12 Settembre 2022

L’ora più buia della sicurezza energetica europea

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Il Consiglio Europeo del 9 settembre ha rimesso alla Commissione il compito di assumere l’iniziativa su 4 fronti. Uno di questi è il tanto chiacchierato price cap, dal cui confronto emerge tuttavia una totale asincronia tra le due istituzioni europee. Sullo sfondo, si staglia il paradosso della destra italiana antieuropeista, che una volta al governo si troverebbe a dover rinsaldare l’UE dell’energia sulla scia del Governo Draghi che ha contribuito a far cadere.

In un clima di estrema debolezza politica, il Consiglio Europeo del 9 settembre ha rimesso alla Commissione l’ingrato compito di dettagliare le proposte di un intervento sui mercati del gas ed elettricità per porre un freno ad una spirale economica, politica e sociale che rischia di travolgere l’intera Unione Europea nel prossimo inverno. Con l’incedere dei giorni e il prossimo abbassamento delle temperature, le possibilità di implementare una misura condivisa e realizzabile nel breve tempo e che incida in maniera significativa, prevenendo un disastro energetico le cui conseguenze sono tanto ignote quanto potenzialmente dirompenti, si riducono.

Nell’ora più buia della sicurezza energetica europea servirebbe un’iniziativa politica di grande respiro e visione, ma che pare al momento totalmente mancare. Chi possa essere il Virgilio europeo, capace di guidarci fuori da questo ade energetico, rimane un dilemma di non facile risoluzione.

Una fumata grigia, tendente al color lignite

Riunitisi sotto la presidenza del governo ceco, i ministri dell’energia europei hanno richiesto che sia Bruxeles a prendere l’iniziativa su quattro tematiche principali, ovvero:

1) l’introduzione di un tetto ai guadagni per i produttori di energia elettrica non da fonte gassifera (i cosiddetti inframarginal power generators),
2) iniziative volte a risolvere il tema assai spinoso dell’assenza di liquidità per le compagnie energetiche,
3) una possibile introduzione di un tetto al prezzo del gas naturale e
4) misure coordinate di riduzione obbligatoria della domanda elettrica.

Secondo Jozef Sìkela, ministro dell’industria e commercio di Praga, l’accordo raggiunto pone le basi per una direzione futura sulle misure da adottare e dà il preciso incarico alla Commissione di proporre una proposta “robusta e tangibile”. Quello che secondo Sìkela è un “whatever it takes” energetico per aiutare cittadini e imprese.

Mentre sui primi due temi pare esserci maggiore coesione, il contenzioso è aperto sugli altri due. Da una parte il tema della riforma del mercato elettrico, di fondamentale importanza per arginare gli effetti deleteri dei prezzi del gas sull’intero comparto. Oltre a questo, sul tavolo del Consiglio le parti si sono infatti confrontate sul cosiddetto “Non-paper”, dedicato interamente al tema della riduzione dei costi del gas naturale.

Il risultato del vertice è però largamente riassumibile in una fumata grigia, tendente al color lignite. Non c’è da stupirsi di questo, visto che la Commissione, su iniziativa della Presidentessa von der Leyen, ha colto di sorpresa lo stesso Consiglio, annunciando due giorni prima dell’evento i punti chiave che la Commissione avrebbe proposto agli esecutivi, influenzandone con maggiore fermezza l’agenda.

Il “non-paper emergenziale”: passo falso di von der Leyen

Infatti, il Non-Paper “emergenziale” della Commissione per limitare il prezzo del gas naturale ha fatto capolino in concomitanza con l’annuncio della Presidentessa. Due i cardini principali del documento: la limitazione del prezzo di importazione del gas dalla Russia e l’applicazione e il coordinamento di misure amministrative per ridurre gli effetti nefasti dei rincari nelle regioni europee maggiormente esposte ad un taglio delle forniture russe.

Le due opzioni sono state presentate dalla Commissione non come alternative, ma come potenzialmente complementari tra loro. Nello specifico, appunto, il Non-Paper asserisce che l’imposizione di un price cap al gas russo “potrebbe implicare l’attivazione della clausola di ‘forza maggiore’ insita nei contratti esistenti di fornitura, la quale incrementa la possibilità di un’interruzione delle forniture” da parte della Russia.

La seconda misura, che rappresenta una sorta di sovietizzazione del mercato gassifero all’interno dell’Unione, parte da una centralizzazione estrema della regolamentazione del mercato, con conseguenze politiche ed economiche senza precedenti.

Su questo ci si riserva un approfondimento a parte, vista la complessità della questione. D’altra parte, l’accentramento proposto dalla Commissione sarebbe dunque una chiara conseguenza dei tagli che i paesi dell’Europa Centrale e Orientale si troverebbero ad affrontare davanti ad uno stop completo delle forniture russe, oggi transitanti soltanto attraverso Ucraina e Turchia, dopo lo stop imperituro al gasdotto Nord Stream 1.

“Non forniremo alcunché”

Dal forum internazionale di Vladivostok, emblema della potenza russa che guarda all’Asia per sganciarsi dalla dipendenza tecnologica e finanziaria occidentale, Putin in persona ha confermato che qualsiasi imposizione di un price cap determinerebbe l’invalidità di qualsiasi contratto siglato tra le parti: “non forniremo gas, petrolio, carbone e petrolio combustibile. Non forniremo alcunché” ha confermato alla platea l’inquilino del Cremlino.

D’altronde, in Europa vi è chi da tempo sostiene l’insostenibilità di una decisione rivolta al solo gas russo. Ad esempio, l’Ungheria di Orbàn, certamente il paese europeo più vicino a Mosca in questa fase, dà per scontato uno stop immediato delle forniture di gas nel caso in cui venisse introdotto un tetto al prezzo del gas russo. Le ripercussioni sarebbero immediate sull’accordo recentemente siglato tra Gazprom e il governo ungherese per aumentare le importazioni di gas russo nei prossimi mesi e rifornire gli stoccaggi di Budapest, tra i più bassi in Europa.

15 paesi vogliono un price cap generalizzato, 3 solo sul gas russo, 3 solo se economicamente sostenibile nel lungo termine e senza difficoltà per i paesi più debole, 5 contrari o neutrali

È poi stato lo stesso Minsitro Cingolani a rivelare, omettendo riferimenti a specifici paesi, come la soluzione di un price cap alle importazioni di gas presenti un ventaglio frastagliato di posizioni difficili da mitigare. Agli estremi vi sono quegli Stati membri che sostengono un price cap interamente focalizzato al gas russo (leggasi i paesi baltici) e cinque Stati che sono neutrali o contrari. Perché il Ministro abbia voluto accorpare paesi con posizioni così dissimili tra loro rimane per chi vi scrive totalmente incomprensibile.

Va anche specificato che l’intervento del governo italiano a supporto del tetto al prezzo del gas è sostenuto internamente da tutti i partiti, a prescindere dagli schieramenti. Anche qui, ovviamente, non appena si approfondisce il tema e si entra nel merito, le posizioni interne appaiono viaggiare su binari impossibili da congiungersi anche all’interno delle stesse coalizioni.

Ritornando però alla dimensione internazionale e continuando nella lista proposta da Cingolani, sono invece tre i paesi a voler comprendere meglio l’impatto di un price cap nel lungo periodo, soprattutto per alcune regioni specifiche dell’Europa. Tra questi Cingolani implicitamente include la Germania, la quale però nelle parole del Cancelliere Scholz rimane smaccatamente scettica rispetto qualsiasi price cap, anche nel caso in cui questo venisse applicato non soltanto alla Russia.

Il gruppo dei 15 guidato dal nostro Governo ha reso carta straccia il Non-Paper dalla Commissione

A questi, infine, si contrappone un nucleo centrale di 15 Stati membri che si sono pronunciati chiaramente a supporto di un tetto al prezzo del gas applicato ad ogni volume importato, a prescindere dal paese d’origine. Questa maggioranza relativa e guidata dal nostro stesso governo ha reso così carta straccia il Non-Paper dalla Commissione, a soli due giorni dalla sua pubblicazione sugli organi di stampa.

Fattivamente, l’applicazione di un cap generalizzato trasforma l’intera questione in un’enorme operazione geopolitica dell’Unione Europea nei confronti dei paesi produttori. Una proposta ben differente da quella avanzata dalla von der Leyen e incentrata sul solo gas russo. Un segnale lapalissiano dell’asincronia tra Commissione e Consiglio Europeo.

Leggendo infatti le varie dichiarazioni ufficiali risultanti dalle missioni dei membri della Commissione presso i vari partner gassiferi europei alternativi alla Russia, il tema di una concertazione bilaterale dei prezzi è stato totalmente assente. Ne deriva pertanto una distanza siderale tra quello che è stato l’operato di sei mesi di diplomazia energetica europea in Norvegia, Stati Uniti, Azerbaijan, Algeria, Egitto e l’intera Africa sub-Sahariana e la volontà degli esecutivi del Continente di imporre unilateralmente e in tempi rapidi (ragionevolmente entro l’autunno) condizioni ai paesi esportatori che limitino le loro capacità di guadagno con l’obiettivo di tutelare i consumatori europei.

I fornitori alternativi e la lezione russa

Una contraddizione che rischia inevitabilmente di spezzare un fronte che appare già fortemente indebolito, e che dà all’avversario russo, in forte crisi sul fronte bellico in Ucraina, un incentivo ulteriore a mantenere salda la propria pressione e trasformare l’intera questione energetica in un boomerang non solo economico, ma anche diplomatico per l’UE. Affannatasi alla ricerca di volumi alternativi a quelli russi, come potrebbe infatti Bruxelles convincere a queste condizioni i propri partner ad aumentare le proprie spese di produzione, esplorazione e costruzione di nuove infrastrutture per l’export, e quindi ad assumersi importanti rischi economici in una fase di estrema instabilità dei prezzi, per soddisfare la domanda europea e sostituire pienamente le importazioni dalla Russia?

Basterebbe ai paesi sopracitati limitarsi alle forniture attuali, a volumi sì importanti ma non sufficienti a sostituire interamente il gas siberiano, per mantenere alti i prezzi e godere di profitti economici giganteschi per anni, in un mercato le cui regole sono dettate dai venditori, e non dai compratori. Il rischio quindi di un’applicazione del manuale energetico russo su larga scala.

Ad un passo dal precipizio, le elezioni italiane del 25 settembre segneranno perciò un punto di svolta del contesto della diplomazia energetica europea. Il probabile nuovo governo di centrodestra sarà invero chiamato a giocare un ruolo di primaria importanza, a capo proprio di quella eterogenea coalizione di paesi che vorrebbero una forte unità politica dell’Europa, necessaria a fornire una soluzione a questa grave congiuntura. Non vi sono dubbi. Un compromesso con i nostri fornitori per garantirci sufficienti approvvigionamenti nell’affrontare perlomeno i prossimi due inverni e consentire la sopravvivenza di intere filiere industriali, garantendo occupazione e produzione, è una conditio sine qua non affinché il fronte occidentale resista alla formidabile offensiva energetica intrapresa dalla Federazione Russa.

Il paradosso della destra italiana antieuropeista

Il paradosso più evidente rimane però un altro. In prossimità di un traguardo storico per i partiti conservatori italiani, due dei quali caratterizzati da forti connotazioni antieuropeiste, saranno proprio questi a dover costituire una solida alleanza energetica all’interno dell’Unione Europea, capace di tradurre la proposta di un price cap ad ampio raggio per riportare la crisi sotto controllo in un’iniziativa di politica internazionale unica nel suo genere e ad altissimo rischio.

Il tutto, rimanendo sulla scia tracciata dal Governo Draghi, ovvero uno degli esecutivi che maggiormente si sono allineati e hanno influenzato la politica della Commissione nell’ultimo lustro e che lo stesso centrodestra ha contribuito in maniera evidente a far cadere.

Quali iniziative saranno avviate da Palazzo Chigi nei prossimi mesi e come le forze centrifughe rispetto i dettami dell’Europa si bilanceranno con la necessità di un fronte europeo per strappare concessioni ai paesi esportatori rimane un dilemma a cui neppure il miglior aruspice potrebbe rispondere. Auguriamoci dunque buona fortuna.


Francesco Sassi è dottore in geopolitica dell’energia presso l’Università di Pisa e analista dei mercati energetici presso Rie-Ricerche Industriali ed Energetiche


Foto: Unsplash

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