6 Febbraio 2023

Il concetto di Valle della Morte applicato alla transizione energetica

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Il concetto di Valle della Morte applicato alla transizione energetica indica il rischio che un sotto-investimento nelle fonti energetiche oggi dominanti possa causare prolungate crisi energetiche. Un estratto dall’articolo di Gabriel Collins e Michelle Michot Foss pubblicato su ENERGIA 2.22.

Rinunciare alle fonti fossili prima che le tecnologie low-carbon possano effettivamente rimpiazzarle rischia di destabilizzare il nesso energia-cibo-acqua-benessere ritardando di decenni la transizione energetica.

“Il concetto di «valle della morte» è stato ampiamente utilizzato per analizzare la lotta degli imprenditori per sviluppare nuove idee e prodotti, dall’iniziale fase della non redditizia ricerca e sviluppo, fino a quella in cui viene dimostrata la validità dell’innovazione, raggiungendo la fase commerciale (Fig. 1).”

La Valle della Morte è un momento critico per lo sviluppo di un progetto, in cui gli investimenti diventano scarsi e il rischio di fallimento è più alto

Se traslato nel mondo della transizione energetica, tale concetto è molto diverso. “L’idea prevalente è che le tecnologie produttive a basse emissioni – eolico, solare, batterie, reattori nucleari modulari di piccola taglia – siano già commercializzabili o stiano per esserlo”. Nulla di più lontano dalla realtà.

“Questa idea ignora i costi complessivi e largamente opachi che il loro utilizzo comporta, nonché le spese per ottenere licenze per l’energia nucleare, vincolate a progetti di grande dimensione. L’incertezza sulla curva della valley of death della transizione energetica fa sì che un sotto-investimento nelle fonti energetiche oggi dominanti possa causare prolungate crisi energetiche.”

E questo per diverse ragioni.

In primo luogo, “gran parte della capacità di produzione esistente verrà riproposta a un costo di cui si dovrebbe tener conto, così come molta della capacità di conversione petrolchimica continuerà ad essere richiesta fino a quando la scienza dei materiali non porterà ad alternative utilizzabili.”

In secondo luogo, “ridurre l’accesso alle fonti fossili in modo prematuro potrebbe aumentare i costi dell’energia e dei materiali a un livello tale da rendere più competitive le energie alternative anche senza il supporto di sussidi. Ma gli enormi costi economici imposti sui consumatori (elettori) per annullare i gap di competitività (5) potrebbero quasi certamente innescare reazioni politiche tali da estendere, in modo significativo, la dipendenza dalle fonti fossili oltre il livello implicito delle attuali tendenze path-dependent. Un contraccolpo che si sta già avvertendo”.

Nella scorsa decade abbiamo attraversato “la Fase 1 del grande arco della valley of death della transizione energetica: ovvero il suo il decollo iniziale e la sua rapida discesa verso la valley floor. (…) Tra il 2010 e il 2020, eolico e solare sono cresciute enormemente per due ragioni:
(1) una combinazione di sussidi e di favorevoli politiche tese al controllo delle emissioni;
(2) la capacità delle fonti rinnovabili di avvalersi del contributo di altre fonti (carbone, gas, idroelettrico, nucleare) che operavano di fatto come «batterie» per compensarne l’intermittenza.”

Attenti ai contraccolpi

Attualmente, invece, assistiamo all’avvio della “Fase 2, che include discontinuità del sistema e una più completa cognizione pubblica (e potenziale contraccolpo) dei costi economici della transizione.” Infatti, la transizione energetica «green» “vede l’impegno di capitale e volontà politica per un processo che richiederà comunque decenni per completarsi”.

“Se alla COP26 del 2021 i paesi OCSE hanno deciso di non finanziare più i progetti nelle fonti fossili, quelli non-OCSE troveranno altre risorse per sviluppare i programmi energetici nazionali. Gran parte di queste opzioni ridurrà sostanzialmente la possibilità, per Stati Uniti e Unione Europea, di conseguire uno sviluppo sostenibile. L’impatto emissivo degli sviluppi differenziati sarà epocale. Le economie non-OCSE, guidate da Cina e India, ogni anno rilasciano in atmosfera due volte le emissioni dei paesi OCSE ad elevato reddito. Ciò vuol dire, in termini politici, che se l’OCSE dovesse conseguire oggi l’obiettivo net-zero, le emissioni dei soli paesi non-OCSE sarebbero pari a quelle dell’intero mondo alla fine degli anni 1990, quando le campane dell’allarme climatico avevano appena cominciato a suonare”.

Con la loro analisi Collins e Michot Foss non negano il cambiamento climatico e la necessità di procedere lungo la transizione energetica, ma mettono in guardia su come una non ben ponderata azione politica possa peggiorare la situazione anziché migliorarla.

“Ampie forniture di energia sono il fondamento della civiltà moderna. Il progresso climatico richiederà simultaneamente di cercare di massimizzare l’abbondanza, la convenienza, l’efficienza e l’affidabilità dell’energia. Avranno maggiore successo gli approcci in grado di enfatizzare l’impiego di tutte le risorse, con un ruolo preminente per solare, eolico e batterie più efficienti, nonché soluzioni meno popolari, ma nondimeno vitali, come l’energia nucleare e le carbon tax.

La strategia più costruttiva per ridurre le emissioni al 2050 senza intaccare la prosperità richiede l’adozione di un pensiero energetico e pluribus unum, che unisca una moltitudine di risorse per (1) garantire abbondanza e sicurezza energetica (2) in coerenza col progresso climatico”.


 Il post riprende passaggi dell’articolo di  Gabriel Collins e Michelle Michot Foss La «valle della morte» della transizione energetica (pp. 14-23)  pubblicato su ENERGIA 2.2

Gabriel Collins e Michelle Michot Foss (Baker Institute for Public Policy)


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