29 Giugno 2022

La transizione energetica nel guado della Valle della Morte

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Vi sono realtà termochimiche e finanziarie inerenti alla transizione energetica che non possono essere ignorate, pena il rischio di arenare definitivamente la transizione nella Valle della Morte che oggi attraversa. Lungi dall’essere una chiamata all’inazione, l’articolo di Gabriel Collins e Michelle Michot Foss (Baker Institute for Public Policy) su ENERGIA 2.22 enfatizza in termini realistici la complessità e la dimensione della sfida.

“Vi sono alcuni passaggi critici – e perciò ampiamente trascurati – nel percorso verso un futuro sostenibile e abbondante di energia, capace di soddisfare i bisogni interconnessi del benessere dell’umanità e della salute della biosfera. Lungi dall’essere una chiamata all’inazione, questa analisi intende piuttosto enfatizzare in termini realistici la complessità e la dimensione della sfida”.

“Fare pressione perché non vengano finanziate le fonti fossili – prima che le risorse low-carbon possano credibilmente sostituirle – rischia di destabilizzare il nesso energia-cibo-acqua-benessere che, se perturbato, può far ritardare di decenni la transizione energetica. Le conseguenze di questo ritardo finirebbero per comportare un accumulo di emissioni carboniche maggiore di quanto si avrebbe con un’uscita più ordinata delle risorse fossili”.

Su ENERGIA 2.22 abbiamo riproposto un ampio studio di Gabriel Collins e Michelle Michot Foss del Baker Institute for Public Policy, in cui vengono riepilogate “le realtà termochimiche e finanziarie (che) non possono essere ignorate”, pena il rischio “di arenare definitivamente la transizione energetica nella «valle della morte» che attraversa oggi”.

Quel che accadrà da qui alla fine degli anni 2020 determinerà molto probabilmente il successo o il fallimento di una transizione energetica accelerata

“Il decennio scorso ha segnato la Fase 1 del grande arco della valley of death della transizione energetica: il decollo iniziale e la sua ra­pida discesa verso la valley floor.  Qui inizia la Fase 2, che include discontinuità del sistema e una più completa cognizione pubblica (e potenziale contraccolpo) dei costi economici della transizione (1. La «Valley of Death» della transizione energetica).

“La Fase 3, di risalita, si avvierà dopo il 2025 e vedrà un’incerta confluenza di nuove tecnologie che divengono commerciali (…), revisioni di politiche come le carbon tax, oneri economici e di filiera che, a questo punto, avranno già manifestato in modo chiaro il loro impatto tangibile e psicologico su consumatori e produttori di energia”.

«Valle della morte» è un concetto usato nello sviluppo di innovazioni, dalla (non redditizia) ricerca e sviluppo, alla dimostrazione di validità, fino alla fase commerciale

“L’incertezza sulla curva della valley of death della transizione energetica fa sì che un sotto-investimento nelle fonti energetiche oggi dominanti possa causare prolungate crisi energetiche. (…) Ridurre l’accesso alle fonti fossili in modo prematuro potrebbe aumentare i costi dell’energia e dei materiali a un livello tale da rendere più competitive le energie alternative anche senza il supporto di sussidi”.

Se mal governata, la transizione può causare prolungate crisi energetiche in grado di scatenare reazioni popolari e politiche che vanno in direzione contraria

“Gli enormi costi economici imposti sui consumatori (elettori) per annullare i gap di competitività (5) potrebbero quasi certamente innescare reazioni politiche tali da estendere, in modo significativo, la dipendenza dalle fonti fossili oltre il livello implicito delle attuali tendenze path-dependent”.

“Una convergenza di fattori termochimici, logistici, economici ha guidato le passate transizioni energetiche: prima il carbone si è affermato sulla legna, grazie alla sua densità energetica superiore del 50%, poi il petrolio sul carbone per la medesima ragione (7)” (2. «Valley floor»: la transizione energetica è un processo lungo e spinoso).

Non tutto il fossile è uguale: il gas naturale negli ultimi 15 anni ha facilitato l’ascesa delle rinnovabili negli Stati Uniti perché in grado di supplirne l’intermittenza, diversamente dal carbone

“Coprire i consumi riducendo al contempo l’intensità carbonica dell’energia pone sfide ad oggi sconosciute. Negli Stati Uniti, che contano per circa il 16% della domanda mondiale, sarebbe necessario installare 460.000 turbine eoliche onshore, sette volte quelle esistenti, per soddisfare il 50% della generazione elettrica.

Anche assumendo il consenso dell’opinione pubblica, sarebbero necessari straordinari aumenti della capacità di trasmissione e stoccaggio così come di centrali che svolgano una funzione di back-up”.

“I paesi in via di sviluppo devono fronteggiare sfide ancor maggiori. I loro leader politici ambiscono ad alleviare la povertà energetica delle popolazioni e sostenere, al contempo, i programmi nazionali di industrializzazione che abbisognano di molte decine di gigawatt elettrici. Per riuscirvi, utilizzeranno le risorse a loro più immediatamente accessibili e abbondanti (8)”.

Le economie non-OCSE, guidate da Cina e India, ogni anno rilasciano in atmosfera due volte le emissioni dei paesi OCSE

Le fonti «green» non possono crescere senza l’abbondanza di quelle fossili (par. 3). “Anche petrolio e gas sono fonti della transizione energetica. Primo: perché facilitano l’incorporazione delle rinnovabili negli attuali sistemi elettrici (…). Secondo: petrolio e gas costituiscono letteralmente i blocchi fisici necessari alla realizzazione delle turbine eoliche e dei pannelli solari”.

“La domanda di plastica è prevista aumentare almeno tanto rapidamente (se non più) quanto quella dei metalli (…) (e) qualora si riuscisse davvero a velocizzare la transizione energetica, sui settori della plastica e della petrolchimica si scaricherebbe l’intero onere dei costi delle risorse di petrolio e gas”.

“Gli scenari di transizione energetica estrema non includono tra le assunzioni uno «stress test» sul business degli idrocarburi, così come trascurano gli elevati costi degli investimenti a valle”.

La fine dell’energia come arma di pressione?

“La Cina domina tutte le fasi produttive di terre rare, rame, alluminio, nichel, vanadio e molti altri metalli strategici. (…) Pechino ha già utilizzato le proprie risorse come arma di pressione politica, come quando ridusse le esportazioni di terre rare alle imprese giapponesi a seguito di una disputa marittima, nel 2010 (15)”.

“Eolico, solare, batterie sono ampiamente percepiti come a basso costo rispetto alle fonti fossili. Ma le riduzioni di costo e la loro curva discendente (…) riflettono l’impatto distorsivo delle misure di politica industriale adottate da Pechino per acquisire controllo ed influenza (…) e riallocarle negli Stati Uniti, in Europa o altrove renderebbe molto più costosi i componenti essenziali dei sogni energetici «green»”.

I costi associati all’energia «green» riflettono solo gli impianti installati e non i costi pieni associati alla loro integrazione nelle reti elettriche

Primo, se i prezzi delle commodity rimarranno sufficientemente elevati (…) alcuni finanziatori potrebbero progressivamente abbandonare il rispetto delle restrizioni carboniche (…).

Secondo, alti prezzi dell’energia catalizzeranno il malcontento dei consumatori al seggio elettorale (…).

Terzo, i fornitori di capitale, come i fondi pensione, (…) non potendo più investire nei produttori di idrocarburi, rischiano di non raggiungere soglie di rendimento minime” e di non poter erogare, ad esempio, un reddito ai pensionati di oggi e di domani.

Consumi di energia, emissioni, rischi: i parametri ESG mettono già sotto pressione le industrie che estraggono e trasformano minerali e quelle manifatturiere

 “Il dispiegarsi della crisi energetica nell’inverno 2021-2022 solleva un’inquietante domanda: cosa accadrebbe se gli ecologisti venissero identificati come i responsabili dell’esplosione delle bollette del gas o dei disservizi elettrici?” (5. Nuova insurrezione climatica negli anni Venti?).

“Dato che, finché esisterà una domanda di petrolio e gas, le industrie fossili continueranno ad essere finanziate”, è importante riepilogare i rischi associati alle politiche di disinvestimento.

“I maggiori costi di capitale e la probabile insufficiente capacità di disporre di capitali comportano un più lento sviluppo delle risorse e – se la loro domanda persiste – maggiori costi per i consumatori di petrolio e gas”.

Soggetti meno trasparenti e con peggiori performance ambientali – privati, trader, NOC – rileveranno gli asset che Big Oil è costretta ad abbandonare per rispettare i vincoli climatici

“Una parte consistente dell’offerta di petrolio e gas può passare nelle mani di attori meno trasparenti (a potenziale detrimento dell’ambiente), di dimensioni inferiori e con maggiori costi (a danno dei consumatori), rafforzando il potere delle compagnie nazionali in aree spesso difficili”.

“A differenza del pluridecennale effetto «lock-in» imposto dall’alta intensità di capitale, le persone possono cambiare rapidamente idea (…) (e) le restrizioni sugli investimenti carbonici che non consentono ai fondi di conseguire minime soglie di redditività potrebbero anche portare a un’inversione di rotta, dato che generalmente le pressioni legali e di mercato si rafforzano a vicenda” (6. È possibile uscire dalla Valle?).

La matematica delle emissioni sarebbe brutale: il solo aumento dell’1% della quota delle fonti fossili potrebbe sovrastare il calo delle emissioni sinora realizzato da solare ed eolico

“Ampie forniture di energia sono il fondamento della civiltà moderna. Il progresso climatico richiederà simultaneamente di cercare di massimizzare l’abbondanza, la convenienza, l’efficienza e l’affidabilità dell’energia.

Avranno maggiore successo gli approcci in grado di enfatizzare l’impiego di tutte le risorse, con un ruolo preminente per solare, eolico e batterie più efficienti, nonché soluzioni meno popolari, ma nondimeno vitali, come l’energia nucleare e le carbon tax”.


Il post presenta l’articolo di Gabriel Collins e Michelle Michot Foss La «valle della morte» della transizione energetica (pp. 14-23) pubblicato su ENERGIA 2.22

Gabriel Collins e Michelle Michot Foss, Baker Institute for Public Policy

Foto: Unsplash

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