Il 5 ottobre l’Opec+ ha deciso di tagliare la produzione di petrolio di 2 milioni barili al giorno a iniziare da novembre. Quale impatto sul mercato petrolifero? Cosa attenderci nei prossimi messi? A quali aspetti prestare attenzione?
Nel summit del 5 ottobre, l’Opec+ – alleanza tra paesi Opec e quelli esportatori di petrolio che orbitano intorno alla Russia – ha deciso di tagliare la produzione di petrolio di 2 milioni barili al giorno a iniziare da novembre.
Un taglio maggiore di quanto i mercati si attendessero e pari a poco più del 4% della produzione corrente e al 2% della domanda mondiale.
Un taglio più nominale che reale
Il rialzo dei prezzi è stato sinora abbastanza limitato, meno del 2% il 6 ottobre per il Brent a 93,4 dollari al barile, motivabile con l’incertezza sull’effettivo taglio fisico e le possibili reazioni degli Stati Uniti.
Nei mesi scorsi Opec+ non è stata infatti in grado di rispettare i target produttivi che sia era data, per 3 mil.bbl/g, così che la riduzione decisa due giorni fa è parsa a gran parte dei commentatori, a iniziare da Goldman Sachs, più nominale che reale.
In sintesi, più come l’allineamento della produzione effettiva ai target fissati che una deliberata mossa di riduzione dell’offerta mondiale – da chi la controlla per circa la metà – al fine di risollevare i prezzi scesi da fine agosto sotto i 100 doll/bbl contro una precedente media di 107 doll/bbl.
Vi è tuttavia chi, come Phil Verleger, la ritiene una mossa alquanto rischiosa da parte dei paesi Opec+: da una parte, favorendo la Russia che gioverebbe del rialzo dei prezzi, prenderebbero indirettamente posizione sul conflitto ucraino; dall’altra, mettendo pressione sulle economie emergenti, rischiano di compromettere la crescita della futura domanda petrolifera.
Gli Stati Uniti, Biden e le elezioni di mid-term
Quanto agli Stati Uniti sappiamo come la prima preoccupazione dell’Amministrazione Biden, in vista delle elezioni di mid-term, sia il contenimento dei prezzi della benzina all’incirca raddoppiati in un anno a circa 4 dollari per gallone.
Per contenerli Biden aveva deciso a marzo il maggior rilascio di scorte strategiche mai avvenuto, per 1 mil.bbl/g, rimproverando duramente le imprese petrolifere per non sfruttare i numerosi progetti di estrazione autorizzati. Segno che le imprese non si fidavano molto della sua riconversione ad U in materia ambientale, oltre che essere, come osservava Severin Borenstein ormai 4 mesi fa, una “sparata” tipicamente conservatrice (“drill, baby, drill”) che nulla può risolvere nel breve, mentre molto può complicare nel lungo.
L’appello alle compagnie petrolifere affinché riducano il gap tra prezzi all’ingrosso e alla pompa è stato ribadito in un comunicato del 5 ottobre, nel quale il Presidente si dichiara “disappointed by the shortsighted decision by OPEC+” e annuncia che consulterà il Congresso per adottare “additional tools and authorities to reduce OPEC’s control over energy prices”.
Avvicinandosi le elezioni non è escluso che Biden possa por mano ancora agli stoccaggi di greggio e prodotti per calmierare i prezzi anche se questa mossa favorirebbe i consumi di petrolio che nel corso dell’anno hanno registrato solo una minima contrazione.
Si avvicina la prova dell’embargo
Ma a decidere il futuro dei prezzi del greggio sarà nei mesi a venire, oltre a quel che avverrà da parte dell’Opec+, anche il possibile effetto boomerang dell’embargo petrolifero decretato alla Russia dall’Unione Europea.
A partire dal 5 dicembre prossimo per il greggio e dal 5 febbraio per i prodotti derivati (in entrambi i casi traportati via mare) l’Europa dovrà infatti supplire alla riduzione di oltre 2,2 milioni di barili al giorno che importava da Mosca e che sono aumentati dall’annuncio dell’embargo.
L’uscita dal mercato internazionale di larga parte del petrolio russo, per la possibilità di dirottarlo solo in parte verso i mercati asiatici e per la quota che dovrà rispettare nel taglio deciso da Opec+, potrebbe causare, secondo il parere degli operatori, una pressione al rialzo dei prezzi del petrolio e soprattutto dei suoi derivati per la crisi che attanaglia il sistema raffinativo mondiale.
Neppure gli Stati Uniti, come hanno ben spiegato De Giorgio e Paltrinieri, saranno impermeabili all’embargo sul petrolio russo, non potendo fare a meno dei volumi di importazioni estere di petrolii idonei a far “girare” gli impianti di raffinazione.
L’aumentata spare capacity di greggio potrebbe costituire un volano per l’Europa a sostituire le forniture russe (pari nel 2021 al 25% di tutte le importazioni), sempre che la qualità sia quella richiesta. Ma ad ogni modo è opinabile che i paesi dell’Opec+, a partire dall’Arabia Saudita che non ha mai condannato l’invasione russa dell’Ucraina, si prestino a dirottare le loro esportazioni verso l’Europa di fatto alleandosi contro Mosca.
Le cose potrebbero peggiorare nel lungo
Se il petrolio aveva sinora offerto ai paesi europei un certo sollievo – rispetto ai drammatici rialzi del gas, dell’elettricità, del carbone – vi sono rischi che questo non accada nei prossimi mesi, anche per la forte resilienza della domanda di petrolio al rallentamento dell’economia che, in base alle previsioni dell’Agenzia di Parigi dovrebbe nell’ultimo trimestre dell’anno raggiungere i 100,9 mil,bbl/g: oltre i livelli pre-pandemia.
Le cose potrebbero poi peggiorare nel lungo quando il vuoto degli investimenti minerari nel petrolio comincerà a mordere con un graduale calo dell’offerta disponibile.
Alla luce di tutto questo continuare a sussidiare i consumi, come l’Italia sta facendo, non pare proprio una politica razionale.
Alberto Clô è direttore della rivista Energia e del blog RivistaEnergia.it. Ha di recente pubblicato il saggio Il ricatto del gas russo.
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Foto: Wikimedia Commons
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