7 Novembre 2022

COP 27: piccolo raggio di luce nella nebbia

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Stando ai nuovi target datisi dai Paesi, l’aumento delle emissioni al 2030 rispetto all’obiettivo 1,5°C è sceso al 10,6% dal 13,7% dello scorso anno: un piccolo raggio di luce nella nebbia. Ma la distanza è ancora eccessiva. E COP27 non può fare molto per accelerare la riduzione delle emissioni.

La kermesse è ripartita. Trentamila persone che convergono sull’Egitto da ogni angolo del mondo. Sharm El-Sheikh blindata. Dodici giorni di negoziazioni per spostare avanti la macchina, finora troppo lenta, delle politiche sul clima. Quale velocità segna il tachimetro? Insufficiente, ce lo dice la Unfccc nell’ultimo Synthesis Report pubblicato.

Per rispettare l’obiettivo di 1,5°C, riaffermato a Glasgow, occorre che le emissioni del 2030 siano del 45% più basse di quelle del 2010. Un anno fa, a Glasgow, le emissioni implicite nei target dichiarati dai Paesi erano del 13,7% più alte di quelle del 2010.

Se tutti i Nationally Determined Contributions dichiarati venissero implementati la temperatura aumenterebbe di 2,1-2,4°C

Oggi, beneficiando dei nuovi target esplicitati dai paesi (Nationally Determined Contributions) nel corso dell’ultimo anno, il delta rispetto all’obiettivo è pari al 10,6%: il miglioramento è un piccolo raggio di luce nella nebbia, ma la distanza è ancora eccessiva. Se tutti gli NDC dichiarati venissero implementati – ipotesi tutta da dimostrare – la temperatura aumenterebbe di 2,1-2,4°C, troppo rispetto al grado e mezzo desiderato.

In sintesi, siamo ancora su una traiettoria troppo alta, come mostra la Unfccc in un grafico proposto nel suo ultimo Synthesis Report.

Cosa può fare COP 27 per accelerare la riduzione delle emissioni? Molto poco, per due ragioni

La domanda a questo punto è la seguente: quanti gradi di libertà ha questa COP 27 di accelerare ritmo e dimensione dei tagli? Molto pochi, essenzialmente per due ragioni.

La prima dipende dalle regole insite nelle COP che da Parigi in poi prevedono che i target siano dichiarati dai Paesi prima della Conferenza, o anche nel corso della stessa. Il rovesciamento dell’approccio top-down di Kyoto ha portato, a Parigi, a un approccio cosiddetto bottom-up, ovvero i tagli emergono da dichiarazioni volontarie dei paesi che, fino ad oggi, sono state espresse quasi sempre prima dell’avvio della Conferenza.

Dunque, sappiamo già qual è la velocità alla quale la macchina viaggia, non c’è modo di incrementarla.

Certo, uno dei risultati positivi del patto di Glasgow è che i Paesi non sono più vincolati ad esprimere il miglioramento dei propri obiettivi ogni cinque anni, come definito a Parigi. Possono farlo quando vogliono. Ciò si è già riflesso nel miglioramento della traiettoria delle emissioni con l’abbassamento del target – come evidenziato sopra – da + 13,7% a + 10,6%.

Non si può escludere che nelle due settimane di Sharm qualche paese limi il proprio NDC – come accadde a Glasgow, con il surplus rispetto al target di emissioni al 2030 che passò dal 15,9% prima della Conferenza al 13,7% alla sua conclusione – ma nel complesso è improbabile che si raggiungano miglioramenti considerevoli dei tagli.

Il nuovo clima da Guerra Fredda e il peggiorato quadro macroeconomico non facilitano l’assunzione di maggiori impegni e la collaborazione tra paesi

Ciò a ragione sia di quanto accaduto fino ad oggi, sia – e qui veniamo alla seconda causa – del clima politico fortemente negativo. La guerra tra Russia e Ucraina ha ripristinato un contesto da Guerra Fredda che, di certo, non facilita slanci positivi dei paesi.

Due gli impatti negativi sulle politiche climatiche:

  • l’incremento dei prezzi energetici che ha accresciuto il contesto inflazionistico maturato già prima della guerra;
  • il rallentamento dell’economia globale indotto sia dalle sanzioni sia dalle politiche restrittive delle banche centrali che riducono la liquidità e alzano i tassi d’interesse.

Questi due fattori rappresentano un freno alla crescita dell’economia globale, e dunque agli investimenti di qualsiasi tipo. Nell’ultimo World Energy Outlook, pubblicato un paio di settimane fa, la IEA ha mostrato come il volume degli investimenti green sia ancora troppo distante da quelli richiesti. Occorrerebbe investire quattro trilioni di dollari all’anno, ovvero circa il 4% del PIL mondiale, ma siamo fermi a 1,4 trilioni.

Occorrerebbe investire 4 trilioni di dollari all’anno, ma siamo fermi a 1,4 trilioni

Questo dato fa il paio con quello, citato sopra, relativo all’insufficienza degli impegni, e lo spiega. Gli Stati esitano ad assumere impegni di taglio più gravosi per la stessa ragione per la quale investono insufficientemente: mancano gli impegni perché mancano i soldi, oppure perché, semplicemente, non si ha la forza di riorientare fondi che fluiscono in altre direzioni verso la green economy.

È evidente che l’attuale quadro macroeconomico aggravi questa situazione di per sé già critica, e questa è una delle ragioni che induce a pensare che Sharm El-Sheikh non indurrà nessuna accelerazione sostanziale ai tagli, e dunque al processo di riorientamento dell’economia mondiale.

Fonte: IEA, WEO 2022

La guerra ha dato un’ulteriore riprova della complessità della transizione energetica

Poi vi è una terza ragione, legata anch’essa alla guerra: si è generata una nuova consapevolezza circa il grado di complessità della transizione energetica, specialmente per l’area che, sino ad oggi, è stata la punta di diamante della transizione green, ovvero l’Unione Europea.

Posta di fronte al problema concreto di sostituire il gas russo, l’UE ha potuto verificare che i tempi di penetrazione delle fonti verdi sono molto lunghi e quindi, alla fine, nel breve periodo si è orientata a sostituire il gas russo con gas di altra provenienza. Il piano del Governo italiano, teso ad affrontare la carenza di gas dell’inverno in arrivo, ne è una dimostrazione: non cita alcuna sostituzione di gas con rinnovabili.

Certo, è vero che si tratta di un piano che ha un orizzonte temporale di soli sette mesi (agosto 2022-marzo 2023), ma è altrettanto vero che la guerra è cominciata nel febbraio 2022 e che si poteva cominciare subito a sostituire gas con rinnovabili. Se non lo si è fatto non è tanto per un’inefficienza di fondo del sistema – che pure esiste e gioca un ruolo – ma per la lentezza intrinseca nella penetrazione delle fonti verdi: ci vuole tempo.

Da “il carbone non ha futuro” al “non ci sono tabù”: la giravolta di Timmermans

Testimonianza di questa difficoltà dell’Europa a far decollare la transizione è il cambio di direzione di 180° insito nella posizione del Commissario europeo per il clima Frans Timmermans, che è passato da “We know that coal has no future” a “There are no taboos in this situation”. Per citare l’azzeccato titolo di un articolo sul ritorno del carbone, “primum vivere, deinde decarbonizzare”.

La sbornia del 2020 – anno di vera rottura per la transizione energetica, con la dichiarazione di net zero emissions target da parte di parecchi paesi – è passata. In ultimo, ad ogni latitudine si è compreso che non si può sostituire un paradigma energetico-industriale che ha dettato legge per oltre un secolo e mezzo con uno schiocco di dita, ovvero per decreto.

E la guerra tra Russia e Ucraina lo sta dimostrando, come fosse un esperimento di laboratorio indotto dalla Storia che testa, tra le altre cose, l’assunta fluidità della transizione green.

Quindi la COP 27 è inutile? No

Dunque, se le aspettative sono al ribasso, dobbiamo concludere che la COP 27 è evento inutile? No, perché una Conferenza delle Parti, soprattutto se intermedia, successiva al meta-accordo che è Parigi, è molto più che la questione dei tagli. I tagli rappresentano la direzione di marcia e l’obiettivo, ma poi c’è da rendere entrambi operativi.

In tale contesto, si auspica che i progressi fatti a Glasgow nella definizione dei meccanismi di funzionamento dell’articolo 6, concernente i progetti internazionali per l’abbattimento delle emissioni e i trasferimenti dei crediti tra Paesi, siano rafforzati a Sharm. Oggi, dopo Glasgow, le technicalities dell’articolo 6 sembrano meno avvolte nell’oscurità e si spera che Sharm dia a questi progetti nuova linfa.

Altro tema che verrà discusso in Egitto è quello relativo alla cosiddetta questione del “loss and damage”, ovvero alle conseguenze devastanti del cambiamento climatico su paesi fragili.

Si pensi alle inondazioni estive del Pakistan che hanno impattato su 33 milioni di persone, causando la morte di oltre 1.700 esseri umani e di oltre 1,1 milioni di animali.

I paesi poveri reclamano sostegni economici adeguati a danni che, in ultima analisi, sono l’effetto della crescita straordinaria dei paesi ricchi. In tale contesto, analogamente a quanto accaduto a Glasgow, Madrid e Katowice, sul tavolo di Sharm El-Sheikh sarà dibattuto l’annoso problema dei 100 miliardi di dollari annui promessi dai paesi ricchi a quelli poveri.

La cifra risale addirittura alla fallimentare conferenza di Copenaghen, nel lontano 2009, ed era stata poi ribadita in quella di Parigi. E tuttavia la contabilità degli aiuti registra, purtroppo, una distanza eccessiva dal traguardo dichiarato.

Fonte: OECD

In sintesi, c’è ancora molto da fare. La mastodontica macchina del negoziato, con i suoi quasi duecento paesi che devono trovare un accordo su una molteplicità di aspetti, certo non aiuta. Ma è questo che abbiamo in mano oggi. Si può discutere di altri assetti e di miglioramenti à la Nordhaus, ma ciò concerne il futuro. Il pranzo va preparato con gli ingredienti disponibili nella dispensa oggi. Non sono né abbondanti né di prima qualità, ma ci sono. Vanno sfruttati al meglio.


Enzo Di Giulio è membro del Comitato Scientifico di ENERGIA


Foto: Unsplash

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