4.900 miliardi di dollari, gli investimenti upstream nel petrolio necessari secondo IEF e S&P Global al 2030. Un impegno che molto difficilmente potrà realizzarsi. Se non accadrà, accadrà il peggio per le nostre economie.
Il petrolio è la prima fonte di energia consumata nel mondo con circa un terzo del totale (35% in Europa e 37% in Italia). Da questa fonte dipendono: la libertà di muoverci; gran parte di quel che mangiamo, grazie ai fertilizzanti in agricoltura; un gran numero di oggetti che ci servono, a cominciare dalle mascherine tratte dalla plastica; la schiuma da barba con cui ci radiamo la mattina; gli antidolorifici tratti da composti chimici di derivazione petrolifera.
Insomma, il nostro vivere quotidiano. Eppure, la politica gli presta scarsa se non nulla attenzione rispetto a quella riservata alle fonti rinnovabili da cui traiamo solo kWh elettrici che ogni altra fonte di energia può produrre.
Le fonti rinnovabili (esclusa l’idroelettrica) soddisfano poco meno del 7% dei consumi energetici: circa un quarto del peso del petrolio. Di esse si parla però mille volte di più, per la pressione esercitata sulla politica perché adotti azioni a loro favorevoli, dimenticandosi del petrolio.
Si pensi alla proibizione decisa dal Parlamento europeo di non vendere più auto che non siano elettriche dal 2035. Una scelta che avvantaggia solo la Cina, monopolista nelle tecnologie green, rovinando su uno degli assi portanti dell’industria europea e italiana- Esattamente come in passato – consapevolmente e volutamente – si fece col gas naturale importato dalla Russia, rendendone l’intera Europa ostaggio.
Come stanno i fondamentali reali nel petrolio?
Ma come stanno i fondamentali reali nel petrolio? A dispetto di quel che si è ripetuto la sua domanda non ha affatto raggiunto il ‘picco’ che si sosteneva sarebbe avvenuto con la pandemia. Quell’anno, il 2020, la domanda crollò, ma poi si è ripresa in modo sorprendente, nonostante la guerra ucraina e la quasi-recessione delle economie, e quest’anno si stima che possa superare i livelli pre-pandemia: portandosi nel quarto trimestre, sostiene l’Agenzia di Parigi nel suo Oil Market Report di febbraio, a circa 104 milioni di barili al giorno, contro i 100 del 2019.
La tesi del ‘picco’ della domanda si è dimostrata una leggenda metropolitana alla pari di quella sul ‘picco’ della sua offerta. Sostenute entrambe per dire che sul petrolio non si poteva far più di tanto affidamento con la necessità di dover puntare su altre fonti.
Della dinamica effettiva del petrolio gli scenari previsivi non sono d’altra parte mai riusciti a tener conto. Nel suo World Energy Outlook del 2015, l’Agenzia di Parigi prevedeva una domanda nel 2025 poco oltre gli 87 mil.bbl/g: circa 16 mil.bbl/g in meno di quel che prevede oggi (-15%).
Se la domanda è prevista crescere, che ne è dell’offerta?
Se la domanda è prevista crescere ci si dovrebbe porre l’interrogativo, da parte soprattutto dei governi europei e di Bruxelles, se l’offerta sarà in grado o meno di soddisfarla o se sussistono rischi di scarsità da cui potrebbero derivarne aumenti dei prezzi?
La risposta è molto complessa dipendendo da molti fattori, ma in primis dalla dinamica degli investimenti upstream che dal 2014 si sono più che dimezzati passando da 700 miliardi di dollari a 300 miliardi nel 2020. La capacità estrattiva immediatamente disponibile (spare capacity), in grado di soddisfare nel giro di poche settimane imprevisti squilibri domanda/offerta, si è progressivamente ridotta, così come la possibilità di bilanciare nel tempo il declino naturale dei giacimenti (sino al 7% annuo).
La corda si è progressivamente sfilacciata
La corda si è progressivamente sfilacciata, al punto che diversi paesi Opec non sono in grado di estrarre le quantità che si sono impegnati di realizzare. Gli enormi profitti realizzati dalle compagnie petrolifere nello scorso biennio si sono tradotti solo in parte in nuovi investimenti. Per più ragioni: la severa disciplina finanziaria che le compagnie si sono date, dopo i risultati drammatici nei mesi della pandemia; la preferenza ad accrescere i ritorni dei loro azionisti con maggiori dividendi e operazioni di buy back e a ridurre i debiti; non ultimo: la pressione dei governi, degli organismi internazionali, a cominciare dalla Commissione europea e degli stessi azionisti a dirottare gli investire nelle tecnologie green, che pure garantiscono redditività inferiori a quelle degli idrocarburi.
Gli investimenti upstream, come emerge da un recente report dell’International Energy Forum realizzato assieme a S&P Global, sono comunque aumentati in modo consistente nel 2022 in termini nominali (molto meno in termini reali per il forte aumento dei costi), ma da qui a fine decennio dovrebbero aumentare annualmente di circa un terzo a 640 miliardi di dollari per soddisfare i fabbisogni, prevenire sempre possibili crisi, bilanciare il previsto declino della produzione russa.
Globalmente, bisognerebbe investire, secondo lo studio citato, 4.900 miliardi di dollari. Un impegno che molto difficilmente potrà realizzarsi. Se non accadrà, accadrà il peggio per le nostre economie.
Più che l’abbondanza teorica delle fonti quel che conta è la loro effettiva accessibilità
Il tema della sicurezza energetica è riemerso dopo la guerra ucraina come un imperativo politicamente strategico. Quel che ha portato ad un crescente interventismo dei governi e ad un ripensamento sul convincimento che vivessimo in un’era di grande abbondanza energetica.
Più che l’abbondanza teorica delle fonti quel che conta è infatti la loro effettiva accessibilità economica, fisica, geopolitica, che la guerra ha dimostrato essere ben inferiore a quel che si riteneva, dovendosi considerare la Russia e le sue enormi risorse energetiche fuori dalla geografia energetica occidentale per molti anni a venire.
Un dato di fatto su cui governi e investitori debbono far leva come ammonimento e opportunità. Ammonimento per evitare i rischi di non escludibili scarsità d’offerta, similmente a quando accaduto col ricatto del gas russo che si è abbattuto sulla crescita delle economie, sui tassi di inflazione, su molti comparti industriali.
Un’opportunità perché si assicurino adeguati e sicuri investimenti per il futuro. A cominciare da quelli nel petrolio considerando al contempo la sua essenzialità e insostituibilità.
Alberto Clô è direttore della rivista Energia e del blog RivistaEnergia.it
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