20 Settembre 2022

Il ricatto del gas russo, di Alberto Clò

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La recensione del libro di Alberto Clò sul ricatto del gas russo. Un mix di analisi storica, geopolitica, economica e, naturalmente, energetica che ripercorre in un centinaio di pagine le tappe della crescente dipendenza dalla Russia e la progressiva perdita di autonomia dell’Europa. 30 anni di storia energetica italiana ed europea per trarre insegnamento da quanto stiamo vivendo.

Com’è accaduto che abbiamo infilato la testa nella bocca del leone? Com’è potuto succedere che un intero continente di 450 milioni di persone abbia consegnato le chiavi delle proprie forniture energetiche a un altro paese, la Russia, che aveva manifestato in più occasioni tendenze aggressive? Come abbiamo fatto a non vedere?

Sono queste le domande che il direttore della rivista ENERGIA Alberto Clò si pone nel suo libro Il ricatto del gas russo. Ragioni e responsabilità, recentemente pubblicato da Il Sole 24 Ore, e lo fa non solo ai fini di una ricostruzione storica degli eventi che illumini momenti e responsabilità principali, ma per trarre insegnamento da quanto stiamo vivendo.

30 anni di storia energetica italiana ed europea per trarre insegnamento da quanto stiamo vivendo

Il saggio è un mix di analisi storica, geopolitica, economica e, naturalmente, energetica che ripercorre in un centinaio di pagine le tappe della crescente dipendenza dalla Russia e la progressiva perdita di autonomia dell’Europa.

Il libro – che per gli amanti dei temi energetici rappresenta una ghiotta opportunità per approfondire trent’anni di storia energetica italiana ed europea – si legge veloce, come un romanzo, sia per la prosa diretta e scorrevole dell’Autore sia perché esso racconta una storia.

Gli eventi analizzati, infatti, seguono la linea del tempo e descrivono quello che potrebbe definirsi un piano inclinato: è su di esso che la sfera della recente storia europea ha rotolato senza soluzione di continuità fino al dramma della crisi odierna, un prezzo del gas che esplode, come mai era accaduto nei mercati energetici in 150 di storia.

1. L’onda liberista e l’energia come commodity

Il piano inclinato si compone di diversi segmenti che si innestano l’uno nell’altro fino a formare una superficie scivolosa che irrevocabilmente ci butta nella bocca del leone.

Il primo segmento ha contenuto economico, o sarebbe meglio dire ideologico. È infatti l’onda liberista a lanciare la crociata dell’energia come commodity, nella convinzione che la liberalizzazione dei mercati energetici possa abbassare i prezzi e accrescere il benessere sociale e, soprattutto, che all’energia si applichino le stesse regole degli altri beni.

Di qui il ridimensionamento di Eni, il tetto alle immissioni del gas in Italia (75%) e alla vendita finale (50%), fino alla cessione di Snam. Ma i prezzi non scendono, a dimostrazione del fatto – scrive Clò – che “non è la numerosità delle imprese a garantire di per sé maggior concorrenza e che quel che conta nella fissazione dei prezzi finali dell’energia è l’andamento dei prezzi internazionali della materia prima e ancor più il mix di fonti utilizzate”.

Ma il dado è tratto: l’euforia liberista è dilagante e trasformerà profondamente l’universo di pensiero di politici, manager, accademici al punto che d’ora in poi uno degli architravi fondativi dell’energia – la sicurezza – verrà relegato nell’umido scantinato delle cose vecchie e superate, di cui non è utile nemmeno parlare. Il gas naturale è mera questione di mercato, c’è ed è abbondante: non è il più caso di tutelare la sua fornitura.

2. Il “no a prescindere”: peggiora la sicurezza energetica, peggiora la bolletta

A un certo punto, questa ideologia dell’onnipotenza del mercato si fonde con quella del “no a prescindere”, innestando il secondo segmento del piano inclinato che porta al disastro odierno. Greta e la transizione energetica sono verbi ancora al di là da venire, ma il vento dello scetticismo già soffia sui vessilli del mondo fossile.

Un dato solo, citato da Clò, vale a chiarire questo aspetto: “nel 1946 l’ENI di Enrico Mattei fece perforazioni per 7.600 metri (con i poveri mezzi di allora), contro gli appena 100 metri perforati poco prima del referendum del 2016”.  

È così che l’Italia passa dai 20 miliardi di metri cubi di gas prodotti sul suolo nazionale una ventina di anni fa, ai 3 attuali.

Il metano nell’Adriatico c’è ma non si può produrre: meglio comprarlo all’estero, tra l’altro a prezzi maggiorati. Dunque, doppio svantaggio: peggiora la sicurezza energetica, peggiora la bolletta. Eppure, scartato il carbone e scartato il nucleare, il metano – afferma Clò – era una scelta obbligata, e la soluzione interna sarebbe stata la scelta più razionale, con una crescita delle riserve “dai 190 miliardi di metri cubi del 1976 ai 310 di fine 1987, con un rapporto riserve/produzione prossimo ai 20 anni, tra i più elevati al mondo”. Ma questo non accade: misteriosamente, si punta sulle importazioni dalla Russia e dall’Algeria.

Per Clò, tutto ciò accade a ragione della “profonda discontinuità intervenuta nel ruolo di ENI a seguito dei processi di liberalizzazione del mercato e di sua pur parziale privatizzazione. L’uno e l’altro processo hanno sottratto all’ex-impresa pubblica le finalità pubblicistiche – in primis essere “fornitore di ultima istanza” del Paese – che ne avevano in precedenza guidato le scelte, senza peraltro che siano stati ridefiniti ruoli e responsabilità dello Stato azionista”.

3. “girarsi dall’altra parte”: i rapporti della politica nazionale ed europea con la Russia di Putin

Ma il combinato disposto di liberalizzazione e avversione alla produzione nazionale è semplicemente una condizione necessaria. Da sola essa non spiega la crescente dipendenza dalla Russia. Certo, l’ostilità ai rigassificatori – ecco un altro “no” – costituisce un pezzo di risposta, ma molto parziale. La spiegazione ultima sta nell’evoluzione dei rapporti della politica nazionale ed europea con la Russia di Putin.

È qui che il libro di Clò assume quella valenza economico-politica, così tipica dell’Autore – quasi un marchio di fabbrica – che legge i fatti energetici sempre connettendoli al sostrato politico sul quale essi galleggiano. Se si volesse trovare una sintesi per illustrare questo ultimo pezzo dello scellerato piano inclinato sul quale ancora siamo, potremmo usare l’espressione “girarsi dall’altra parte”.

Clò la usa quattro volte nel testo, a sottolineare il non voler vedere i rischi connessi alla crescente dipendenza da Mosca, rischi insiti non solo nella mera aritmetica – in pochi anni si passa dal 20 al 40% di dipendenza energetica per il metano – ma nell’atteggiamento progressivamente ostile di Putin.

Nel giro di un pugno di anni, l’uso dell’energia a fini politici e l’aggressività militare di Mosca diventano il binomio di una ricerca di grandeur politica incentrata sulla risorsa energetica.

We must not allow ourselves to become dependent, Angela Merkel, 2006

L’energia genera revenues economiche e politiche e dà alla Russia un’arma di ricatto straordinaria nei confronti dei paesi che dipendono dalla sua energia. E non è vero che la Russia è sempre stata un fornitore affidabile dell’Europa, perché – scrive Clò citando Keith Smith (Russia and Europea Energy Security. Divide and Dominate, 2008, CSIS) – essa “ha utilizzato l’energia come arma di pressione politica almeno venti volte dal 1990, specie nei confronti dei Paesi dell’Europa Centrale”.

Eppure, il pericolo chiamato eccesso di dipendenza energetica era stato ben visto dai leader europei: «It’s become very clear to us (…) how what is really an economic issue, namely the purchase and delivery of gas, is deeply political. We must not allow ourselves to become dependent». Così si era espressa Angela Merkel nel lontano 2006, ma la storia dimostrerà che la consapevolezza non fa l’azione.

Nella notte tra il 7 e l’8 agosto del 2008 le truppe russe entrano in Georgia e annettono Ossezia del Sud e Abkhazia, in quella che Dmitrij Medvedev chiamò, come fa Putin oggi con l’Ucraina, operazione speciale. Dunque, i segnali c’erano stati ed erano anche molti, ma un misto di incoscienza, shortermismo, incapacità di leggere la storia, abilità russa e interessi personali à la Schröder avevano tenuto la testa dell’Europa girata, pavidamente, dall’altra parte.

il «Molotov-Ribbentrop Pipeline» e gli interessi personali à la Schröder

Lasceremmo spazio alle parole dell’Autore, certamente più efficaci delle nostre, in uno dei passaggi che forse meglio restituisce la tonalità espressiva del piccolo volume:

“l’8 settembre 2005, una settimana prima delle elezioni che avrebbero portato al lungo cancellierato di Angela Merkel, Schröder firmò con Vladimir Putin il grande accordo per la costruzione del Nord Stream 1 – finalizzato ad aggirare l’Ucraina e indebolire i Paesi dell’Europa dell’Est – suscitando la rabbiosa reazione della Polonia che lo definiva come il «Molotov-Ribbentrop Pipeline» richiamando l’accordo russo-tedesco del 1939 che mirava a spartirsi la Polonia. Varsavia, per anni, per ritorsione, avrebbe votato contro ogni deliberazione europea che richiedesse l’unanimità dei voti dei Paesi membri. Alcuni mesi dopo Putin nominò l’ex-cancelliere presidente del consorzio che avrebbe costruito il gasdotto suscitando forti reazioni nell’intera Europea. «Il Cancelliere uscente ha venduto la Germania ai voleri del Cremlino» chiosò André Glucksmann mentre Schröder definiva l’amico Vladimir un «impeccabile democratico». Non meno rilevante è stata la sua nomina anche nel board di Rosneft pochi giorni prima dell’invasione della Ucraina”.

È così che la Russia è diventata il principale fornitore di energia dell’Europa: 40% delle sue importazioni di metano, 25% di quelle di petrolio, 55% di carbone, 20% di uranio. Non solo: in un’apertura di credito singolare, la Germania cederà a Gazprom il 20% della capacità di stoccaggio nazionale, “primo strumento della sicurezza energetica”.

Tutto era ampiamente prevedibile?

Il resto è il presente: la volontà di potenza della grande madre Russia, l’ossessione di Putin per l’Ucraina, la debolezza europea nutrita dall’enorme dipendenza energetica rappresentano la miscela che alimenta il fuoco della guerra, e la conseguente crisi dei prezzi e delle forniture.

Tutto ciò era “ampiamente prevedibile”, secondo Clò, se l’Europa avesse voluto e saputo vedere. Ma così non è stato, ed è per questo che essa è in gran parte responsabile di ciò che non ha voluto impedire.

Eccesso di meccanicismo? Limpidezza di visione che ha origine nella superiorità di prospettiva dell’a posteriori? Siamo sicuri che era davvero così semplice leggere nella testa di Mr. Putin? Sono queste alcune delle domande che, come lettori, ci poniamo mentre leggiamo il testo – molto godibile, va detto – di Alberto Clò.

Certo, è innegabile che l’Europa abbia creato le condizioni dello scacco matto che oggi la condannano, ma è altrettanto vero che mentre i pezzi venivamo mossi sulla scacchiera era difficile comprendere che si trattava di cavalli e alfieri e che una partita a scacchi, nel tempo trasformatasi in tragedia, fosse in corso.

Il lungo riposo post-Guerra Fredda ha offuscato i riflessi della vecchia Europa, e purtroppo non c’è stato alcun Catone a risvegliarla con un cesto di fichi. Ciò che rende la Storia, e la vita, enigma è la mancanza di un contro-fattuale: tutto accade sempre e soltanto per la prima volta, e non vi è alcun laboratorio nel quale testare la dinamica dell’esistenza. Quale ne sia la genesi, l’accaduto resta però di fronte a noi, e rappresenta una straordinaria opportunità di apprendimento.

Un fatto squisitamente politico

Conveniamo con Alberto Clò che occorre trarre l’adeguata lezione: reagire, come l’Occidente fece in seguito alle due crisi petrolifere degli anni Settanta, modificando il mix energetico e liberandosi dal gas russo. Nuove tecnologie e nuove fonti verdi, nuove infrastrutture di trasporto dal Mediterraneo, sfruttamento delle riserve di idrocarburi di cui l’Europa dispone. Soprattutto, accantonare l’idea che l’energia possa essere considerata una commodity come qualsiasi altro bene, soggetta alle semplici leggi di mercato, indipendente da vincoli di interesse nazionale.

Al contrario – e sono queste le parole dell’Autore con le quali chiuderemmo – “l’energia è un fatto squisitamente politico che rientra nella sfera della sicurezza nazionale e, relativamente all’ambiente, in quella della protezione dell’attuale e future generazioni”. E forse è questo il lascito più importante di questi sciagurati giorni.


Enzo Di Giulio è membro del Comitato Scientifico di ENERGIA



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