Embargo (europeo) e price cap (del G7) al petrolio russo. Come leggere quel che succede sul mercato del petrolio? La prima lente utile per orientarsi è quella dell’overcompliance. La seconda, quella di un mercato alla ricerca di un nuovo equilibrio.
Premessa. Regnante l’amministrazione Obama, gli Stati Uniti cominciarono in difesa della propria supremazia a praticare, in alternativa o in aggiunta alla politica della spada, la politica della sanzione finanziaria. Elessero l’OFAC (Office of Foreign Assets Control, creato nel 1950) a sorta di braccio armato della sanzione e poggiarono l’efficacia del loro sanzionare su dollaro e compliance del sistema bancario. Ogni transazione in dollari deve transitare da una banca americana. E ogni transazione bancaria (finanziamento, lettera di credito,…) ritenuta collusiva di soggetti o comportamenti sanzionati può portare all’esclusione della banca che ne è parte dalla possibilità di operare in dollari (e dunque a Occidente di operare tout court).
La reazione del mondo bancario al rischio di perdere l’operatività in dollari la possiamo riassumere in una quasi parolaccia. Overcompliance. Le banche non si astengono se sospettano la sanzionabilità; esigono (e spesso non gli basta) la prova positiva della non sanzionabilità. E da qualche mese tutto ciò che odora di russo profuma di sanzionabile. Un esempio per tutti. Lukoil, proprietaria della raffineria di Priolo, sino ad oggi non era soggetta ad alcuna sanzione. E però le banche le avevano in pratica bloccato il credito, costringendola ad approvvigionarsi al 100% di petrolio russo (prima il russo era sul 20%, onde il paradosso per cui negli ultimi mesi l’Italia ha moltiplicato le sue importazioni di greggio di quella provenienza). E conseguentemente il nostro Governo, nell’approntarsi all’amministrazione straordinaria, ha chiesto e ottenuto per iscritto dall’OFAC la garanzia che le banche potranno erogare credito e finanziamenti a Priolo senza essere perciò ritenute sanzionabili. Senza le lenti dell’overcompliance, molto di quel che si muove intorno alle sanzioni rischia di sfuggirci.
Prima mossa: l’embargo sul petrolio
Embargo. Ovvero la sanzione che non passa per la banca. Mai più greggio russo via nave in UE. Qualcuno paventa il trauma; ma magari dopo una qualche anche violenta scossa d’assestamento si ritroverà l’equilibrio. Come scriveva M. A. Adelman “The Oil Market, like the Ocean, is a Great Pool”. Ci saranno problemi logistici e altro (tipo quelli di cui in seguito provocati dal price cap); ma alla fine del riequilibrio ci saranno più navi che vanno dalla Russia in Asia e più navi che vengono da altrove in Europa. Qualcuno (Daniel Yergin) ha autorevolissimamente scritto che il 5 dicembre embargo e price cap insieme hanno determinato un nuovo ordine energetico mondiale, basato non più sulla globalizzazione ma sull’esistenza di due supply chains tra loro autonome. Sommessamente mi chiedo se la caratterizzazione non sia eccessiva. I flussi russi sono dirottati in Asia; ma la Cina continuerà comunque a compravendere petrolio e prodotti da e per gli Stati Uniti, e finirà pure che un po’ di diesel raffinato in Cina o altrove in Asia (ri)sbarchi in Europa.
Un nuovo equilibrio si andrà a costruire (magari anche qui non senza scosse) anche in punto di fornitura all’Europa di greggi sostitutivi. Il russo è di regola greggio acido (per contenuto di zolfo) e intermedio per gradi API. Ogni raffineria ha un suo paniere di greggi che le consentono di ottimizzare il margine di raffinazione. Il greggio americano da shale, che è dolce e leggerissimo, nelle raffinerie tarate sul russo non può sostituirvisi. “Ogni greggio è bello ‘a raffineria sua”; e dunque si dovrà sostituire con greggi di caratteristiche analoghe. Magari all’inizio non si riempie; ma prima o poi la formula si trova (ai tempi della guerra civile libica si era pieni di allarmi per la possibile chiusura delle nostre raffinerie; poi finì che sostituimmo il libico con l’azero, che gli era cugino e che prima non importavamo affatto).
Dove il ritorno all’equilibrio si fa più problematico è invece con l’embargo prossimo venturo, quello dal 5 febbraio 2023 relativo ai prodotti di raffinazione. In Europa nel decennio scorso i fossili abbiamo scelto di importarli anziché di produrli (forse perché così non sporcano in casa). La nostra produzione domestica di gas è scesa di due terzi rispetto ai tempi in cui si inquinava; e siamo l’unico mercato continentale che ha ritenuto di dover tagliare la propria capacità di raffinazione. Il risultato è una UE autosufficiente per benzine (più sono leggeri e meno sporcano) ma largamente carente per i prodotti più pesanti e in particolare per il diesel. Ne importiamo in UE grosso modo 1,5 milioni di barili/giorno; e 600.000 ancora adesso dalla Russia. Il rimpiazzo, anche in considerazione del fatto che negli Stati Uniti il mercato del diesel è pure a sua volta “corto” ormai da mesi, sembrerebbe men che scontato. Poi magari l’Asia che compra dalla Russia si ritroverà con un maggior volume di prodotti esportabili; e anche entro fine anno prossimo su scala mondiale la capacità di raffinazione aumenterà di 2,7 mbg; però il problema è come a fine anno prossimo ci si arriva. Preparatevi al tormentone del diesel cap. Il rischio è che la competizione per carichi spot duplichi quello cui abbiamo assistito in particolare nell’estate di quest’anno per il gas naturale liquefatto; e dunque la ricerca di carichi whatever it takes e lo schizzo del prezzo verso il cielo. Considerando che il diesel è il carburante della logistica dell’economia sarebbe prospettiva cupa in termini (per tacer d’altro) sia di tenuta delle supply chains che di inflazione.
Seconda mossa: il price cap del G7
Price Cap. I Paesi G7 e la UE, che di diritto e nel caso del Giappone (ancora) di fatto hanno proclamato l’embargo del petrolio russo, hanno anche contemporaneamente posto un cap al suo prezzo. Che detta così sembrerebbe abbiano messo un cap al prezzo del petrolio che comunque causa embargo non possono importare.
In realtà così non è. Il price cap non è un vero price cap. L’Europa non può imporre alla Russia un prezzo di vendita; e l’America non può imporre alla Cina un prezzo di acquisto. Ognuno governa i propri sudditi, e non (di regola…) quelli altrui. Quello che è successo è che i Paesi G7 hanno vincolato i propri sudditi che prestano servizi ausiliari alla navigazione, a non fornire servizi relativi a forniture di greggio russo ceduto a prezzo superiore ai 60 dollari al barile. Tra gli altri, la prescrizione si applica agli assicurativi e ai marittimi; e, in caso di mancata compliance, al trasgressore si applica la sanzione (meno che draconiana) del blocco di tre mesi dell’attività.
Qui però un piccolo problema. Un trasportatore e/o un assicuratore non hanno di regola né il diritto né l’obbligo di conoscere il prezzo effettivo cui il carico per cui prestano servizio è venduto. Qui soccorre l’OFAC, con le sue linee guida del 22 novembre scorso. Le linee guida definiscono shippers e assicuratori come Tier 3 Actors e prevedono che “Tier 3 Actors must obtain and retain customer attestations, in which the customer commits that for the service being provided, the Russian oil was purchased or will be purchased at or below the relevant price cap”. Insomma, siamo all’autocertificazione, fate voi quanto affidabile ed efficace.
L’idea è comunque che, posto che i grandi assicuratori e i migliori shippers stanno in G7 e in UE e che il price cap rafforza ulteriormente la presenza immanente dell’overcompliance, si possa così rendere difficile la logistica e perciò la vita al russo che esporta. Che in parte è vero; ma in parte lo era già, perché uno degli effetti dell’overcompliance era già stato di rarefare da mesi la disponibilità di shippers europei per carichi russi.
Quel che era già vero è stato il motore dell’aumento negli ultimi mesi delle esportazioni russe verso Cina e India; e a prezzi fortemente scontati (si riferisce anche sotto i 60 dollari). Il cap non crea insomma la difficoltà; però sicuramente nel breve la aggrava. Accelerando il muoversi russo in almeno tre direzioni. La disponibilità di una flotta autonoma per la movimentazione di greggio e prodotti, per il che avrebbero già acquistato via società di Dubai (donde la definizione di shadow fleet) un centinaio di navi alle soglie della pensione (e perciò con qualche problema potenziale di sicurezza); la diffusione di polizze assicurative russe accettabili ai porti di destinazione (per inciso, fa notizia la coda di petroliere ferme al Bosforo perché l’autorità turca avrebbe chiesto agli assicuratori conferma della validità delle polizze. In realtà le navi ferme hanno assicurazione europea, e per loro policy gli assicuratori europei non rilasciano conferme preventive. Così sono stati bloccati in prevalenza carichi di greggio kazako non oggetto di sanzioni o cap; mentre gli assicuratori russi hanno sottoscritto la conferma e le navi assicurate in Russia sono regolarmente transitate); terzo, e più importante, la ricerca di percorsi finanziari e valutari alternativi al dollaro e impermeabili all’overcompliance (e questo, ammesso che ci riescano, non sarà né semplice né immediato).
In parallelo all’intrapresa di queste direzioni di marcia certo si moltiplicheranno i tentativi di aggiramento della sanzione e si darà alimento alla letteratura su dark trade e shadow fleet: è facile prevedere tra l’altro che abbonderanno i tentativi di transhipment (trasferimento al largo del carico da una nave a un’altra) volti a rendere irrintracciabile l’origine del cargo (voci affidabili nell’ambiente dei traders assicurano che già circolano carichi con “petrolio geneticamente modificato” che all’esame cromosomico rivelerebbe un padre russo e una madre venezuelana…). Però saranno episodi, e relativamente circoscritti. Un Paese che ha capacità di esportare 8 milioni di barili di greggio al giorno non può affidarsi al contrabbando come regola di esportazione. Ha necessità di stabilità logistica e finanziaria; insomma, di mercati di riferimento. Se come e in che tempi si ristabilirà un equilibrio è troppo presto per anticipare. Però le direttive di marcia del suo provarci già si intravvedono.
Tra l’altro, ci resta ancora da capire se il 5 febbraio i Paesi del G7 vorranno o meno mettere un cap anche ai prodotti di raffinazione; perché, se non lo facessero, forse un piccolo effetto calmiere sul prezzo atteso del diesel lo potrebbero provocare. Per adesso, si è espressamente consentito al raffinatore – poniamo indiano – che ha comprato greggio russo a price cap di riesportarne i prodotti di raffinazione anche sui mercati G7/UE; il che già offrirebbe a un trader fantasioso e magari operante da Dubai infinite o quasi possibilità di allocazione del valore sulla catena esportazione di greggio/consumo dei prodotti di raffinazione. Per il resto, non ci resta che attendere il 5 febbraio.
P.S. Il 5 dicembre sono scattati embargo e price cap. Il mercato non ha fatto un plissé. Il 6 dicembre anzi il greggio è sceso sotto gli 80 dollari/barile per la prima volta da gennaio. Magari poi embargo e price cap generanno drammi; però per adesso il prezzo arbitra gli annunci.
Meglio concentrarsi sui consumi cinesi.
Massimo Nicolazzi è docente di economia delle risorse energetiche presso l’Università di Torino.
L’articolo è stato pubblicato su ISPI.
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