13 Marzo 2023

Stop ai motori termici: un rinvio “a data da destinarsi” o “sine die”?

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“A data da destinarsi” è la pubblicazione su Gazzetta Ufficiale UE del divieto di vendita dal 2035 di auto e van con motori termici. Ovvero auto a benzina e diesel, ma anche a biocarburanti, e-fuels, idrogeno. Sarà un rinvio senza fine?

I rappresentanti permanenti dell’Unione Europea ci hanno ripensato, posponendo “a data da destinarsi” la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del divieto di vendere a partire dal 2035 nell’ambito comunitario vetture e furgoni nuovi con motori endotermici. Insomma, la Svezia – che in questo semestre guida il Consiglio dell’Unione Europea – ha fatto una scelta pilatesca passando la palla ad altri. Girandola di fatto alla Germania, non essendo gli svedesi disposti ad ufficializzare l’esistenza d’una “minoranza di blocco” contraria a un’idea già sposata dal Parlamento europeo.

L’hanno fatto perché è la Germania ad avere il boccino in mano, per due ragioni. La prima, fondamentale, è che i tedeschi rappresentano il 18% della popolazione comunitaria e quindi sono essenziali per mettere insieme (aggregandosi – come è successo – all’Italia, alla Polonia e alla Bulgaria) quel 35% che, pur essendo una minoranza, può impedire a Bruxelles di bloccare i veicoli endotermici a favore delle auto elettriche.

Va chiarito che aveva un po’ il ruolo del cavallo di Troia quanto auspicato dai 340 deputati (equivalenti al 53% dei presenti, ma al 48% degli aventi diritto al voto) che a metà dello scorso febbraio hanno caldeggiato il varo d’una legge che dica stop tra poco più d’un decennio a chi nell’Unione intende acquistare dei mezzi a quattro ruote che generano CO2.

La Svezia se ne lava le mani, lasciando alla Germania la responsabilità di un eventuale dietro-front sul divieto

Chi era infatti, in questo caso, l’alter ego dei guerrieri di Agamennone, guidati da Ulisse stesso? Era l’esplicito collegamento della legge al cosiddetto “Fit for 55”: un pacchetto di proposte legislative formalmente finalizzate al miglioramento climatico, ma che in concreto rendevano i mezzi di trasporto a batteria l’unica alternativa offerta alle auto ed ai furgoni alimentati a benzina o a gasolio.

Perché? Perché nell’ultima revisione del “Fit for 55” è tra l’altro previsto che nel 2030 vi sia una compressione delle emissioni di gas a effetto serra pari al 55% del livello da esse toccato nel 1990.

Un obbiettivo estremamente ambizioso, visto che dal 1990 al 2020 le emissioni nell’Unione si sono ridotte del 20%: un taglio di non poco conto, ma sotto certi profili un precedente disarmante. Così, la revisione del “Fit for 55” ha stabilito un’ulteriore – e ben più draconiana – riduzione delle emissioni in meno di dieci anni imperniata su varie modifiche legislative, una delle quali relativa al settore dei trasporti.

Infatti, per far sì che vetture e furgoni arrivino a “emissioni zero” nel 2035, occorre non solo che da tale data nessun veicolo nuovo a diesel, a benzina o ibrido sia più venduto, ma anche che nel frattempo l’industria giunga a produrre in massa le auto elettriche a batteria, giacché solo in tal modo sarà possibile abbassarne drasticamente il costo di produzione e, quindi, renderle appetibili agli automobilisti dell’Unione.

Lo stop ai motori endotermici ha però sollevato una levata di scudi da parte d’un largo settore dell’industria automobilistica, in particolare di quella tedesca. Il che porta alla seconda ragione. Infatti, i tedeschi chiedono che dal bando siano sottratti gli autoveicoli alimentati con i cosiddetti e-fuels: i combustibili liquidi o gassosi di origine sintetica, prodotti tramite processi alimentati da energia elettrica rinnovabile.

Come mai tanta attenzione verso gli e-fuels, considerato che al momento non sono competitivi? La risposta sta nel fatto che è ben vero che, secondo stime, oggi la produzione di combustibile tramite l’utilizzo di energia elettrica rinnovabile costa mediamente più del doppio rispetto a quella ottenuti da fonti fossili. A meno che non provenga  da un impianto con basso costo dell’elettricità rinnovabile. Quindi, l’opinione dominante è che – a motivo sia del progresso tecnologico, sia della sempre maggiore diffusione delle fonti rinnovabili non programmabili – gli e-fuels in tempi abbastanza brevi possano rendere dei propulsori a bassa emissione di CO2 anche i motori che hanno utilizzato combustibili di derivazione fossile. Un’opinione condivisa da alcune case automobilistiche tedesche (peraltro, neppure le sole).

Le opportunità a rischio (e-fuels) e i rischi non ponderati (insuccesso, lavoro, gettito)

Di conseguenza, molti ritengono che la posticipazione “a data da destinarsi” del divieto vada intesa come un rinvio sine die. Sarà così? Nessuno lo sa. È, invece, ormai palese che alle spalle di quel divieto stanno due pecche: una scommessa formulata senza premurarsi delle conseguenze d’un suo eventuale insuccesso e una piena disattenzione verso le pesanti implicazioni che ne sarebbero potute derivare sull’industria automobilistica e su quella petrolifera dell’Unione.

Per non parlare dell’altro lato della medaglia: la decurtazione degli introiti generati tanto dalle accise sul consumo di benzina e gasolio, quanto dai tributi versati dalle imprese coinvolte nelle filiere produttive tradizionali. Il fatto è che nessuno sa ancora con certezza quanto un’applicazione spinta del principio delle economie di scala possa comprimere il prezzo di vendita dell’auto elettrica a batteria.

Inoltre, se la speranza d’un crollo del costo di produzione si rivelasse un flop, gli Stati dell’Unione dovrebbero sopportare l’enorme spesa necessaria a sostenere la vendita delle vetture nuove, quantomeno nei confronti di chi ha un vecchio e inquinante mezzo di trasporto e non ha risorse per comprarne una nuova.

Quanto ai danni che può provocare un rapido abbandono dei veicoli a motore endotermico, è presto per quantificarli, ma circa i rischi connessi alle scelte non ponderate è emblematico quanto è accaduto negli USA con l’emanazione del “Clean Air Act”: una legge di tutela ambientale resa operativa da Clinton a partire dal gennaio 2000. La Casa Bianca avviò quella norma perché spinta dall’onda emotiva del momento e – soprattutto – per ragioni elettorali. Infatti, nel 1999 George Bush jr. e Al Gore erano in gara per la Presidenza e Gore puntava sull’appoggio degli ecologisti per vincere.

Il precedente statunitense

Clinton volle dargli una mano e così negli Stati Uniti è obbligatorio bruciare benzina d’alto, altissimo, standarde gasolio molto pulito. Un diktat che non considerava quanto gli impianti di raffinazione degli Stati Uniti fossero qualitativamente (ma anche quantitativamente) inadeguati al mutamento di richiesta.

Né conseguì che le compagnie petrolifere erano indisponibili a incrementare e migliorare le loro raffinerie, data la scarsa redditività dell’investimento. Così, gli Stati Uniti – sebbene, grazie allo shale oil, abbiano incrementato la loro produzione d’oro nero – da vent’anni dipendono esageratamente dalla benzina importata.

Oggi, l’Europa raffina molto meno crude oil che in passato, ma è fuor di dubbio che parecchie altre raffinerie dovrebbero chiudere i battenti, se messe di fronte a una massiccia diffusione dell’auto elettrica a batteria.

Se a ciò s’aggiunge che nessuno utilizza l’olio minerale grezzo tal quale, ma lo si distilla, e che vi sono dei limiti circa la quantità d’ogni clean product (benzina, olio combustibile, ecc.) ricavabile dalla raffinazione, si comprende lo sconquasso che può provocare nell’industria petrolifera una drastica uscita di scena dei motori endotermici.

L’illusione che l’Europa possa essere trattata “en bloc”

Comunque, alle spalle del divieto vi è stata l’illusione che l’Europa possa essere trattata en bloc. Che le cose non stiano così, quantomeno in campo automobilistico, balza subito all’occhio, se si considera sia che non tutti gli Stati del continente producono vetture, furgoni e relativa componentistica, sia che tra i vari territori comunitari tanto in termini legislativi, quanto economici-finanziari vi sono in tema di auto e furgoni delle differenze enormi.

Tra i casi estremi abbiamo la Norvegia e l’Italia. Entrambe hanno una superficie abbastanza simile. Tuttavia, la prima nazione è occupata solo da circa 5 milioni d’abitanti (più o meno quanti ve ne sono in Sicilia); mentre nell’altra vivono oltre 60 milioni d’individui. Inoltre, la Norvegia estrae petrolio e gas naturale dal suo offshore e dispone di tantissime centrali idroelettriche, la cui attività non solo copre quasi totalmente il fabbisogno nazionale d’elettricità, ma consente pure l’esportazione di kilowattora in Svezia, Danimarca e Gran Bretagna.

Viceversa, il territorio italiano fornisce pochissimo petrolio e gas naturale, rispetto al fabbisogno, disponendo di impianti idroelettrici la cui produzione equivale – in base all’andamento delle piogge  – dal 5 al 15% della richiesta elettrica nazionale, sicché la disponibilità di kWh si fonda largamente sull’utilizzo di centrali termiche alimentate soprattutto con gas naturale.

V’è poi dell’altro. Ad esempio, i norvegesi le autovetture le comprano all’estero, non avendo fabbriche automobilistiche. Comunque, pure per loro è impossibile acquistare alla pompa gasolio e benzina a buon prezzo. Non tanto per esosità del Governo, reso ricco dal prelievo fiscale sui proventi della produzione e dalla commercializzazione degli idrocarburi, ma perché la Norvegia – non avendo problemi a sostenere economicamente il passaggio all’auto elettrica – s’è da tempo proposta di mettere al bando già dal 2025l’importazione d’auto endotermiche le cui immatricolazioni l’anno scorso  hanno rappresentato a fatica il 5% di quelle globali.

C’è chi incassa dalla vendita di petrolio e chi dalle tasse su benzina e gasolio

Ben diverso è il caso dell’Italia. Produce tuttora vetture e camion, anche se molto meno che in passato, con solo circa ¼ di quanto sfornato alla soglia del 2000: quasi 2 milioni d’automezzi. Inoltre, come vetture in circolazione l’Italia è seconda solo alla Germania. Peraltro, è al top come numero d’autovetture ogni 100 abitanti: circa 67, aventi però un’età media piuttosto avanzata. Infine, da noi le ibride e le auto elettriche sono ancora una piccola minoranza.

Che significa tutto questo in termini di carburante per autotrazione? Sul consumo annuale di circa 30 milioni di tonnellate tra benzina e gasolio lo Stato lucra pesantemente, trattandosi di un introito del quale ha fortemente bisogno, considerata la dimensione del debito pubblico.

E qui siamo al punctum dolens, visto che l’entità di tale debito rende pressoché impossibile sostenere economicamente il passaggio all’auto elettrica. Infatti, più cala l’entità dei veicoli endotermici, più cala l’ammontare di denaro procurato dalle accise applicate sul consumo di benzina e gasolio, riducendosi di conseguenza, le risorse finanziarie destinabili alla diffusione dell’auto elettrica.

Il caso norvegese

Insomma, il cane si mangia la coda! Il precedente non manca. E lo fornisce proprio la Norvegia. Lì a capo del Governo da non molto vi è il laburista Jonas Gahr Støre, che a motivo del crollo dell’impiego di carburanti fossili da parte delle autovetture s’è trovato ad affrontare un buco negli introiti fiscali pari a poco meno di 2 miliardi di euro. Chi in Norvegia, infatti, sceglie d’acquistare un’auto elettrica o ibrida non è tenuto a pagare l’Iva, né le tasse sull’acquisto, né il bollo, né i parcheggi e, un tempo, neppure i pedaggi stradali.

Inoltre, in alcune località è concesso d’utilizzare le corsie stradali riservate ai mezzi pubblici e ai taxi. Così, portafoglio alla mano, in Norvegia l’uso di queste auto costa nettamente meno di una endotermica di pari livello e potenza. Donde il boom delle loro immatricolazioni e l’apertura d’una crepa nelle casse dello Stato norvegese. Una falla che ha indotto anche il Fondo Monetario Internazionale a sollecitare Oslo a intervenire, dimostrando chiaramente quanto puntare esclusivamente sull’auto elettrica a batteria sia un po’come mettersi a tagliare il ramo sul quale si è seduti.


Marco Macciò è esperto di shipping e di questioni energetiche


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Foto: Unsplash


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