13 Giugno 2022

Il Brent oltre i 120 dollari, e non è finita

LinkedInTwitterFacebookEmailPrint

Il Brent è aumentato quest’anno del 50% e vi sono fondate ragioni per ritenere che possa portarsi sui 140 dollari o più. Alla radice, come giù in passato, la scarsità dell’offerta a fronte di una domanda robusta. Ma a differenza del passato, le majors sono restie ad investire, mentre l’attesa demand destruction stenta a palesarsi.

Il Brent, greggio di riferimento del mercato petrolifero europeo, è aumentato quest’anno del 50% ad oltre 120 dollari al barile. Vi sono fondate ragioni per ritenere che possa aumentare ulteriormente nel corso dell’anno. Se ne accorgeranno gli automobilisti.

Scrissi su questo Blog il 29 marzo che quando sarebbe venuta meno (8 luglio) la riduzione di circa 30 centesimi dei prezzi dei carburanti decisa dal governo, essi avrebbero avuto “l’amara sorpresa di trovare prezzi ancor superiori a quelli precedenti la riduzione”. Così sarà e bisogna vedere se il Governo reitererà gli sconti.

Nuova crisi, vecchie ragioni

Secondo la Banca Mondiale, l’aumento dei prezzi nei passati due anni è il maggiore da quello registrato dalla prima crisi petrolifera del 1973.

Oggi come allora la ragione è la medesima: la scarsità di offerta. A causarla più ragioni: la pressione degli investitori verso le compagnie petrolifere a investire nel green; le politiche internazionale, specie europee – si pensi alla recente decisione di estromettere le auto tradizionali in favore di quelle elettriche entro il 2035; il crollo dei prezzi nei mesi del lockdown.

Ragioni che hanno portato ad una verticale caduta degli investimenti minerari, delle scoperte, della futura offerta sia di petrolio che i gas.

Le 6 maggiori hanno rimpiazzato solo il 45% di quanto estratto negli ultimi 5 anni

Il tasso di rimpiazzo delle riserve sfruttate è andato progressivamente riducendosi. Secondo Rystad Energy, le sei maggiori compagnie hanno rimpiazzato solo il 45% di quanto estratto negli ultimi 5 anni.

Le riserve della prima oil major, la ExxonMobil, si sono ridotte del 30% dal 2019; quelle della Shell del 20%. È andato calando anche il rapporto tra produzione e riserve, espresso in anni residui di produzione, ridottosi per la ExxonMobil da 13 a 11 anni e per la Shell addirittura a poco più di 7 anni.

Il peggioramento delle performance estrattive si avvertirà nei prossimi anni, dovendo fare affidamento su migliori risultati delle national oil companies dei paesi produttori.

Per contro, diversamente da quanto profetizzato la domanda di petrolio ha ripreso a crescere riportandosi ai livelli pre-Covid del 2019. Lo scarto domanda-offerta perdurerà fino a quando si ricostituirà nuova capacità produttiva, oggi limitata a 2,5-3 mil.bbl/g.

Quando è altamente incerto perché le compagnie petrolifere sono restie a riprendere gli investimenti in modo consistente, nonostante i maggiori prezzi, di fronte ai rischi del massimalismo ecologista (specie europeo), alla rigorosa disciplina finanziaria che si sono date, ai rischi che si avveri una demand destruction.

Secondo Goldman Sachs, i prezzi dagli attuali 120 dollari al barile potrebbero portarsi a 140 se non più.

Vi concorre anche la crisi della raffinazione, con una capacità lavorativa di 85 milioni barili al giorno rispetto ad una domanda sui 100 milioni. Dal 2019 l’industria della raffinazione ha visto la chiusura, specie in Europa, di capacità per 4 milioni di barili al giorno.

Le cose peggioreranno nei prossimi mesi

La possibilità che si verifichi una consistente demand destruction è legata comunque al livello dei prezzi. Se con la grande recessione del 2008 essi potevano collocarsi sui 120 dollari al barile, oggi, tenuto conto dell’inflazione, Energy Intelligence stima dovrebbero portarsi a 150-160 dollari al barile.

A questa situazione già di per sé critica si è innescata la decisione europea di decretare l’embargo petrolifero verso la Russia, nell’arco dei prossimi sei-otto mesi. La produzione di petrolio della Russia si è già ridotta di 900 mila barili al giorno, le esportazioni di 600 mila barili al giorno. Le cose peggioreranno nei prossimi mesi.

India e Cina dovrebbero ulteriormente aumentare le loro importazioni di greggio russo, ma la Russia non riuscirebbe tuttavia a collocare 1 milione di barili al giorno aggravando la scarsità d’offerta a beneficio dei prezzi. Soprattutto dei prodotti derivati per il venir meno delle esportazioni russe e alla vigilia della stagione estiva che vede la punta annuale dei consumi.

Quel che Mosca perde dal lato dei volumi più che guadagna da quello dei prezzi e quindi dei ricavi.

La produzione Opec+ è di molto inferiore rispetto a quanto programmato

La difficoltà a produrre è comunque un comune denominatore dei paesi dell’alleanza Opec-Plus la cui produzione cumulata a maggio è risultata inferiore a quella programmata di 2,7 milioni di barili al giorno (per la metà imputabile alla Russia).

Uno scarto che dovrebbe accrescersi nei prossimi mesi, acuendo la spirale rialzista dei prezzi, che alimenteranno l’inflazione a discapito della crescita economica.

La conclusione è che il petrolio e i suoi derivati, restano al centro della scacchiera energetica. Sostituirlo richiederà decenni.


Alberto Clô è direttore della rivista Energia e del blog RivistaEnergia.it


Potrebbero interessarti anche:


I video di RivistaEnergia.it
Foto: Unsplash

0 Commenti

Nessun commento presente.


Login