Le tensioni internazionali si legano indissolubilmente ai temi fondamentali della sicurezza e transizione, mentre l’energia diviene uno strumento della politica internazionale. Di fronte allo scontro tra grandi potenze, stati, compagnie e mercati riadattano le proprie strategie e politiche.
Inauguriamo questa nuova rubrica di geopolitica dell’energia a cura di Francesco Sassi con un articolo sulla nuova fase della guerra energetica russa all’Ucraina. A un anno dall’inizio dell’invasione del paese, l’Ucraina e l’Europa intera si trovano davanti a rinnovate e insidiose sfide per la propria sicurezza energetica.
Ad un anno dalla prima avanzata dell’esercito russo in territorio ucraino, la guerra tra Mosca e Kyiv sta per subire una nuova trasformazione. Una pericolosissima escalation, con entrambi i contendenti più determinati che mai a rinsaldare il proprio fronte interno e perseguire obiettivi massimalisti. Dopo mesi di battute d’arresto, una nuova offensiva russa di larga scala sta nuovamente dando al Cremlino l’iniziativa nel conflitto. La minaccia è quella di una fase senza precedenti della guerra energetica russa all’Ucraina che non solo rischia di compromettere la già deficitaria economia del paese, ma potrebbe pregiudicare gli stessi rapporti tra Kyiv ed autorità europee.
Sin dall’inizio della campagna militare, gli attacchi russi si sono concentrati sulle infrastrutture critiche, sia civili che militari. Il chiaro intento è stato quello di rendere maggiormente complicati comunicazioni e trasporti nel paese, indebolire il tessuto economico e industriale ucraino, necessario a sostenere lo sforzo bellico, e sfibrare la popolazione, fiaccando la coesione sociale dell’avversario.
La guerra energetica russa all’Ucraina
Una mossa chiave è stata la presa da parte delle forze di terra russe della centrale nucleare di Zaporizhzhia, la più grande in Europa, minacciandone l’integrità strutturale e forzando l’interruzione della generazione elettrica. Un duro colpo per la domanda primaria di energia e generazione elettrica ucraina, basata largamente su nucleare, carbone e gas naturale (vedi figura). In un futuro in cui l’Ucraina sarà di nuovo riappacificata, le rinnovabili sono destinate a giocare un ruolo maggiormente incisivo, rispondendo secondo i pieni di Kyiv al 25% della domanda energetica primaria entro il 2035. Un incremento deciso rispetto all’odierno 6%. Al momento, questo però rimane soltanto un traguardo raggiungibile soltanto nel lungo corso.
Dalla fine di settembre scorso, lo stallo sul campo ha portato il Cremlino a riconsiderare come target primario la rete elettrica e le infrastrutture energetiche ucraine. A più riprese, ondate massicce di attacchi missilistici e droni si sono abbattuti su diverse componenti della rete, innescando un primo esteso blackout sul territorio nazionale lo scorso 23 novembre. Nuovi attacchi si ripetono continuamente, minando la stabilità della rete ucraina in più punti. Una delle ultime incursioni ha costretto ad una riduzione dell’output di due delle tre centrali nucleari ucraine tuttora attive, imponendo lo scollegamento completo di un reattore della centrale di Khmelnitsky, nell’Ucraina occidentale. Una dimostrazione che anche le regioni ucraine più lontane dal fronte rimangono suscettibili all’offensiva energetica russa.
Trasformatori di potenza, generatori, sottostazioni, e ovviamente centrali elettriche, sono da mesi colpite ad un tasso maggiore rispetto quello necessario per ripararne o sostituirne le componenti. L’iniziativa russa ha così eroso il capitale fisico e umano a disposizione di Kyiv per mantenere operativa la rete. Tra il 40% e il 50% della rete ucraina è stato danneggiato e, malgrado i consumi si siano ridotti del 35% dall’inizio dell’invasione, l’operatore di sistema Ukenergo non è in grado di rispondere a circa il 30% della domanda attuale.
Così, i circa 35 milioni di cittadini ucraini rimasti nel paese sono quotidianamente costretti a fare i conti con blackout e razionamenti, mentre intere città vengono scollegate dalla rete elettrica, come accaduto recentemente ad Odessa. Di questo passo, una caduta generalizzata della rete non è da escludere e le conseguenze potrebbero essere disastrose. Il colpo verrebbe infatti avvertito tanto dalle supply chain che sorreggono lo sforzo militare ucraino, quanto dalle infrastrutture civili, generando potenzialmente nuove ondate migratorie verso l’Europa. Tutto questo è parte integrante della guerra energetica russa all’Ucraina.
Stati Uniti ed Europa hanno approntato aiuti finanziari e soprattutto tecnologici, coordinando gli alleati in Europa Orientale. Essendo il retaggio del sistema ucraino pienamente sovietico, l’utilizzo di strumentazioni di produzione occidentale per sostituire quelle danneggiate è una strada al momento non percorribile. Se dal febbraio 2022 centinaia di milioni di dollari sono già stati destinati alle infrastrutture energetiche, ammonta oggi a diversi i miliardi la somma necessaria a prevenire un intero collasso della rete ucraina.
Così, mentre le cancellerie occidentali sono preoccupate dalle conseguenze derivanti dal fornire veicoli corazzati e aerei da combattimento per ribaltare le sorti della lotta, l’incapacità di sostenere la rete elettrica potrebbe compromettere seriamente le capacità di resistenza di Kyiv già nel breve periodo.
La nuova offensiva russa e i rischi per la tenuta del sistema energetico ucraino
Le forze russe dislocate nell’est dell’Ucraina e nell’oblast russo di Belogorod hanno dato vita ad una vasta offensiva per riprendere interamente il Donbass. Per la Russia, assicurarsi il controllo delle regioni orientali e meridionali, annesse tramite referendum farsa organizzati a fine settembre, rimane l’obiettivo minimo della campagna militare e il principale casus belli con l’Ucraina. Un’operazione ricca di simbolismo. A un anno dall’inizio delle ostilità, il Cremlino vuole impiegare interamente i 300.000 uomini mobilitati negli ultimi mesi in un attacco coordinato con le truppe già dislocate sul territorio da un anno. Non è un caso che in questi giorni si assista al fermento delle diplomazie internazionali, con la visita del cinese Wang Yi a Mosca e quella già storica di Biden a Kyiv.
La nuova fase della guerra pone “rischi sistemici” per la tenuta dell’esercito ucraino. Colpito da accuse di corruzione, i suoi massimi vertici sono stati riorganizzati dopo essere stati messi in discussione direttamente da alleati politici del Presidente Zelenskyy. Lo stesso è stato costretto a intervenire personalmente per sedare gli animi davanti a settimane e mesi critici. La spedizione russa infatti difficilmente terminerà nel 2023. Grazie anche ad un rapporto di 1 a 8 nella costruzione di tank rispetto agli avversari europei, con ogni probabilità Mosca manterrà per tutta la prima parte dell’anno l’iniziativa bellica.
Putin ha infatti liberato l’esercito dal rispetto di qualsiasi legaccio economico, impegnando l’intera economia russa per supportarne gli sforzi. Dall’altra parte, l’esercito di Kyiv è conscio delle ulteriori e limitate capacità di reclutamento. Se i vertici militari decidessero di ritirarsi nei contesti maggiormente costosi in termini di vite e mezzi, come lo snodo strategico di Bakhmut, preservando le proprie forze per future operazioni, la Russia potrebbe ambire a strappare ulteriori province dal controllo ucraino.
Il controllo del gas ucraino: l’altra faccia della guerra ibrida del Cremlino
Nel caso in cui l’eventuale avanzata russa dovesse arrivare ai confini del Donbass, o eventualmente procedere oltre, la guerra energetica russa all’Ucraina entrerebbe in una nuova fase, assai pericolosa. Nell’ottica di un conflitto prolungato e che vede Kyiv priva di buona parte della flotta di reattori nucleari e con una rete elettrica fortemente danneggiata, qualsiasi perdita dei territori tra il Donbass e il fiume Dnipro, comporterebbe profondi rischi. Infatti, oltre ai costi in termini di vite umane e fortificazioni militari, si aggraverebbe ulteriormente la situazione di insicurezza energetica.
Tagliata fuori dai giacimenti nel Mare di Azov e al largo della Crimea, l’attuale produzione di gas naturale ucraina si basa per oltre il 90% sui giacimenti nella regione conosciuta come Dnieper-Donetsk (evidenziato nella figura sopra in rosa). Sempre nella regione del Donbass, si concentrano anche le principali riserve di carbone e gas, largamente inutilizzabili proprio a causa delle operazioni militari.
Da anni, la sicurezza energetica ucraina si è strutturalmente indebolita a causa di una produzione interna di gas naturale in caduta libera. Ciò ha reso il paese sempre più dipendente dalle importazioni di gas dall’Europa. I giacimenti della principale impresa statale (UkrGaVydobuvannaya) sono esauriti al 75% e ingenti investimenti sono necessari per stabilizzarne la produzione futura. Dall’inizio del conflitto, la situazione si è andata ulteriormente aggravando, con l’interruzione di diversi processi estrattivi nell’est del paese, nelle vicinanze di tutta la linea di contatto.
Per ovviare alla scarsità interna, Naftogaz si è recentemente posta l’obiettivo di incrementare nel 2023 la produzione di gas di 1 miliardo di metri cubi (Mmc), raggiungendo i 19 Mmc totali. Dall’inizio dell’invasione russa, la produzione di gas è stata celata per ovvi motivi strategici. Il dato, comunicato dal CEO di Naftogaz Chernyshov, suggerisce che nel corso del 2022, l’Ucraina sia riuscita a produrre soltanto 18 Mmc di gas, una riduzione del 9% rispetto l’anno precedente. Un dato tutt’altro che incoraggiante, visto il proseguo delle ostilità nelle zone con le più vaste risorse del paese.
Anche in conseguenza della riduzione di produzione interna, lo scorso autunno Kiyv ha mancato gli obiettivi minimi di stoccaggio di gas. Fortunatamente, una stagione con temperature superiori alla media e l’approvvigionamento di 1,1 miliardi di metri cubi aggiuntivi di gas naturale hanno fatto sì che l’Ucraina ottenesse un livello di sicurezza energetica superiore alle attese. Ciò è stato possibile grazie al sostegno di Stati Uniti e Norvegia. Entrambi i paesi hanno messo a disposizione importanti strumenti finanziari per accrescere le importazioni, nonostante i costi esorbitanti.
Come nel resto dell’Europa, gli sforzi dell’Ucraina si concentrano ora sulla pianificazione della stagione di riempimento degli stoccaggi in vista del prossimo inverno. Kyiv intende mettere a disposizione dell’UE l’imponente numero di siti strategici per raccogliere gas. La Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha anche invitato ufficialmente l’Ucraina ad unirsi alla piattaforma europea di acquisti comuni, della quale si attende però ancora una reale messa in funzione.
Da un lato, queste iniziative rafforzerebbero sia la sicurezza energetica ucraina che un’integrazione più marcata con il sistema energetico europeo. Dall’altro, il calo sistemico della produzione di gas ucraino, amplificato dall’intensificarsi dello scontro bellico, potrebbe portare il paese a divenire ancor più dipendente dagli aiuti finanziari e le importazioni dei paesi europei e gli alleati occidentali, su tutti gli Stati Uniti.
I costi dell’approvvigionamento di sufficienti volumi di gas a Kyiv potrebbero così allargare le già visibili differenze all’interno dell’Europa sulla possibilità di continuare a supportare indiscriminatamente la resistenza ucraina. L’ennesimo esempio di quanto la geopolitica dell’energia sia oggi un elemento fondamentale per comprendere il complesso quadro di tensioni internazionali legate alla guerra tra Ucraina e Federazione Russa e quanto, dalla stessa sicurezza energetica, dipendano le sorti del conflitto.
Francesco Sassi è dottore in geopolitica dell’energia presso l’Università di Pisa e analista dei mercati energetici presso Rie-Ricerche Industriali ed Energetiche
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