Le tensioni internazionali si legano indissolubilmente ai temi fondamentali della sicurezza e transizione, mentre l’energia diviene uno strumento della politica internazionale. Un nuovo articolo della rubrica di geopolitica dell’energia, a cura di Francesco Sassi, che approfondisce il recente accordo tra Teheran e Riyadh, facilitato dalla Cina.
L’accordo di de-escalation firmato il 10 marzo da Iran e Arabia Saudita con la mediazione cinese rappresenta un’evoluzione di grande rilevanza nel contesto di una regione, il Golfo Persico, che continua a essere il principale hub energetico globale. Il documento presentato a Pechino prevede come obbiettivo iniziale la riapertura delle rispettive sedi diplomatiche, chiuse nel 2016, entro due mesi dalla firma dell’intesa e l’implementazione di due importanti documenti di cooperazione multilivello firmati tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, durante quello che fu uno dei periodi di maggior dialogo tra Iran e Arabia Saudita.
Se dunque l’accordo tra i due pesi massimi regionali è il primo, tribolato, passo di quello che auspicabilmente sarà un lungo percorso di ricostruzione delle relazioni diplomatiche tra Teheran e Riyadh – con potenziali riverberi positivi a livello regionale – il coinvolgimento diretto di Pechino come mediatore dell’ultimo, decisivo passaggio negoziale, ha colto di sorpresa la grande maggioranza degli osservatori internazionali, abituati a un’attività diplomatica cinese nella regione mai così di primo piano.
La densa diplomazia, prima dell’accordo
Pur notando l’importanza del ruolo della Cina, dunque, il processo negoziale che ha portato all’accordo del 10 marzo ha un’evidente matrice regionale. Infatti, è successivamente al summit di Al Ula del gennaio 2021, che ha visto la fine formale dello strappo diplomatico tra il blocco formato da Arabia Saudita, UAE e Bahrein e il Qatar, che Teheran e Riyadh hanno dato inizio a un percorso di dialogo multilaterale con la mediazione irachena affiancata al costante lavoro diplomatico dell’Oman e, in misura minore, di altri attori regionali. Il processo si è tuttavia arenato a metà 2022, principalmente per ragioni legate a dinamiche interne alla politica di Baghdad, provocando da un lato una certa frustrazione da parte saudita e dall’altro la necessità di trovare un nuovo partner diplomatico in grado di mediare con l’Iran.
È in questo contesto che, durante la visita di Xi Jinping a Riyadh a dicembre 2022, la diplomazia saudita ha chiesto a Pechino di assumere un ruolo diplomatico inedito, accettato poi dall’Iran in occasione della visita del presidente Ebrahim Raisi a Pechino lo scorso febbraio. Il rapido successo della mediazione cinese è sintomo sia dell’indubbia influenza che Pechino mantiene su Teheran ma anche di una volontà piuttosto chiara da parte di entrambi gli attori di concludere un accordo già da tempo sul tavolo.
Il contesto di (in)sicurezza in cui si è sviluppato il processo di de-escalation tra Iran e Arabia Saudita, di cui oggi vediamo il primo frutto concreto, è quello delle tensioni regionali emerse a seguito dell’uscita dall’accordo sul nucleare iraniano da parte degli Stati Uniti nel 2018. La risposta di Teheran alla politica di massima pressione economica messa in atto dall’amministrazione Trump è stata duplice. Da un lato è stato messo in atto un percorso di escalation nucleare controllata e dall’altro si è aumentato il livello di tensione nell’area del Golfo Persico, tramite azioni militari contro navigli commerciali e infrastrutture critiche in Arabia Saudita. Dall’altro, seppur in modo indiretto, si sono sfruttate le relazioni intessute con i ribelli Houthi impegnati nella guerra dello Yemen e contrapposti alla coalizione di governo sostenuta dall’Arabia Saudita.
È stata la mancata risposta dell’amministrazione Trump all’attacco missilistico di matrice iraniana del settembre 2019 a due importanti impianti di raffinazione Saudi Aramco, che ha portato a una temporanea riduzione dell’output saudita da 9.8 a 4.1 milioni di barili al giorno (equivalente a una perdita di circa il 5% della produzione globale di petrolio), a spingere Riyadh a cercare una via regionale di de-escalation, aprendo al dialogo con Teheran.
La sicurezza energetica, legata a doppio filo con la stabilità regionale e alle logiche di sicurezza saudite e iraniane, è dunque una delle chiavi di lettura principali per comprendere sia la spinta a costruire una piattaforma di dialogo regionale, sia il coinvolgimento cinese nella fase decisiva delle negoziazioni. Dal punto di vista cinese, la regione mediorientale resta assolutamente imprescindibile nel paniere di supplier di petrolio greggio. Nel 2021, la regione ha soddisfatto circa il 50% dell’import totale cinese.
In questo contesto, l’Arabia Saudita ha un ruolo di primo piano. Il paese rimane stabilmente il principale fornitore di petrolio alla Cina (nei primi mesi del 2023, la Russia ha temporaneamente superato l’Arabia Saudita come principale esportatore di greggio verso la Cina), occupando circa il 17% del paniere di fornitori cinesi, mentre Pechino è il singolo maggior cliente di Riyadh. È quindi evidente che eventi come gli attacchi del settembre 2019 hanno un impatto chiave sia sulle relazioni economiche tra Arabia Saudita e Cina (nel 2021, l’interscambio commerciale tra i due paesi ha raggiunto un totale di 87 miliardi di dollari con il 65% del valore totale derivato dall’export del greggio) che per la sicurezza energetica della Repubblica popolare.
A ciò si aggiunge, seppur in modo molto più opaco, il ruolo comunque non trascurabile che il petrolio iraniano continua a occupare nel paniere energetico cinese. Secondo stime risalenti allo scorso anno, le raffinerie indipendenti cinesi continuano a importare tramite triangolazioni con paesi terzi (UAE, Malesia, etc.) circa 600 mila barili di greggio iraniano al giorno, equivalenti a circa il 7% del totale delle importazioni, con un picco massimo, stimato dalla società di consulenza Vortexa, di 1.2 milioni barili raggiunto a dicembre 2022.
La mediazione e gli interessi cinesi: cui prodest?
Non sorprende, dunque, che la Cina abbia un interesse a favorire processi di de-escalation in un’area geografica assolutamente fondamentale per il proprio approvvigionamento energetico e nella quale la presenza economico-finanziaria cinese è in costante aumento. A oggi, tuttavia, è ancora prematuro interpretare la mediazione cinese nell’accordo tra Iran e Arabia Saudita come il segno inequivocabile di un cambio di passo nell’approccio di Pechino al Golfo Persico, classicamente caratterizzato da una prevalenza dei rapporti economici rispetto a un modesto coinvolgimento diplomatico e un pressoché assente impegno di sicurezza.
L’impegno di mediazione messo in campo da Pechino è il risultato di due spinte interconnesse. A livello globale, la Cina è entrata nel 2023 con un rinnovato slancio diplomatico ben rappresentato dalla presentazione della Global security initiative (framework all’interno del quale il capo della diplomazia cinese ha esplicitamente collocato la mediazione cinese tra Iran e Arabia Saudita) e apparentemente rivolto ad accreditare Pechino come grande potenza alternativa agli Stati Uniti.
Dall’altro lato, l’opportunità di intestarsi il successo di un accordo regionale dal grande valore simbolico – inserendosi nella fase finale di un processo in fieri e, dunque, potendo ottenere un risultato notevole a fronte di un costo diplomatico limitato – non è solamente conforme alle ambizioni sopracitate. Infatti, esso si inserisce coerentemente con la visione di Pechino di un “destino regionale nelle mani della regione” in cui il ruolo della comunità internazionale deve essere quello di contribuire alla stabilità del Golfo Persico senza interferire con i processi regionali. L’accordo, quindi, è un successo “a basso costo” per la diplomazia cinese, segno evidente dell’opportunismo di Pechino di fronte a un’occasione diplomatica figlia di una congiuntura favorevole.
In questo contesto, per gli Stati Uniti e l’Unione Europea sarà fondamentale comprendere che gli attori del Golfo Persico – in primis Iran e Arabia Saudita – hanno ormai maturato una consapevolezza nelle opportunità economiche e strategiche offerte dal crescente multipolarismo regionale e globale. Nello scacchiere mediorientale in divenire, dunque, il gioco a somma zero tra le potenze extraregionali appare sempre meno attraente per gli attori della regione, suggerendo l’inizio di un’importante fase di transizione di cui il ruolo cinese nell’accordo tra Iran e Arabia Saudita è una prima indicazione.
Jacopo Scita è Policy Fellow presso la Bourse & Bazaar Foundation, un think tank focalizzato sullo studio della diplomazia economica, lo sviluppo economico, e la giustizia economica nel Medio Oriente e in Asia Centrale
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