato tuttora regionalizzato e perciò molto più sensibile a eventi di natura politica, sociale, economica e climatica, localizzati geograficamente in una specifica area.
Negli stessi Stati Uniti, il prezzo all’Henry Hub si è ritirato in modo confortevole sotto i 9$/MMBtu (contro un prezzo consistentemente sopra i 25$/MMBtu del TTF a giugno), avendo il mercato interno americano a disposizione l’intera capacità feedstock altrimenti esportabile da Freeport per consumi interni in crescita nella generazione elettrica, dovuti principalmente alle temperature roventi previste dal New Mexico alla Carolina. L’annuncio del 14 giugno di una chiusura, almeno parziale, di Freeport sino a fine anno ha fatto calare i prezzi di oltre il 15% sull’Henry Hub.
Effetto inverso si è avuto sulle piazze asiatiche, dove però, a differenza di quanto accade in Europa, la domanda di GNL rimane modesta. In particolare, questo è dovuto all’avversione agli acquisti sul mercato a pronti dei buyer cinesi, coreani e giapponesi. Al ritmo corrente, il mese di giugno rischia infatti di registrare un declino del 15% rispetto il 2021 ma nulla vieta di ipotizzare che, al crescere della domanda nel settore della generazione elettrica dovuta alle temperature in rialzo, o più avanti nell’anno per sferzate fredde provenienti dall’Artico, possano far incrementarne la domanda, innescando una spirale davvero pericolosa.
Islamabad, in difficoltà (anche) per la fame di gas europea
Altrove però, dove il clima è stato meno clemente, la situazione è già volta al peggio. Nell’Asia meridionale, una regione martoriata da molte settimane da ondate di calore e temperature dai 5° agli 8° superiori alla media, una crisi energetica strutturale sta colpendo il Pakistan, determinando in maniera sostanziale il cambio di governo lo scorso mese di aprile.
Islamabad non è stata infatti in grado di procurarsi sufficiente GNL per alimentare i propri impianti proprio per gli alti costi determinati dalla diversificazione della domanda europea e la volontà di rompere la propria interdipendenza con la Russia. Al pari, alcuni fornitori di GNL si sono rifiutati di provvedere alle forniture precedentemente accordate. Ne sono conseguiti diffusi blackout tuttora in corso, diminuzione degli orari lavorativi e obbligo di lavoro da casa per ridurre i consumi energetici.
Se a ciò si aggiungono la prevista riduzione dei raccolti di grano, provocata dalle stesse ondate di calore, e un conto salatissimo per il governo pakistano in termini energetici nel bel mezzo di una difficilissima rinegoziazione del proprio debito con il Fondo Monetario Internazionale, si capisce come la situazione pakistana evidenzi già gli effetti moltiplicatori di una crisi strutturale dei mercati energetici accompagnata da spaventose problematiche alimentari e forte precarietà finanziaria.
Quale ruolo stia giocando l’Europa in questa congiuntura e per garantire la stabilità di un paese crocevia di almeno due regioni del globo rimane ad oggi piuttosto ambiguo.
Diplomazia energetica italiana di fronte alla prova ucraina è una rubrica di Francesco Sassi per RivistaEnergia.it.
Abbiamo pubblicato finora le analisi:
Crisi ucraina: dal grano al gas, 14 giugno
L’accordo UE-USA, le premesse, 14 aprile
L’accordo UE-USA, le considerazioni, 14 aprile
Azerbaijan, 14 marzo
Algeria e Libia, 5 marzo
Francesco Sassi è dottore in geopolitica dell’energia presso l’Università di Pisa e analista dei mercati energetici presso Rie-Ricerche Industriali ed Energetiche
Foto: Unsplash
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