Partendo dai (magri) risultati dell’ultimo incontro a Glasgow, ENERGIA 1.22 ha pubblicato alcune proposte per rafforzare il processo decisionale delle Conferenze delle Parti, il più importante vertice internazionale sui cambiamenti climatici. In vista della COP27 di Sharm el-Sheikh, proponiamo la lettura integrale dell’analisi di Enzo Di Giulio.
La verità sulla Conferenza di Glasgow sta tutta in un grafico proposto dalla rivista «The Economist» (Fig. 1). Nella figura, si vede che la distanza tra la traiettoria delle emissioni partorita a Glasgow e l’obiettivo di 1,5°C è ancora troppo ampia: tra 17 e 20 miliardi di tonnellate di CO2. Il grafico riporta anche la distanza implicita nei target dichiarati dai paesi a Parigi: tra 23 e 27 miliardi di tonnellate.
In altre parole, nei sei anni che separano Parigi (2015) da Glasgow (2021) il mondo è riuscito a guadagnare circa 1 miliardo di tonnellate per anno, troppo poco. Di questo passo, visto che le emissioni stimate al 2030 saranno circa 45 miliardi di tonnellate, arriveremmo ad emissioni zero intorno al 2080. Troppo tardi. Ecco perché «The Economist» ha intitolato il grafico Una lunga strada da percorrere. Tutto ciò trascurando il fatto che l’intera questione poggi, al momento, su dichiarazioni la cui realizzabilità è tutta da dimostrare.
Dunque, occorre un cambio di passo. Glasgow è solo l’ultimo di una serie di tracolli negoziali caratterizzati dal baratro tra parole e numeri, retorica e impegni reali. A trent’anni di distanza dall’evento madre – la Conferenza di Rio – che ha messo in moto il processo negoziale sul clima, si può affermare con certezza che il meccanismo non funziona. Che fare? È possibile immaginare un congegno diverso che sia in grado di produrre risultati tangibili?
Alberto Clô e G.B. Zorzoli indicano una possibile opzione che, senza richiedere modifiche strutturali, di improbabile realizzabilità, punta su tavoli tecnici quali possibile volano dell’iniziativa privata. La proposta va nella direzione già intrapresa dalle Conferenze delle Parti che, soprattutto negli ultimi anni, hanno visto una partecipazione crescente del business. Si tratterebbe, ora, di accelerarne il passo e l’ipotesi di tavoli tecnici ad hoc certamente può generare risultati positivi.
Questa strada va percorsa perché, in ultimo, il mercato e le aziende rappresentano lo scheletro che sostiene il futuro mondo green, come oggi sorregge quello fossile. Dunque, per quanto importante sia lo Stato non va dimenticato che le policy che esso cerca di attivare si scaricano anche sul settore privato ed è pertanto saggio puntare sulla sua attivazione diretta e spontanea.
Tra Parigi (2015) e Glasgow (2021) il mondo è riuscito a guadagnare solo 1 miliardo di tonnellate per anno: la strada da percorrere è ancora lunga
Tuttavia, non si può non sottolineare il fatto che tale impostazione risente fortemente del nostro essere uomini dell’Occidente. Pervasi dal mercato, tendiamo a sopravvalutarne il ruolo laddove diversi paesi del mondo sono caratterizzati da economie ancora fortemente centralizzate, spesso poggianti su campioni nazionali che operano proprio nel settore energetico, e dunque crucialmente rilevanti per la questione climatica: si pensi a Saudi Aramco, CNPC o Gazprom.
A tale proposito citiamo il dato pubblicato dalla IEA nel World Energy Outlook del 2018, nel quale si mostrava come più del 70% dei 42 trilioni di dollari di investimento previsti nel New Policies Scenario «(…) is made either by State-directed entities or where revenues are fully or partially guaranteed by regulation» (IEA 2018, p. 62).
In sintesi, puntare sul mondo delle imprese è certamente utile e necessario ma non va dimenticato che c’è una parte di mondo, consistente, per la quale questa ricetta non funziona, essendo la maggior parte della attività produttive – e quindi delle emissioni da abbattere – concentrate nelle mani dell’organismo pubblico.
Occorre, pertanto, migliorare nei limiti del possibile il meccanismo negoziale. Un punto di vista molto citato – ripreso da Alberto Clô – è quello di William Nordhaus (2015 e 2020). Nella visione del premio Nobel, il negoziato sul clima non funziona perché vi sarebbe in esso, intrinseca, una struttura di incentivi che porta gli agenti verso il free riding. Nordhaus poggia la propria analisi su una visione storica che pone i trattati internazionali sul clima nel contesto del cosiddetto dilemma di Westfalia.
Le soluzioni di mercato trascurano il caso delle economie a controllo pubblico
Con il Trattato di Westfalia, infatti, si stabilirono nel 1648 i principi che orientano, ancora oggi, il diritto internazionale: in primis, le nazioni sono sovrane e hanno il diritto fondamentale all’autodeterminazione; secondo, gli Stati sono giuridicamente uguali e, terzo, sono liberi di gestire i loro affari interni senza l’intervento di altri Stati. In parole semplici, ogni Stato è, rispetto agli altri Stati, un territorio franco sul quale s’infrange qualsiasi diritto di condizionamento.
Dato tale sostrato inespugnabile di sovranità degli Stati, nell’ambito della questione climatica essi hanno un incentivo al free riding, ovvero a beneficiare delle riduzioni delle emissioni da parte di altri paesi senza ridurre le proprie. Nella visione di Nordhaus, il free riding sarebbe anche transgenerazionale, poiché «The present generation benefits from enjoying the consumption benefits of high carbon emissions, while future generations pay for those emissions in lower consumption or a degraded environment» (Nordhaus 2015).
Di qui il suggerimento del premio Nobel di orientarsi verso i climate clubs, costituiti da paesi che si vincolano a rispettare un certo tetto alle emissioni, pena il pagamento di una sanzione in caso di non rispetto dell’accordo. Inoltre, il climate club dovrebbe penalizzare i paesi che non vi aderiscono, ad esempio sfavorendo le importazioni per mezzo di una tassa. L’ipotizzato carbon border adjustment mechanism europeo rappresenta un esempio di tale disincentivo a restare fuori dal club operato a mezzo tassa.
In ultimo, la visione di Nordhaus cade nel solco della più tradizionale analisi economica che vede l’origine del fallimento degli accordi internazionali nell’errata struttura degli incentivi e tenta di porvi rimedio ridisegnandola. In una certa misura l’analisi è caratterizzata da un che di meccanico: è il disegno della struttura dei pay-off a condurre, o meno, in una situazione di dilemma del prigioniero. Non è obiettivo di questo articolo approfondire i punti di forza e di debolezza dell’ipotesi di Nordhaus, ma non si possono non sottolineare due aspetti cruciali.
Senza penalità per il mancato rispetto degli impegni climatici, gli Stati sono incentivati al free riding
Il primo è che i pay-off dei paesi non sono fissi, piuttosto mutano a seguito delle convinzioni politiche e morali delle loro leadership. L’ambivalenza della politica climatica americana nei diversi passaggi tra amministrazioni repubblicane e democratiche – ultima, l’inversione di 180° dei piani di Joe Biden rispetto a Donald Trump – dimostra che dietro i pay-off vi è la visione politica. Detto con nettezza, nell’ambito della questione climatica, l’economia è fortemente condizionata dalla politica e, anche, dall’etica.
Ciò spiega altresì la vocazione ambientale dell’Unione Europea, la cui azione – a lungo solitaria – prescinde da qualsiasi pay-off monetario e vantaggio individuale. D’altra parte, la stessa costruzione di climate clubs è fortemente dipendente dall’operato di «paesi entusiastici», che aprono la via alla riduzione delle emissioni e inducono gli altri paesi a seguirli. In parole semplici, vi è una dimensione ideologica, politica e morale che lo schema di Nordhaus tende a sottovalutare.
Il secondo aspetto critico è quello legato al tempo: la creazione dei climate clubs richiede un ammontare di tempo di cui oggi non disponiamo. Di qui l’ipotesi di costruire sull’esistente, semplificando il processo attraverso la riduzione del numero dei paesi coinvolti nel negoziato. Il ragionamento è semplice: i 20 paesi più ricchi del mondo producono circa l’85% del PIL mondiale, generando l’80% delle emissioni globali. Dunque, perché non ipotizzare un G20 del clima che, riducendo di un ordine di grandezza il numero delle parti coinvolte nel negoziato, lo semplifichi considerevolmente?
Di certo, saremmo di fronte a un indebolimento della condivisione della decisione, ma mai come in questo caso si applica la massima «il meglio è nemico del bene». In tal senso, il G20 di Roma, che ha preceduto di alcuni giorni la COP di Glasgow, con il suo forte accento sulla questione climatica ha rappresentato un primo esperimento di questo nuovo meccanismo.
Nella questione climatica, l’economia è fortemente condizionata dalla politica e dall’etica
Il fatto che i risultati non siano stati esaltanti e che la Dichiarazione di Roma non sia molto distante, nella sua genericità, dal Patto di Glasgow, potrebbe indurre a pensare che la riduzione del numero di attori non sia un elemento critico. Tuttavia, non si può escludere che la reiterazione di incontri annuali specificamente dedicati al clima possa imprimere al processo un’accelerazione finora non esperita.
È innegabile che un processo che coinvolge 200 agenti sia più complesso, estenuante e dispersivo di uno caratterizzato da 20. È innegabile, altresì, che uno dei principali nemici del negoziato internazionale sul clima sia stato, nei suoi trent’anni di storia, l’entropia. Un tentativo in direzione di una maggiore semplicità va dunque assolutamente fatto. Tanto più che l’organismo di tale innovazione non va creato ex novo ma semplicemente adattato.
Va ricordato come il G20 sia stato istituito nel 1999 proprio per fronteggiare un problema specifico, quello delle crisi finanziarie. Ora, poiché il nuovo nemico è il cambiamento climatico, sarebbe coerente dedicare gli incontri del G20 in primis al clima. Il processo è già iniziato e quasi certamente crescerà di anno in anno. Ma occorrerà un cambio di prospettiva.
Non si può qui non proporre una riflessione sull’elemento che rappresenta il cuore del negoziato climatico nella sua attuale forma, ovvero i target espressi dai paesi (Nationally Determined Contribution, NDC). Essi rappresentano l’essenza del processo ma, per ragioni ascrivibili al dominio della forma sulla sostanza – «ogni uomo è un ipocrita nato», scriveva Kierkegaard – sono obnubilati dai rondò espressivi delle dichiarazioni finali, che drenano mari di tempo e di energia.
Per un G20 sul clima che ponga al centro i target dei paesi
Gli NDC, paradossalmente, rimangono in secondo piano, tanto in seno alla UNFCCC quanto – cosa forse più importante – in seno ai media. Oggi, per uno strano rovesciamento, gli obiettivi dei paesi rappresentano il lato nascosto della luna, quello che non si vede mai. Invece, occorrerebbe porli in primo piano perché è il numero, e non la retorica della parola, che misura gli impegni degli Stati.
Un G20 sul clima che ponga al centro della propria azione i target dei paesi – possibilmente espressi con una metrica omogenea e migliorabili in qualsiasi momento – potrebbe rappresentare la chiave di volta del nuovo corso. La centralità dei target dovrà essere pari a quella del PIL. Il faro dei media e dell’opinione pubblica dovrà essere sempre puntato sugli obiettivi dei paesi e sull’incremento di temperatura in essi impliciti.
Certo, le Conferenze delle Parti continueranno ad esistere ma il driver del processo sarà il G20. E non si può escludere che in seno a questa istituzione possano maturare decisioni di rilievo sugli strumenti delle policy, aspetto del tutto assente nelle COP. Al contrario, nell’ambito del G20 – in particolare quello di luglio 2021 dei Ministri dell’Economia, a Venezia – si è già parlato del tema carbon tax, con il Ministro francese Bruno Le Maire che ha esplicitamente posto la questione della definizione di una carbon tax minima per tutti i paesi.
Nessuno può escludere che ciò possa avverarsi: la stessa proposta del Fondo Monetario Internazionale di istituire una carbon tax di 75 dollari per tonnellata di CO2 entro il 2030 – contro gli attuali 3 dollari medi – evidenzia che il tema è già oggetto di dibattito nell’ambito della comunità economico-finanziaria. L’accordo, al G20 di Roma, sulla global minimum tax del 15%, che va a colpire gli utili delle multinazionali a partire dal 2023, rappresenta un buon precedente per l’adozione di una carbon tax globale. Di certo, se esiste qualche chance – seppure minima – che ciò accada, essa risiede nel G20 e men che meno nelle COP”.
Il post è un estratto dall’articolo di Enzo Di Giulio Dopo Glasgow: verso un nuovo inizio (pp. 47-49) pubblicato su ENERGIA 1.22
Enzo Di Giulio è membro del Comitato scientifico di ENERGIA
Foto: Unsplash
Per aggiungere un commento all'articolo è necessaria la registrazione al sito.
0 Commenti
Nessun commento presente.
Login