Il 20 marzo è stato pubblicato il documento finale del 6° AR dell’IPCC sul clima, ma non ci aspettiamo grandi ripercussioni sull’agenda politica. Perché? Chi non sta facendo (o facendo male) la sua parte? Politici, scienziati, comunicatori, o tutti gli altri?
Ogni film catastrofico che si rispetti inizia sempre con uno scienziato che viene ignorato: che sia tratti di un asteroide in rotta di collisione con la Terra o di un mostro preistorico che si risveglia, il politico di turno non prende sul serio il nerd occhialuto che tenta di mettere in guardia l’umanità.
Farebbe sorridere, se non fosse tristemente reale: il 20 marzo è stato pubblicato il documento finale del Sesto Rapporto di Valutazione dell’IPCC sul clima, e non ci aspettiamo grandi ripercussioni sull’agenda politica.
Dove finisce la responsabilità della comunità scientifica ed inizia quella della politica?
La comunità scientifica sta facendo abbastanza sulla crisi climatica? Me lo ha domandato una sera una persona del pubblico, al termine di un seminario. Dove finisce la responsabilità della comunità scientifica ed inizia quella della politica? Lì per lì non ho avuto dubbi: ognuno deve fare il suo lavoro, la scienza studia e riferisce, la politica agisce.
Ma, come sempre, le cose sono più complesse di così. Sicuramente esiste un problema di orizzonti: quello della politica si ferma spesso alla prossima elezione, quello della scienza del clima corre oltre la fine del secolo.
A volte si aggiunge una (non scusabile) mancanza di familiarità con gli argomenti da parte di chi ci governa. Tuttavia, la risposta non è così netta, e soprattutto ci sono tanti altri personaggi in questo film. Ad esempio: dove sono tutti gli esperti di comunicazione quando si tratta di crisi climatica? Perché il messaggio non arriva alle orecchie e al cuore di tutti?
e dove sono tutti gli esperti di comunicazione?
Non abbiamo ancora le idee chiare su quale sia la migliore strategia. Il Segretario ONU Guterres è un amante delle iperboli e spesso le sue dichiarazioni senza mezzi termini hanno il pregio di fare eco sui media, notoriamente a caccia della frase ad effetto:
“Siamo sull’autostrada per l’inferno climatico, con il piede sull’acceleratore”
“Il ritardo è morte”
“Codice rosso per l’umanità”.
Il filone dei cosiddetti anti-allarmisti sottolinea invece la necessità di puntare sulle piccole buone notizie: il messaggio “non ce la faremo mai” rischia di essere un alibi per non fare nulla.
Tuttavia, nonostante le dichiarazioni di Guterres, il clima è ancora una questione marginale per i nostri media. Il rapporto dell’IPCC potrebbe essere una notizia in prima pagina oggi (magari in un piccolo box sul fondo), ma probabilmente scomparirà entro un giorno o due.
Nel frattempo, continueremo ad essere bombardati con messaggi pubblicitari che ci spingono a volare, guidare, fare acquisti e spendere “come se non ci fosse un domani”.
D’altra parte, se quella del clima fosse davvero un’emergenza, i politici e i media non agirebbero di conseguenza? Abbiamo mai visto una conferenza stampa a reti unificate per spiegare la strategia del governo sul clima? O una task force di esperti, nominati dal governo, che spieghi l’emergenza climatica, perché è urgente un cambiamento dell’intera società e quali sono i prossimi passi da compiere?
Vi ricordate le conferenze stampa del Primo Ministro durante la pandemia, il bollettino delle 18, gli articoli di giornale? QUELLA era un’emergenza.
e tutti gli altri?
E poi, in questo film strampalato, ci siamo noi. Noi che non siamo né scienziati né politici, ma abbiamo un comunque un ruolo. E quale potrebbe essere? Difficile dirlo.
Sicuramente vi ricordate i gilet gialli in Francia, ma forse non ricordate quale decisione politica li aveva fatti scendere in piazza, mettendo a ferro e fuoco Parigi. Era (udite udite) una carbon tax: una tassa sui combustibili da autotrasporto. Una di quelle misure politiche che gli scienziati ci dicono essere tra le leve più efficaci per rallentare le emissioni.
Più recentemente, a livello europeo, la possibilità di porre fine alla vendita di auto tradizionali o le misure per gli edifici green non sono state certo accolte con entusiasmo. Si dice che la “fine del mese” abbia la meglio sulla “fine del mondo” e, nelle nostre vite frenetiche, è facile concentrarsi su problemi immediati e ignorare il tamburo dell’emergenza climatica.
Si certo signora mia, fa un caldo che non si respira, se va avanti così sarà sempre peggio… e stop, non facciamo il passo in più per chiudere il cerchio del ragionamento. O forse lo facciamo nella nostra mente, ma poi non agiamo di conseguenza.
Sulle ragioni dell’inconsistenza del supporto pubblico verso le politiche per il clima e la tutela dell’ambiente, rimando al bell’articolo di Luigi Pellizzoni, pubblicato su ENERGIA 1.23.
Un quadro non solo a tinte fosche
Tra l’altro, se qualcuno avesse la pazienza di sfogliarlo, il Synthesis Report dell’IPCC non è tutto a tinte fosche: delinea numerose opzioni fattibili, efficaci e a basso costo per la mitigazione e l’adattamento che sono già a disposizione dei paesi di tutto il mondo.
E c’è addirittura una buona notizia: gli scenari peggiori (oltre i 4°C di riscaldamento) che fino a poco tempo fa erano plausibili, ora sembrano molto più lontani. Il messaggio cardine è che ogni decimo di grado conta, ogni anno conta, ogni azione conta. Non riuscire a raggiungere 1.5°C non è un alibi per gettare via il neonato con i panni sporchi. Ma nei titoloni dei media meglio mettere qualcosa di roboante e catastrofico, tanto poi si passa subito al prossimo post.
La scienza è bella, ci affascina, ci incuriosisce. Però con parsimonia: quando ci dice che stiamo sbagliando e dobbiamo rimboccarci le maniche per cambiare, allora preferiamo restare sul divano e cambiare canale.
Stefania Migliavacca è docente di Economia dell’energia e dell’ambiente – Dinamica dei Sistemi presso la Scuola Enrico Mattei. Le opinioni espresse sono dell’Autrice e non vanno ascritte all’azienda nella quale lavora.
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