21 Giugno 2022

Price cap sul gas: incognite e certezze di un intervento a gamba tesa sui mercati

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La richiesta di uno sconto ai venditori o l’imposizione di prezzi massimi alle transazioni delle varie categorie di operatori lungo la filiera metanifera? Cosa significa introdurre un tetto ai prezzi del gas non è chiaro, anche perché i suoi proponenti non lo hanno mai spiegato. Certo è invece che si andrebbe a ripercuotere a cascata sulle altre fonti.

Confesso sinceramente di non averci mai capito granché su cosa significhi l’introduzione di un tetto ai prezzi internazionali del metano, indicato impropriamente col termine price-cap attinto dalla regolazione dei servizi pubblici.

Nell’arco delle scorse due settimane i prezzi spot sulla piattaforma italiana PSV sono aumentati del 30% passando da 26 doll/Mil.Btu a 34 doll/Mil.Btu a seguito dei tagli di Gazprom alla Germania via Nord Stream 1 e successivamente al nostro paese.

Questo rinnovato stress di mercato suona da ammonimento su come sia difficile liberarsi del gas russo.

L’aumento del metano si ribalterà su quelli dell’elettricità per l’indisponibilità europea a modificarne il meccanismo di fissazione basato sul system marginal price.

Il concetto di price-cap non è stato peraltro mai spiegato dai suoi proponenti: si tratti delle autorità europee o dei governi che più lo sostengono, a partire da quello italiano.

La contrarietà della Germania – sulle cui posizioni Bruxelles è normalmente appiattita – fa ritenere comunque che la proposta avanzata dall’Italia non sarà accettata a livello europeo.

Inizialmente, si dava a intendere che col price-cap si intendesse la fissazione di un livello massimo di prezzo di importazione del metano che si era disponibili ad accettare. Non solo logicamente dalla Russia, via Gazprom, ma anche dagli altri paesi nostri fornitori, che stiamo corteggiando perché ci aumentino le loro forniture.

Una mossa che non rafforza la nostra affidabilità di acquirenti

Una mossa, peraltro, che non rafforza la nostra affidabilità di acquirenti, essendo al di fuori delle normali clausole contrattuali.

Secondo questa prima accezione la fissazione di un prezzo massimo si riduceva in sostanza alla richiesta di uno sconto ai venditori. Non ritenendo evidentemente i paesi richiedenti – secondo una regola elementare dell’economia – di poter ridurre la loro domanda di metano a livelli compatibili col prezzo desiderato attraverso difficili politiche di razionamento.

La domanda di metano nei primi cinque mesi del 2022 si è mediamente ridotta in Europa del 9% sul corrispondente periodo del 2021, specie nei consumi residenziali per le migliori condizioni climatiche e negli usi elettrici per il ricorso al carbone e l’aumento delle rinnovabili.

I paesi europei, in buona sostanza, hanno scaricato la responsabilità degli alti prezzi sui venditori e non su propri livelli di domanda. Dal che l’interrogativo: che accadeva se i fornitori, non solo Gazprom, non accettavano la richiesta di uno sconto? Specie in considerazione del non secondario fatto che non vi sarebbero state alternative di acquisti sul mercato internazionale del metano.

L’obiezione a queste osservazioni era che se i russi non vendono a noi, sono costretti – nell’impossibilità di cederlo ad altri per la sostanziale scarsità di infrastrutture di trasporto via terra, a partire da quelle verso la Cina – a ridurre la loro produzione.

Giustissimo: ma è altrettanto possibile che il danno sarebbe stato ben peggiore per noi, costretti a tagliare le forniture ai consumi finali.

Una seconda accezione al price-cap è emersa negli ultimi tempi, sempre in via informale sui media o in qualche intervista. Essa consisterebbe nell’imporre in via amministrativa alle varie categorie di operatori lungo la filiera metanifera prezzi massimi nelle loro transazioni, inferiori evidentemente a quelli correnti di mercato. La ragione era di favorire i consumatori, incentivando però contestualmente i consumi.

Eni: l’import di gas russo è inferiore o superiore agli obblighi contrattuali?

Quel che appare paradossale date le riduzioni delle forniture dalla Russia ad Eni nei quantitativi che evidentemente stava ritirando ben oltre gli obblighi contrattuali, nonostante la sbandierata necessità e volontà di ridurre per quanto possibile le forniture dalla Russia.

Riduzioni che paventano nel prossimo inverno, dati gli ancora bassi livelli degli stoccaggi, non escludibili rischi di deficit di offerta. Rischi esclusi dalla stessa Eni che sostiene che attualmente l’offerta di metano sia superiore alla domanda (al netto degli stoccaggi?) con la possibilità di accrescere i ritiri dall’Algeria per 9 miliardi di metri cubi l’anno.

Una possibilità che l’Oxford Institute for Energy Studies ritiene “assolutamente irrealistica”.

Da qui, alcune domande.

Primo: su quale base e da parte di chi verrebbe fissato questo prezzo amministrato? Sui valori fissati nelle piattaforme negoziali a partire da quella olandese TTF Gas Future e tenendo anche conto dei prezzi concordati nei contratti a lungo termine notevolmente inferiori a quelli spot?

Secondo: chi sarebbe il decisore di questo prezzo massimo, il quale si presume dovrebbe effettuare i controlli sulle migliaia e migliaia di transazioni quotidianamente fatte nei 27 paesi dell’Unione Europea?

Terzo: i prezzi del metano in tal modo fissati varrebbero per tutti i paesi e costituirebbero il riferimento a loro volta per la fissazione dei prezzi dell’elettricità?

Quarto: che accade se i prezzi interni in tal modo fissati del metano sono inferiori a quelli di importazione (83% nostri consumi)? Per i sostenitori di questo sistema l’effetto dei prezzi limite sarebbe proprio questo: non pagare il metano importato oltre la soglia stabilita. Si tornerebbe in sostanza alla prima accezione.

Di fronte al prevedibile rifiuto dei venditori a ridurre le loro richieste, chi pagherebbe la differenza tra prezzi amministrati e prezzi di mercato? Va da sé che dando seguito a questa accezione del prezzo limite si finirebbe di fatto per sospendere le varie scadenze dei contratti sui punti di scambio virtuali come il TTF olandese o il PSV italiano, con ripercussioni sui contratti a lungo termine i cui valori sono normalmente indicizzati a quelli spot.

Intervenire in via politica su prezzi e quantità di una fonte di energia significa intervenire a cascata su tutte le altre

E qui emerge una questione di fondo. Intervenire in via politica su prezzi e quantità di una fonte significa intervenire a cascata su tutte le altre fonti di energia, perché si modificano i rapporti di convenienza relativa incidendo sulla situazione corrente e su quella futura (via investimenti).

Si ridurrebbe, ad esempio, il ricorso al più conveniente carbone (quasi tutti i paesi, incluso il nostro, ne stanno facendo incetta) con una domanda di metano più elevata di quel che alternativamente sarebbe. Mentre il ricorso sperato al GNL americano incontrerebbe grosse difficoltà vista la riduzione delle esportazioni causate dall’incidente al terminale Freeport, che copre un quinto della complessiva capacità di liquefazione americana. Ci vorranno 4-5 anni perché la capacità addizionale di esportazione americana di GNL possa divenire consistente. Da qui ad allora la sua destinazione sarà dettata dalla competizione al rialzo tra Europa e Asia.

Insomma: nell’intervenire a gamba tesa sui mercati bisognerebbe aver contezza di tutte le conseguenze dirette e indirette che si vengono a determinare. Quel che non mi sembra possa dirsi per la confusa proposta di un price cap ai prezzi del metano che, come per i vari embarghi imposti alla Russia, rischia di ricadere negativamente più su di noi che su Mosca.

Mai come in questo momento è importante capire la differenza tra quel che si promette e quel che è realisticamente possibile.


Alberto Clô è direttore della rivista Energia e del blog RivistaEnergia.it


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