Dove investire, in quali tecnologie e in quali tempi? Le compagnie energetiche navigano a vista e faticano a darsi una chiara strategia. Eppure serve una transizione energetica ordinata che non causi shock d’offerta e di prezzi.
L’unica certezza sul futuro dell’energia è l’assoluta incertezza che avvolge ogni variabile che condiziona le decisioni, specie sul fronte del petrolio che ancora soddisfa la maggior quota dei consumi di energia.
Da qui una paralisi decisionale che non potrà che condizionare la futura offerta non solo di petrolio, ma dell’intero spettro delle fonti di energia. Il ritorno massiccio degli Stati nel governo dell’energia, indotto dalla guerra ucraina, ha d’altra parte ristretto di molto gli spazi di mercato ed il ruolo degli operatori privati che operano soprattutto là ove hanno una qualche garanzia di positivi ritorni, come quelli assicurati dall’Inflation Reduction Act emanato dalla Casa Bianca a favore delle rinnovabili domestiche (per approfondire si rimanda all’articolo di Georgina Wright su ENERGIA 1.23).
Dove investire nella transizione energetica, in quali tecnologie e in quali tempi, è per le oil&gas companies un rebus estremamente complesso, mentre è sempre più evidente l’esigenza che la transizione energetica sia ordinata che non comporti cioè la marginalizzazione di una qualsiasi tecnologia senza che altre siano in grado di sostituirla, col rischio che si abbiano scarsità di offerta.
Rinunciare alle fossili prima che le low-carbon possano effettivamente rimpiazzarle rischia di ritardare di decenni la transizione energetica – Collins e Michot Foss
È il concetto di Valle della Morte che Gabriel Collins e Michelle Michot Foss hanno applicato alla transizione energetica (si veda ENERGIA 2.22). Proibire, ad esempio, per legge la vendita di auto endotermiche imponendo quelle elettriche rischia che non si abbiano né le une né le altre.
L’esigenza di una transizione ordinata richiederebbe d’altra parte una minima condivisione sul futuro dell’energia da parte dei governi, degli organismi internazionali (ad iniziare dall’Agenzia di Parigi), del sistema delle industrie.
Condivisione che è quanto di meno possa osservarsi: tra chi paventa la fine ormai prossima delle dominanti fossili e chi ne enfatizza ancora il predominio per lungo tempo.
Abbandonare le fossili prima che la transizione le abbia in larga parte sostituite non può, d’altra parte, che tradursi, con bassi investimenti, in una loro minor futura offerta con inevitabile rimbalzo sui loro futuri prezzi.
Si naviga a vista nella nebbia dei mercati
Prezzi che rispondono più alle dinamiche di breve termine che a possibili futuri shocks, dando l’errata percezione che essi non si avvereranno. Tutto all’opposto, la capacità produttiva disponibile di petrolio a breve (spare capacity) va progressivamente assottigliandosi mentre i limiti che condizionano anche quella della Russia, riducono la possibilità del mercato di fronteggiare le tensioni geopolitiche.
Insomma, si naviga a vista nella nebbia dei mercati: con la rottura delle tradizionali supply chains e il forzato ritrarsi dell’export della Russia. Un caos che ha fatto esplodere i margini dei commodity traders oltre i 100 miliardi di dollari.
L’Oxford Institute for Energy Studies stima per il 2023 una possibile banda di oscillazione dei prezzi del Brent tra circa 80 e 108 doll/bbl, come riflesso della forte incertezza che attraversa sia la domanda che l’offerta, con minimi sui 75 doll/bbl nel secondo trimestre ma possibili 100 doll/bbl a partire da maggio.
Le compagnie sono d’altra parte restie ad investire nelle fossili a dispetto della pressione esercitata dalla più parte degli stakeholders. Meglio allora destinare la maggior parte dei grandi cash flows che vanno incassando ai loro azionisti con dividendi (170 miliardi dollari nel 2022) e buy-back (140 miliardi).
Solo la parte residuale viene destinata agli investimenti nelle fossili: insufficienti, a parere di molti osservatori, a soddisfare la futura domanda di petrolio e metano, ma ancora troppo elevati a conseguire l’obiettivo di net-zero emissioni.
Big Oil Gushes Cash Because It Doesn’t Know Where to Invest – The Wall Street Journal
Per riuscirvi, gli investimenti nelle rinnovabili – ove le compagnie petrolifere controllano appena l’1% della potenza installata mondiale – dovrebbero crescere nei prossimi anni 9 volte quelli destinati alle fossili, contro l’attuale 1,5 volte. Dovrebbero farlo, nonostante una loro redditività, a dire della BP, dell’8% contro il 20% garantito dalle fossili ai prezzi attuali.
Per le compagnie energetiche darsi una strategia è in conclusione più complesso di un cubo di Rubik. Necessiterebbe loro più tempo per individuare le nuove tecnologie su cui puntare, cercando nel frattempo di massimizzare i profitti dalle fossili da cui trarre le risorse da destinarvi.
In questo mare di incertezze il maggior rischio è che l’ottimo, come sempre, sia nemica del bene. Ovvero che ponendosi obiettivi troppo ambiziosi si finisca per ottenere l’opposto di quel che si desidera conseguire perdendo ciò che di buono si ha.
Alberto Clô è direttore della rivista Energia e del blog RivistaEnergia.it
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