11 Novembre 2022

Il diabolico (pur legittimo) operare delle oil companies

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Ingentissimi profitti, lautissimi dividendi, scarsissimi investimenti: l’operare delle oil companies non aiuta a scongiurare le prospettive di scarsità relativa di offerta di petrolio e gas che renderebbero ancor più strutturale la crisi energetica emersa lo scorso anno.

Due notizie nel mondo del petrolio merita evidenziare perché ne proiettano un futuro non scevro da gravi rischi.

La prima è data dagli ingentissimi profitti realizzati dalle compagnie petrolifere di tutto il mondo, grazie agli elevati prezzi specie del gas e alla risalita di quelli del petrolio stabilmente oltre i 90 dollari al barile.

Le compagnie americane hanno registrato profitti tra secondo e trimestre di quest’anno per 200 miliardi di dollari, consolidando una lunga tradizione che ha visto compagnie e petroStati incassare utili nell’ultimo mezzo secolo per 52 mila miliardi di dollari.

200 miliardi i profitti delle oil companies USA in appena 2 trimestri

La seconda è la straordinaria imprevista resilienza della domanda di petrolio agli alti prezzi, ai primi sintomi di recessione, alla bassa crescita della Cina. L’Agenzia di Parigi la stima nell’Oil Market Report di ottobre in 100,6 milioni di barili al giorno nel IV trimestre, poco o al disopra dei livelli pre-pandemia, con una previsione di crescita nel IV-2023 a 102,9 milioni di barili al giorno.

Tra le due notizie parrebbe esservi una correlazione positiva: se aumentano i profitti, aumenteranno gli investimenti, la domanda sarà soddisfatta. Ma le cose non stanno così perché le imprese petrolifere intendono perseguire una strategia di massimizzazione del ‘shareholeder returns’ (con più dividendi per azione e operazioni di buy back) piuttosto che di crescita organica nel loro business tradizionale aumentando gli investimenti.

Investimenti che vanno registrando per altro una sempre minor produttività, con tassi di rimpiazzo della produzione corrente di non poco inferiori al 100 per cento. A questo si aggiunga il forte aumento dei costi nella fase upstream, che Wood Mackenzie stima tra il 10% e il 25%, ma che le imprese sostengono di aver assorbito mantenendo inalterati i breakeven.

Le ragioni del basso livello di investimenti

Il basso livello degli investimenti è riconducibile a più ragioni:

  • la severa disciplina finanziaria e le priorità finanziarie che si sono date;
  • la preoccupazione, guardando agli scenari dell’Agenzia, di un declino delle fossili dal prossimo decennio, non escludendo che possa avvenire già in questo per il progredire della transizione energetica favorita proprio dagli alti prezzi delle fossili;
  • le posizioni assunte dai loro stessi azionisti, che chiedono loro un maggior impegno nelle tecnologie green
  • ma in primis: la valutazione delle decisioni assunte dai governi ed organismi internazionali, con l’Inflation Reduction Act negli Stati Uniti (che prevede 369 miliardi di dollari di spesa nelle fonti verdi), il pacchetto Fit for 55 e REPowerEU in Europa e il Green Transformation program in Giappone.

L’intenzione delle cinque maggiori imprese petrolifere occidentali (Bp, ExxonMobil, Chevron, Shell e TotalEnergie) è di versare quest’anno ai loro azionisti oltre 100 miliardi di dollari: più dei loro complessivi investimenti.

Le 5 majors daranno agli investitori più di quanto non re-investiranno

Investire d’altra parte col rischio di dover domani incorrere in enormi costi affondati o produrre a prezzi antieconomici non è una prospettiva allettante.

È, d’altra parte, ormai lontano il tempo in cui le compagnie petrolifere si sentivano impegnate a soddisfare la domanda mondiale. Oggi non è più una loro priorità, come si è visto con crisi energetica esplosa lo scorso anno per la scarsità di gas, e resa più acuta dalla guerra in Ucraina. Ci pensino i governi, paiono dire, anche perché essi si dicono convinti che di investimenti nell’oil&gas non ve ne sia più necessità. Dimenticandosi in tal modo del dovere di liberarsi delle esportazioni energetiche dalla Russia, in primis petrolio e gas.

Il mismatch investimenti-domanda è reso critico dall’attuale esigua spare capacity di petrolio ma anche di gas, che rende peraltro non poco problematico l’embargo europeo al petrolio russo che scatterà il 5 dicembre per il greggio e il 5 febbraio per i suoi derivati.

L’Europa dovrà sostituire 1,1 milioni di barili al giorno di petrolio greggio e i circa 0,9 milioni di barili al giorno di suoi derivati che ancora importa dalla Russia. Riuscirvi sarà difficile. Ne potrebbe derivare una corsa all’accaparramento delle quantità disponibili, con inevitabile balzo dei prezzi.

La sostituzione sarà difficile vista anche l’incapacità dell’Opec+ (che fa perno sull’alleanza Arabia Saudita-Russia) di soddisfare i suoi stessi obiettivi di offerta nel breve termine.

Penuria nell’abbondanza: forti tensioni in vista sul mercato del petrolio

La conclusione è che vi sono severi rischi che in un’industria per altro normalmente ciclica si vada profilando – dopo la grande abbondanza che conoscemmo nel nuovo Millennio, grazie anche alla shale revolution – una nuova fase di scarsità relativa di offerta sia di gas che di petrolio, anche per l’incapacità dello stesso shale oilcome esaminato nell’ultimo numero di ENERGIA – di sostituire, nonostante l’abbondanza, in qualità e quantità il declino dei flussi convenzionali.

Una nuova fase dell’industria petrolifera che renderebbe ancor più strutturale la crisi energetica emersa lo scorso anno. A meno che la transizione energetica non riesca come è nelle generali speranze di sostituire gran parte della loro produzione.

L’insieme di questi fattori porta a non escludere che nei prossimi mesi possano registrarsi forti tensioni sul mercato del petrolio. Fonte, vale rammentare, che resta la prima in Europa (e in Italia) anche se Bruxelles sembra averla cancellata dalla sua mappa energetica e dalle sue politiche energetiche.

Bisognerà sempre più fare affidamento sulle strategie di investimento delle National Oil Companies dei paesi produttori e sulle compagnie occidentali loro alleate (ad iniziare da quelle in Iraq).

Una crisi del dimenticato petrolio che dovesse aggiungersi a quella del gas e dell’elettricità non potrebbe che peggiorare il già drammatico stato delle cose sul fronte dell’energia in Europa e nel nostro paese.


Alberto Clô è direttore della rivista Energia e del blog RivistaEnergia.it. Ha di recente pubblicato il saggio Il ricatto del gas russo.


Foto: Pixabay

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