Cala il sipario sulla COP 27 confermando le basse aspettative. Che il “loss and damage” abbia irretito l’intero negoziato segna un primo, implicito, passaggio di consegne tra la mitigazione e l’adattamento: i tagli latitano ma i danni ci sono e vanno controbilanciati.
Alla fine, dopo due settimane di negoziato, ciò che era piccolo è diventato grande, e infine macigno. La COP 27 è stata come risucchiata dall’immenso campo gravitazionale del “loss and damage” e lì si è incagliata.
Caotiche e confuse, le ultime ore del negoziato hanno lasciato presagire lo spettro del non accordo, in una lotta che a tratti sembrava di tutti contro tutti. Poi, come già accaduto altre volte, i furori dei punti di vista ortogonali si sono spenti e si è raggiunto l’accordo. Virtuoso, storico, utile ed efficiente?
Nulla di tutto questo: semplicemente un compromesso che, nella migliore tradizione del negoziato climatico, scioglie il problema in una soluzione diplomatica fatta di genericità e dilazione. Ciò che è solido e spigoloso – gli interessi contrapposti – viene smussato dalla centrifuga linguistica, eterna regina della diplomazia mondiale, che frammenta gli opposti in una gelatina lessicale ad altissima digeribilità.
Il rinvio al futuro del chiarimento di questioni non smussabili fa il resto. È così che a Sharm el-Sheikh si è raggiunto l’accordo last minute.
Perdite e danni
Ma andiamo con ordine. La COP 27 comincia con la richiesta dei paesi in via di sviluppo di istituire un fondo per alleviare, se non compensare, i danni indotti da eventi climatici estremi. Per anni i paesi emergenti hanno chiesto questo fondo, alla base del quale è sotteso un sillogismo di straordinaria semplicità: la responsabilità delle emissioni ricade principalmente sui paesi ricchi, i danni causati dai cambiamenti climatici sono quindi da imputare ai paesi ricchi, ergo essi devono pagare tali danni.
È presumibile che il crescere degli eventi estremi – si pensi alle inondazioni del Pakistan che hanno causato oltre 1.700 morti la scorsa estate – abbia giocato un ruolo chiave nel convincere le economie ricche, in particolare Unione Europea e Stati Uniti, a dibattere questo tema.
E così, piano piano, ciò che era un piccolo punto sul tavolo negoziale si è espanso fino a diventare uno smisurato nodo gordiano che ha irretito, rischiando di affondarlo, l’intero transatlantico del negoziato.
4 punti spinosi che hanno complicato il compromesso
Quattro le cause di questa situazione: in primis, l’intrinseca complessità delle COP che, mettendo intorno a un tavolo quasi duecento paesi, rende difficile qualsiasi risoluzione. È arduo pervenire a una sintesi tra duecento parti, se anche paradossalmente gli interessi fossero i medesimi. E nella fattispecie essi sono opposti.
In secondo luogo, vi è la questione di chi deve pagare a chi. In breve, la Cina deve essere considerata un paese beneficiario del fondo, oppure un contributore?
Storicamente la Cina viene considerata un paese emergente e spesso negozia insieme al gruppo detto G77, ovvero 134 paesi in via di sviluppo. Ma sappiamo che la Cina è una potenza mondiale, il paese che emette più di tutti gli altri, il 27% del totale mondiale. Di qui l’opposizione di Europa e Stati Uniti che hanno insistito per un’interpretazione circoscritta della lista dei paesi beneficiari, limitandola ai fragili e poveri.
La terza questione concerne la natura del fondo. Tanto l’Ue quanto gli USA hanno insistito affinché i fondi versati non venissero interpretati come compensazioni per i danni occorsi. Ciò per due ragioni: in primis, per evitare un’implicita ammissione di responsabilità che avrebbe implicazioni legali considerevoli; in secondo luogo, per arginare l’entità dei fondi da versare che, nel caso fossero intesi come riparazioni, non sarebbero più sotto il loro controllo.
“Reparations’ is not a word or a term that has been used in this context” ha detto John Kerry, inviato speciale per il clima del Presidente Biden: “we have always said that it is imperative for the developed world to help the developing world to deal with the impacts of climate.”
Su posizioni analoghe, l’Unione Europea che si è opposta a interpretare i fondi come base per pagamenti diretti, intendendoli piuttosto come forme di aiuto per i paesi vulnerabili.
Infine, a ritardare l’accordo, ha concorso il cortocircuito che sì è creato tra il tema “loss and damage” e la questione della mitigazione. L’Unione Europea ha minacciato di ritirarsi dal negoziato se il target di 1,5°C, espresso a Glasgow, non fosse stato confermato a Sharm El Sheikh, come sembrava emergere da una prima bozza dell’accordo che era stata fatta circolare.
“We do not want 1.5 Celsius to die here and today. That to us is completely unacceptable,” ha tuonato il Commissario Europeo per il clima Frans Timmermans.
A quale prezzo?
Alla fine, però, tutti i pezzi del mosaico sono andati a posto e si è raggiunto l’accordo. Il prezzo pagato è stato la genericità del testo e la sua fiacchezza complessiva che non eleva il livello di ambizione della lotta al cambiamento climatico.
Un riferimento generico all’eliminazione graduale (phase-out) dei sussidi ai combustibili fossili e alla riduzione (phasedown) del carbone non abbattuto via CCS nella generazione elettrica è la massima concessione che i paesi produttori di fossili hanno fatto a chi, come l’Unione Europea, spingeva per un maggiore coraggio.
Le questioni spinose concernenti il fondo “loss and damage” sono state rimandate al futuro. Un comitato di transizione, che si riunirà la prima volta nel marzo 2023, approfondirà quali finanziamenti sono necessari, da dove dovrebbero provenire i fondi e se la base dei paesi donatori debba includere paesi quali la Cina o il Qatar.
È così che è sceso il sipario sulla COP 27: il finale ha di fatto confermato le basse aspettative dell’inizio della Conferenza. Un altro anno è passato, è tuttavia positivo il fatto che il tema del “loss and damage” abbia avuto un riconoscimento formale nell’ambito del negoziato, sebbene le incertezze che rimangono siano formidabili.
Il fondo non vedrà la luce prima del 2024 e le stesse resistenze alla realizzazione del famoso target dei 100 miliardi di dollari annui a favore dei paesi in via di sviluppo non autorizzano ottimismo.
1,5°C where art thou?
Non solo: la distanza dal dichiarato obiettivo 1,5°C era e rimane stratosferica. Nel 2030 le emissioni dovrebbero essere più basse del 45% rispetto al livello del 2010, mentre tendono a un + 10%.
Ma ciò che più sorprende non è tanto l’insufficienza dei target quanto il fatto che i paesi non li stanno realizzando. Come si legge nel recente report UNEP Emissions Gap Report, “countries are off track to achieve even the globally highly insufficient NDCs”. Il delta è compreso tra i 3 e i 6 miliardi di tonnellate di CO2.
Dunque, una COP con due facce: da una parte l’astenia totale rispetto ai tagli, dall’altra l’istituzione del “loss and damage” che ha monopolizzato il dibattito.
Ma in ultimo, a pensarci bene, è come se questo doppio registro segnasse un primo, implicito passaggio di consegne, in ambito COP, tra la mitigation e l’adaptation. I tagli latitano ma i danni ci sono e vanno controbilanciati.
È bene adattarsi al mondo che verrà, che sarà sempre più ostile.
Enzo Di Giulio è membro del Comitato Scientifico di ENERGIA
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Foto: Chris Devers
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