17 Marzo 2023

CO2: il picco più alto di sempre (e il naufragio di politiche)

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La CO2 derivante dai consumi energetici raggiunge il picco più alto di sempre. L’Accordo di Parigi non sta funzionando. Gli obiettivi dei paesi non sono coerenti con le dichiarazioni generali; le emissioni effettive non lo sono con gli obiettivi. La realtà delle cose va in una direzione che le politiche non sono in grado di mutare.

La CO2 derivante dai consumi energetici raggiunge il picco più alto di sempre: 36,8 Gt, 0,9% in più del livello del 2021. Nei sette anni che separano il 2022 dallo storico Accordo di Parigi, la CO2 è sempre cresciuta, eccetto nell’anno del lockdown (2020, -5%) e nel 2019, in cui è diminuita di un’inezia.

Bisogna riconoscere la forza dei dati e concludere che l’accordo non sta funzionando. Non solo i paesi non assumono target in linea con quanto richiesto da Unfccc e Ipcc, ma non rispettano nemmeno quanto dichiarano.

Gli obiettivi dei paesi non sono coerenti con le dichiarazioni generali; le emissioni effettive non lo sono con gli obiettivi

Net zero emissions – che i paesi affermano retoricamente di voler conseguire – implicherebbe una riduzione delle emissioni del 45% nel 2030 rispetto al 2010. E tuttavia i nuovi target di Sharm el-Sheikh implicano +10,6% al 2030 rispetto al 2010: ma le emissioni sono già aumentate dell’11,9%.  

Si assiste, dunque, a una doppia contraddizione: gli obiettivi dei paesi non sono coerenti con le dichiarazioni generali, e le emissioni effettive non lo sono con gli obiettivi dichiarati. Insomma, una finzione retorica messa a nudo dalla trasparenza dei numeri.

Occorre chiedersi, a questo punto, perché le emissioni aumentino. Nel suo recente report, la IEA offre una spiegazione limpida e tecnica delle cause della crescita della CO2 nel 2022. Essa è aumentata perché:

  • sono cresciute le emissioni da petrolio (+268 Mt CO2), principalmente in seguito alla ripresa del traffico aereo.
  • le emissioni da carbone, indotte dal processo di sostituzione del gas causato dalla crisi ucraina (-118 Mt CO2), crescono (+243 Mt CO2) e raggiungono il record di sempre (15,5 Gt CO2).
  • gli eventi estremi, indotti dallo stesso cambiamento climatico, fanno crescere la domanda da riscaldamento e da raffrescamento.
  • La manutenzione e la dismissione di un certo numero di centrali nucleari riducono il contributo di questa fonte alla decarbonizzazione (50 Mt CO2).

Un afflato teso a vedere il bicchiere mezzo pieno

È interessante osservare come il settore nel quale le emissioni crescono di più sia la generazione di elettricità e calore (+ 261 Mt CO2), ovvero proprio il comparto in cui più forte è la penetrazione delle rinnovabili.

E infatti l’Agenzia di Parigi, in un afflato teso a vedere il bicchiere mezzo pieno, evidenzia come sia stata proprio l’espansione delle rinnovabili – che ha contribuito al 90% della crescita della generazione elettrica nel 2022 – a contrastare la spinta al rialzo causata dal carbone.

Un dato di grande interesse è quello relativo ai bunkeraggi, ovvero i trasporti internazionali aerei e marittimi, che rappresentano la terza causa di aumento delle emissioni.

Si tratta di un settore non decarbonizzabile, oggi, con la tradizionale ricetta dell’elettrificazione. Diventa dunque prioritario indirizzare verso di esso investimenti di ricerca tesi all’introduzione di nuovi combustibili low carbon, efuel e/o biofuel.

Altro aspetto interessante è quello concernente il dove. Più di tutto le emissioni crescono nel Nord America (temperature estreme) e nell’area asiatica (espansione carbone), ma non in Cina, dove diminuiscono lievemente.

Le ragioni di fondo del naufragio delle policy

Ora, leggendo il report della IEA, si assiste a una ricostruzione paziente del gioco della somma algebrica che porta alla crescita delle emissioni nel 2022, e si ha come la sensazione che l’Agenzia tenda a valorizzare il ruolo positivo della crescita delle rinnovabili e ad evidenziare la contingenza di certi elementi – es. crisi ucraina e temperature estreme – che hanno avuto un ruolo importante nel risultato finale.

La ricostruzione della IEA è certamente preziosa, come pure ci sembra condivisibile la sottolineatura dell’azione positiva svolta dalle fonti rinnovabili che hanno evitato un risultato peggiore. Tuttavia, ci sembra opportuno soffermarsi sulle ragioni di fondo che stanno causando il naufragio delle policy. Ci sembrano rilevanti i seguenti aspetti:

  • i fossili sono ancora troppo forti, un incumbent che mantiene la posizione (si veda Essenzialità del petrolio, nonostante tutto, di Alberto Clò, 3 marzo): elevata densità energetica, pervasività in tutti settori industriali, connessione solida con le tecnologie principali, assetto geopolitico, sono alcune delle ragioni che determinano il loro dominio. La resa del leone capobranco è ancora di là da venire.
  • Per contro, il giovane leone sfidante non è ancora sufficientemente forte. Progressivamente, le rinnovabili espandono la loro azione e attraggono investimenti crescenti, ma sono ancora troppo alte le barriere che si frappongono al rovesciamento dell’ancien regime. Raggio d’azione limitato al solo settore elettrico, ovvero a un quarto dei consumi energetici, variabilità, problemi di rete e di accumulo, bassa densità energetica, viscosità nel permitting, ricorsivo ostracismo ambientalista sono alcune delle cause che ne limitano la penetrazione.
  • Un discorso a parte merita la questione dei margini. Il settore negli anni è stato in grado di ridurre considerevolmente i costi ma la redditività rimane un problema. Dall’Europa all’India, la bassa profittabilità ostacola l’attrattività del business. La corsa dei prezzi verso il basso mina i margini e rende il business incerto e rischioso. È questione strutturale che differenzia sostanzialmente la transizione energetica corrente da quello che fu l’Eldorado del petrolio, dove una struttura di mercato concentrata e un elevato peso oligopolistico rendevano il business profittevole. La penetrazione del petrolio nei consumi finali correva sulla spinta dei ritorni economici, situazione di cui non beneficia l’elettricità oggi.
  • Vi è una parte di mondo che ha altre priorità rispetto al clima. In uno scenario business as usual nel quale le emissioni continuano a correre spinte dalla crescita economica, il loro volano risiederà – più che nella Cina – in tutti gli altri paesi in via di sviluppo messi insieme. Gli ultimi dati della IEA lo confermano. È un pezzo di mondo vasto e popoloso, in alcuni casi deficitario di accesso all’energia, raggiunto solo dalla flebile eco della questione climatica. O meglio, la crisi climatica non è per esso barriera alla crescita ma giustificazione per compensazioni dei danni da eventi estremi di cui soffrono.
  • Gli stessi eventi estremi hanno rappresentato, nel 2022, una delle maggiori cause dell’aumento delle emissioni. Si va dunque incontro a una situazione nella quale il cambiamento climatico, alterando l’equilibrio, induce più vigorosi consumi energetici ed emissioni, rafforzando così sé stesso. L’eccezionale diventa normale e rigenera sé stesso in un loop che perversamente si rinforza.

Homo Sapiens e il dilemma crescita-emissioni

Infine, vi è un’ultima riflessione. Homo Sapiens vive nella crescita ed essa implica emissioni e alterazioni del clima. I paesi dichiarano e decretano piani di contenimento del carbonio, ma la crescita è più forte e rovescia quei piani.

Se si considerano le emissioni di CO2 dal 1900 ad oggi si vede che esse sono sempre aumentate, eccetto in presenza di eventi dirompenti che hanno frenato l’espansione economica: crisi del ’29, guerra mondiale, crisi petrolifera, crisi del 2008, Covid.

Global energy-related CO2 emissions, 1900-2020
Fonte: IEA

Al di fuori di queste parentesi si assiste a una tendenza inesorabile di espansione economica che gonfia la bolla carbonica. Forti o deboli che siano, leader e policy maker sono impotenti di fronte a questo fenomeno. Il loro potere di controllo è praticamente nullo.

Nessuno pilota l’aereo dei gas serra e le emissioni sembrano seguire trend dettati più dalla struttura dell’economia che dalle policy.

Conosciamo le enormi differenze nelle policy e nelle visioni dei tre maggiori emettitori (Cina, Stati Uniti, Europa), e sappiamo che le emissioni cinesi sono cresciute enormemente mentre quelle americane sono diminuite poco e quelle europee di più. Tendiamo a porre in relazione questi andamenti con le diverse policy, e a dire che in Cina le emissioni crescono perché non si contiene l’enorme domanda di carbone o che negli Stati Uniti le presidenze repubblicane frenano gli interventi di decarbonizzazione, cosa che non accade in Europa, dove infatti le emissioni diminuiscono in misura maggiore.

Una realtà ben lontana dall’essere guidata dalla politica e dalle politiche

Eppure, se si plotta su un grafico l’intensità carbonica del reddito di questi tre paesi – ovvero una variabile che depura l’andamento delle emissioni dalla crescita economica – si scopre con sorpresa che la Cina decarbonizza il proprio reddito più degli USA e dell’Europa, e che non è vero che il vecchio continente decarbonizzi molto più del nuovo.

Certo, i valori assoluti sono diversi e la Cina ha indubbiamente un mix energetico più carbonico di Europa e Stati Uniti. Ma quando si guarda alle variazioni nel tempo dell’intensità carbonica del reddito – che rappresentano la dimensione in cui dovrebbero riflettersi le policy – si nota che l’Europa non fa meglio della Cina, e ciò non può non sorprendere.

È chiaro che partendo da valori più elevati la Cina ha maggiori gradi di libertà nella decarbonizzazione del proprio PIL, che riflette anche il cambio di struttura dovuto alla penetrazione dei servizi. Cionondimeno il dato stupisce, considerando l’enorme sforzo europeo nella lotta contro il cambiamento climatico.

E che dire della migliore performance di decarbonizzazione dell’America rispetto all’Europa nei dieci anni dal 2010 al 2020, o anche nei cinque dal 2015 al 2020, quattro dei quali sotto la guida dello scetticismo climatico di Trump? Alla fine, sembrerebbe che più delle policy abbia potuto lo shale gas che negli USA ha spiazzato il carbone riducendo le emissioni. Di nuovo, la tecnologia è più potente dei policy maker.

Elaborazione dell’autore su dati IEA
Elaborazione dell’autore su dati IEA

Al di là delle staffette tra repubblicani e democratici, e dei pacchetti climatici emanati dalla Commissione, e dei cambi nella leadership del potente partito comunista cinese, sembra esservi dunque qualcosa di più forte all’interno delle economie, un misto di tecnologia, mercato e animal spirits – una struttura, per usare la desueta categoria marxiana – che ha un suo potere autonomo che i leader non riescono a governare.

Il tempo delle policy è ancora di là da venire. Nella retrospettiva dei trend, oggi esse appaiono rumori che non alterano pendenze dotate di vita propria, piccoli fuochi accesi dai policy maker che subito si estinguono, giocattoli di fanciulli.


Enzo Di Giulio è economista ambientale e membro del Comitato Scientifico di ENERGIA


Foto: Pixabay

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