Partendo dai (magri) risultati dell’ultimo incontro a Glasgow, ENERGIA 1.22 ha pubblicato alcune proposte per rafforzare il processo decisionale delle Conferenze delle Parti, il più importante vertice internazionale sui cambiamenti climatici. In vista della COP27 di Sharm el-Sheikh, proponiamo la lettura integrale dell’analisi di Alberto Clò.
“La COP26 tenutasi a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre scorso, nonostante le grandi aspettative sollevate in due anni di preparazione e negoziazioni tra le parti, ha prodotto magri risultati (1), al di là del roboante titolo dato al documento finale: «Glasgow Climate Pact».
L’assenza di concrete misure e azioni con precise tempistiche ha ridotto la credibilità del processo di implementazione dell’Accordo di Parigi, di cui la COP26 doveva costituire un passaggio cruciale. Almeno così si sperava. Quel che del resto era prevedibile considerando il poco che si era ottenuto anche al G20 di Roma di fine ottobre, con paesi che contano per il 75% delle emissioni globali e l’80% del PIL mondiale (2).
E, d’altra parte, la fissazione di nuovi e più ambiziosi target nei Nationally Determined Contributions presentati alla Conferenza da 151 paesi (su 190), responsabili di circa la metà delle emissioni globali, evidenziavano quanto essi fossero poco ambiziosi: derivandone un aumento delle emissioni globali al 2030 del 13,7% contro la riduzione del 45% necessaria a conseguire l’obiettivo di 1,5°C.
«Nel contesto generico del Patto di Glasgow – ha scritto Enzo Di Giulio – come anche nella Dichiarazione del G20 di Roma, i paesi esprimono l’obiettivo nobile del grado e mezzo, ma poi quando si tratta di mettere nero su bianco ed esplicitare i tagli che vogliono fare, siamo a distanza siderale da ciò che sarebbe necessario» (3). È pur vero che 120 paesi che insieme sono responsabili di oltre la metà delle emissioni di gas serra si sono dichiarati a favore del raggiungimento di una piena neutralità carbonica generalmente entro la metà del secolo. Ma poco è stato fatto per riuscirvi.
La piena neutralità richiede una sostanziale modifica di tutti i pezzi del puzzle: mercati, business models, comportamenti
Una piena neutralità non si riduce, infatti, a una mera modifica del mix di fonti impiegate, ma richiederebbe una ancor più sostanziale modifica di tutti i pezzi del puzzle energetico: dall’assetto dei mercati, ai modelli di business delle imprese, ai comportamenti dei consumatori (4). A Glasgow si è fatto solo un qualche piccolissimo passo in avanti in un percorso la cui meta – la riduzione del surriscaldamento – sembra allontanarsi più se ne soffrono le dannose avvisaglie.
Più che lamentarsi di questi deludenti risultati, pare opportuno interrogarsi sulle loro possibili ragioni. Due in particolare. Primo: il fatto che, nonostante l’energia sia responsabile del 73% delle emissioni globali di gas serra (non solo quindi anidride carbonica), essa è interamente demandata ai poteri degli Stati, al punto che, nel testo dell’Accordo di Parigi, il termine «energia» nemmeno vi compare. Secondo: l’efficacia della stessa formula delle COP con una gran pletora di soggetti che vi partecipano (nella città scozzese ben 40.000 persone, 10.000 in più di Parigi, nonostante la nuova ondata della pandemia e la possibilità di parteciparvi da remoto); la numerosità degli argomenti e delle criticità che si sarebbero dovuti affrontare (5); la molteplicità di situazioni e interessi che separano i diversi paesi. Con un costo per giunta molto elevato: pari a 120 milioni di euro a Glasgow, a carico delle casse inglesi.
Per dare risposta a tali interrogativi è forse opportuno risalire all’origine di questa esperienza. L’intensa attività internazionale della fine degli anni Ottanta – dopo quelle di Villach del 1985 e di Toronto del 1988, tra il 1989 e il 1990 si tennero ben sette conferenze internazionali (6) – rese possibile la realizzazione di quello che si dimostrerà un incontro fondamentale: la Conferenza di Rio de Janeiro, tenutasi tra il 2 e il 14 giugno 1992, che porterà alla sottoscrizione del trattato denominato Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) da parte di 154 Stati (poi saliti a 197) (7), tra cui gli Stati Uniti del Presidente George H.W. Bush, presente a Rio.
Dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso le tematiche ambientali, specie quelle legate alla questione climatica, sono entrate con sempre maggiore frequenza e intensità nell’agenda della comunità internazionale, erodendo i tradizionali spazi di sovranità in capo agli Stati. Su cui avrebbero preso a gravare principi, norme di diritto internazionale, specifici obblighi in tema di protezione dell’ambiente (8), specie all’interno dell’Unione Europea (9). La Convenzione di Rio adottava un approccio soft ai regimi legali internazionali per la gestione di beni comuni. Stabiliva un’infrastruttura di istituzioni e meccanismi legali tesa a creare un processo di lungo termine per stabilizzare la concentrazione in atmosfera dei gas serra.
La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) realizza un’infrastruttura di istituzioni e meccanismi per il lungo termine
Quella Conferenza fu segnata da problemi che avrebbero attraversato tutte quelle successive: diversità degli interessi dei vari Stati, tra e all’interno del Nord e Sud del mondo; scontro sul riconoscimento delle loro diverse responsabilità nel causare il degrado ambientale; rischi dei paesi che più ne avrebbero subito gli effetti; rifiuto dei paesi in via di industrializzazione (in primis Cina e India) di vedere ridotte le loro possibilità di sviluppo e la loro sovranità nazionale. Non ultimo: assenza di un’adeguata legislazione ambientale internazionale (escludendo le convenzioni sull’ozono o sull’inquinamento transfrontaliero in Europa).
La Convenzione di Rio fu un compromesso su tre questioni: (i) targets and timetables che si sarebbero dovuti eventualmente fissare per ridurre le emissioni nei paesi sviluppati; (ii) assistenza finanziaria e tecnologica dei paesi ricchi a quelli poveri; (iii) istituzioni e meccanismi di implementazione di quel che si andava a decidere. Non rappresentava il punto di arrivo, ma di partenza di un processo negoziale di lungo periodo teso alla stabilizzazione della concentrazione atmosferica dei gas a effetto serra.
Come stipulata, la Convenzione non fissava limiti obbligatori e legalmente vincolanti ai singoli Stati per le emissioni di gas serra, acconsentendo in tal modo alla richiesta degli Stati Uniti contro il parere dell’Unione Europea. Prevedeva però la possibilità che le parti firmatarie potessero adottare in apposite Conferenze annuali – le Conferenze delle Parti (COP) – ulteriori atti che introducessero limiti obbligatori. Quel che sarebbe avvenuto nella COP3 del 1997, che portò alla firma del Protocollo di Kyoto, o nella COP21, che portò all’Accordo di Parigi.
Uno strumento per implementare la Convenzione
Le COP in sostanza erano l’organismo supremo della Convenzione col compito di implementarne i contenuti. La Convenzione definiva la prima struttura legale multilaterale per «(…) la stabilizzazione della concentrazione di gas serra nell’atmosfera a un livello tale da prevenire le dannose interferenze antropogeniche sul sistema climatico» (art. 2).
Non si fissarono specifici target temporali di riduzione, limitandosi a indicare, con un nebuloso linguaggio, che i paesi sviluppati più la Federazione Russa e i paesi dell’Europa dell’Est (indicati nell’Annesso 1) si impegnavano a riportare le «emissioni alla fine di questo decennio (2000) ai loro livelli del 1990» (art. 4.2, lett. a, b). Nel preambolo si affermavano inoltre le «comuni ma differenziate responsabilità così come le diverse capacità, condizioni economiche e sociali» dei paesi del mondo.
In ottemperanza al legame mutualistico delle Nazioni Unite, tutti i paesi avevano pari voce col vincolo del consenso per ogni decisione che venisse adottata. Ne derivava, come avrebbero scritto Nordhaus e Boyer (10) nel loro Requiem for Kyoto ancor prima che il Protocollo entrasse in vigore, che «It soon became apparent that the voluntary approach was producing next to nothing in actual policy measures».
In sintesi: senza sanzioni nessuna azione. Il carattere volontario delle proposte, unitamente alla loro genericità, non avrebbe portato ad alcun concreto risultato, evidenziando la discrepanza tra la retorica delle buone intenzioni e la realtà dei fatti. Discrepanza che avrebbe segnato la maggior parte dei numerosi accordi internazionali che da Rio in poi sarebbero stati siglati, così come delle 26 COP che si sarebbero susseguite: con la mancata traslazione delle proposte in effettive azioni.
‘Fu presto evidente che l’approccio volontario non produceva quasi nulla in termini di policy effettive’ – William Nordhaus e Joseph Boyer
Al di là della sempre più massiccia partecipazione di paesi e delegati, non può non evidenziarsi l’assenza nelle Conferenze delle Parti di un effettivo confronto/scontro sulle soluzioni pratiche che si sarebbero dovute perseguire per contenere il surriscaldamento entro 1,5°C. Quel confronto/scontro che avviene invece all’interno dei singoli Stati o degli organismi internazionali.
Aver discriminato, a Glasgow, escludendole da ogni pur minima presenza, le industrie del petrolio, del metano, del nucleare – definito come «l’elefante nella stanza» (11) – coinvolgendo invece ogni sorta di organizzazione (ambientalisti, sindacati, sindaci, società di ricerca, giornalisti, opinionisti, movimenti giovanili e financo la British Dragonfly Society a difesa delle libellule), è stata scelta inopportuna, controproducente, incomprensibile. Considerando anche che a organizzare il Summit sono le Nazioni Unite.
Ammettere alla COP appena il 10% delle fonti che assicurano la copertura dei fabbisogni energetici mondiali escludendone il 90% non è segno di forza ma di debolezza, perché ostacola quella cooperazione internazionale che si dovrebbe invece rafforzare.
Il dibattito sul «che fare» finisce, infatti, inevitabilmente per svolgersi più all’esterno che all’interno di queste assise, depotenziandone il significato, al di là del testo conclusivo (12) elaborato e approvato al termine di estenuanti negoziazioni. Documento importante, votato all’unanimità, con forza legale che dovrebbe derivargli dall’Accordo di Parigi, definito come «legally binding international treaty on climate change» anche se al riguardo vi sono contrastanti valutazioni (13).
Ammettere alla COP appena il 10% delle fonti che assicurano la copertura dei fabbisogni energetici mondiali escludendone il 90% non è segno di forza ma di debolezza
Le negoziazioni finali sono state centrate a Glasgow sulla messa al bando o meno del carbone col rifiuto dell’India (che vi dipende per il 72% della generazione elettrica) di impegnarsi in tal senso. Negoziazioni che lasciano inevitabilmente dietro di sé scie di rancori che allontanano anziché avvicinare le parti coinvolte. Che il premier Boris Johnson abbia avuto la sfrontatezza di rimproverare l’India (con un reddito pro-capite pari a un ventesimo di quello inglese) per il suo ricorso al carbone proprio mentre ne aumentava l’impiego in vecchie centrali per fronteggiare la crisi energetica (come accaduto anche in Germania, Francia, Italia) è stato paradossale.
Viene allora alla mente la COP24 del 2018 (14) che si tenne in Polonia a Katowice, la città più inquinata d’Europa, che conobbe al contrario una vera e propria esaltazione del carbone. Fonte che ha segnato nel 2021 un nuovo record storico, con un aumento del 9%, a dimostrazione di quanto sia difficile ridurne l’impiego specie se ad aumentarlo sono anche i paesi avanzati, ad iniziare dall’ipocrita Germania.
Non diversamente accadrà alla COP27 del prossimo anno, fissata a Sharm El-Sheikh in Egitto, che vede nel gas naturale e nel petrolio gli assi portanti del suo bilancio energetico e delle sue risorse minerarie. Difficile che ne derivi un j’accuse contro gli idrocarburi. A dire che il significato e le conclusioni delle COP molto dipendono dai paesi che le ospitano.
Da quanto premesso deriva la conclusione che sia illusorio sperare che questi Summit producano esiti che abbiano un qualche seguito fattuale. Niente di più di «parole al vento», come ebbe a commentare il premio Nobel per l’economia Jean Tirole a proposito della COP15 di Copenaghen del 2009 (15). Se l’obiettivo deve essere quello di individuare percorsi concreti e condivisi per migliorare lo stato delle cose, pare allora opportuno individuare altri format negoziali.
‘Parole al vento’ – Jean Tirole sui risultati di COP15 organizzata a Copenaghen
L’economista americano William Nordhaus, altro premio Nobel, partendo dal presupposto che «Diplomacy is cheap, but abatement is expensive», ha individuato le molte ragioni del fallimenti degli accordi internazionali: dal free-riding degli Stati (16), agli altissimi e certi costi locali sostenuti oggi a fronte di incerti benefici globali conseguibili, se va bene, nel lunghissimo termine.
Da qui, a suo avviso, la necessità di ridisegnare i trattati individuandone la soluzione nel club model: «Un gruppo volontario in grado di conseguire reciproci benefici attraverso una condivisione dei costi. I benefici – a suo avviso – saranno così elevati che i membri del club pagheranno il dovuto, aderendo alle sue regole per poterli conseguire».
Se gli Stati, anziché promettere azioni incapaci di modificare sostanzialmente le cose, si impegnassero in tal senso, la distonia tra impegni e fatti si ridurrebbe di molto. La proposta di Nordhaus non ha ottenuto tuttavia l’accoglienza che la sua indiscussa autorevolezza avrebbe meritato.
Se, come detto, l’inefficacia delle COP è riconducibile all’eccessiva numerosità dei partecipanti e alla vaghezza delle missioni assegnate, tanto varrebbe non coinvolgere circa 200 Stati ma limitarsi ai 90 organismi, imprese, governi che, secondo il Climate Accountability Institute, sono stati responsabili dal 1875 al 2010 di oltre due-terzi delle emissioni globali di gas serra (17) o ai 25 organismi che vi hanno contribuito per la loro metà dal 1988 al 2016 (18). L’esclusione dalle Conferenze di un gran numero di soggetti susciterebbe tuttavia reazioni tali da rendere questa soluzione difficilmente perseguibile.
Ridurre il numero di partecipanti per guadagnare in efficacia
Un’alternativa potrebbe consistere nell’istituzione di gruppi ristretti – chiamiamoli «tavoli tecnici» – sull’esempio di quelli esistenti tra paesi con interessi similari (quali l’Umbrella Group tra paesi avanzati e G77 e Cina tra quelli in via di sviluppo).
Gruppi, nel nostro caso, che affrontino tematiche ben circoscritte di cui dovrebbero far parte tutte le componenti e competenze industriali, scientifiche, climatiche relative a quelle tematiche. Facendo perno sulle molte iniziative che sono state avviate su determinate opzioni tecnologiche e industriali.
Un gran numero delle maggiori imprese mondiali si è impegnato verso i propri azionisti e stakeholder a conseguire l’obiettivo della neutralità carbonica, accrescendo la percezione che il mondo delle imprese sia in grado di ottenere di più delle politiche governative. Penso si debba far leva su questi impegni riponendo maggiori speranze di quelle annualmente riservate alle COP.
Esperienze in tal senso si sono avute specie in Germania, ove i grandi gruppi industriali (siderurgia, chimica) hanno fatto da guida nella ristrutturazione dei loro sistemi energetici e dei loro modelli di business, divenendo driver del raggiungimento degli obiettivi fissati dalla politica cui proponeva gli strumenti da mettere in campo (19).
Tavoli tecnici su tematiche circoscritte, composti da specifiche competenze industriali, scientifiche, climatiche
Su quali tematiche puntare e costruire questi tavoli tecnici? In prima battuta vien da pensare a settori industriali ad elevata intensità carbonica, quali aviazione, grandi trasporti, raffinazione-petrolchimica, cemento. I gruppi dovrebbero individuare un percorso con specifici obiettivi di riduzione delle emissioni indicando le tecnologie, le condizioni istituzionali, le politiche necessarie e, non ultimo, i tempi entro cui riuscirvi. Le risultanze di questi gruppi di lavoro dovrebbero essere vincolanti per i soggetti che vi hanno partecipato, anche se su base volontaria, e dovrebbero poi essere portate all’attenzione delle successive COP per riceverne una qualche forma di ratifica.
L’adozione di aggressive politiche climatiche – coerenti con il target net-zero – è scelta molto problematica per i governi in regimi democratici per più ragioni. Primo, perché migliorano le condizioni dell’intera società ma la distribuzione di costi e benefici non è uniforme tra i diversi attori sociali e nel tempo, derivandone inevitabili conflitti distributivi.
Secondo, per la difficoltà dei governi a imporre costi nel breve periodo e a decidere su quali attori essi debbano gravare: se sulle industrie (e loro lavoratori) o sui consumatori (votanti), o un mix tra i due. Derivandone ripercussioni elettorali a fronte di futuri incerti benefici e di dure opposizioni di gruppi organizzati che si ritengano penalizzati. Individuare un punto di equilibrio nei conflitti distributivi e nell’allocazione dei costi è condizione essenziale per il successo delle politiche climatiche.
L’approccio proposto parte esattamente da questa difficoltà e sottende l’idea che il processo di decarbonizzazione debba far leva non solo o tanto sulle azioni della politica – che pure resta determinante – ma ancor prima su quelle delle imprese, non già perché attente alle sorti del Pianeta ma piuttosto al loro stesso interesse”.
Il post è un estratto dall’articolo di Alberto Clò Limiti delle COP e proposte di riforma (pp. 40-43) pubblicato su ENERGIA 1.22
Alberto Clô è direttore della rivista Energia e del blog RivistaEnergia.it
Foto: Unsplash
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