18 Aprile 2023

Guerra e transizione: 3 test per valutarne l’impatto

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La guerra sta accelerando la transizione energetica o ha creato un contesto sfavorevole per affrontare la questione climatica? Tre test per valutarne l’impatto: rinnovabili, carbon pricing, risparmio energetico.

La guerra russo-ucraina nel cuore dell’Europa ha posto la questione energetica su un nuovo piano. Da una parte, c’è chi ritiene che stia favorendo la transizione energetica, amplificando la criticità della questione sicurezza e rilanciando le rinnovabili quale strumento per una crescita dell’autonomia energetica dei paesi. Posizioni favorevoli a questa interpretazione si trovano, ad esempio, nel Report Ember sull’elettricità in Europa oppure nell’Outlook BP 2030 o nella IEA.

D’altra parte, autorevoli esperti, come ad esempio Alberto Clò, ritengono che la guerra abbia creato una discontinuità e cambiato profondamente le priorità dei paesi, spingendoli ad assicurarsi forniture energetiche anche a scapito delle policy climatiche: il ritorno del carbone in Germania e in altri Stati è una conferma di ciò. (Si vedano, ad esempio, BP e McKinsey: scenari o auspici?, maggio 2022, o Il consolidarsi del Nuovo Ordine Energetico, marzo 2023.) 

Guerra: un drammatico test per la transizione energetica

A distanza di poco più un anno dalla sciagurata aggressione russa all’Ucraina, si può provare a interpretare i dati per cercare di capire quale sia il suo significato per il mondo dell’energia e cosa essa implichi per la transizione. Il tema è di grande interesse perché la guerra può essere letta come un esperimento di laboratorio sulla transizione energetica che, obtorto collo, si erge davanti a noi nella sua drammaticità.

Perché la guerra è un esperimento di laboratorio? Da sempre, una della tesi dell’ambientalismo è che la penetrazione delle rinnovabili sia ostacolata dal moloch dei fossili che agisce come una barriera al dilagare delle fonti green. Ed ecco che in Europa la guerra fa evaporare, ex abrupto, 155 miliardi di metri cubi di gas russo aprendo una voragine che le rinnovabili possono colmare.

L’incumbent fossile è spiazzato, proprio nel gas naturale, una fonte ampiamente utilizzata nell’elettrico, ovvero nell’arena di gioco delle rinnovabili. Dunque, ecco la prima dimensione dell’esperimento, quella relativa alla penetrazione delle rinnovabili. Essa cresce? Diminuisce? Cosa sta accadendo e cosa dicono i numeri?

Ma vi sono altre due dimensioni interessanti da testare. La prima è quella relativa ai prezzi. Lo straordinario aumento dei prezzi del gas, e in misura minore di quelli del petrolio, rappresenta un test implicito per il carbon pricing, uno degli strumenti ritenuti essenziali per la transizione. Qual è la stata la reazione dei cittadini e dei governi al rialzo dei prezzi? Che entità ha avuto la carbon tax implicita nei prezzi schizzati alle stelle? Essa è stata accettata o rigettata?

Infine, vi è il terzo test: in che misura gli alti prezzi hanno stimolato il risparmio energetico, anch’esso elemento essenziale della transizione? C’è stato energy saving, oppure no?

Dunque, il test indotto dalla guerra tra Russia e Ucraina è triplice: rinnovabili, carbon pricing, risparmio energetico. Vediamo cosa è accaduto.

Test 1: Rinnovabili, un quadro in chiaroscuro

Il quadro delle rinnovabili è un chiaroscuro. La generazione elettrica da solare ed eolico ha raggiunto certamente un picco storico (22%) superando per la prima volta gas (20%) e carbone (16%).

D’altra parte, non si può dire che le fonti verdi abbiano dilagato, e ciò per due ragioni: la prima è che anche la generazione da fossili è cresciuta (3%), la seconda è che anche le emissioni di CO2 lo sono (+3,9%). Si deve però riconoscere che tale crescita della CO2 è dipesa anche dalla contrazione di nucleare (manutenzione centrali in Francia) e idroelettrico (siccità).

Anche sul fronte dell’installazione di nuova capacità non emerge un dato univoco: da una parte il solare si espande come non mai, ovvero di 41,4 GW (+47% rispetto ai 28 GW installati nel 2021 e più 25% rispetto alla capacità totale di 167,5 GW presente a inizio anno), dall’altra l’eolico cresce solo di 19,1 GW contro i 30 GW previsti per il raggiungimento degli obiettivi europei del Fit for 55.

In sintesi, nel 2022 le rinnovabili hanno continuato a crescere ma non c’è stata un’inondazione prepotente dello spazio creatosi con l’abbandono del gas russo. Il 2023 sarà un anno cruciale: i dati ci diranno se è vero, come sostiene Ember, che l’accelerazione della transizione indotta dalla guerra sarà “on full display”, oppure se ancora le fonti fossili riusciranno a difendere le proprie quote di mercato.

Test 2: il dilemma del carbon pricing

Carbon pricing: nel 2022 abbiamo assistito a una crescita unica dei prezzi del gas, superiore a qualsiasi variazione registrata in 150 anni di storia del mercato petrolifero e in almeno sei crisi del prezzo (1973, 1979, 1990, 2008, 2014, 2020).

Dopo un decennio di relativa stabilità caratterizzato da un prezzo del gas naturale intorno ai 20 €/MWh, il livello si è impennato fino a raggiungere la fascia 250-340 nell’agosto 2022.

La crescita è stata insostenibile, tanto per i cittadini quanto per le aziende e i governi. Secondo Bruegel, questi ultimi avrebbero speso in Europa 758 miliardi di euro per proteggere cittadini e business dall’incremento dei prezzi.

Si tratta di una cifra monstre, non distante dagli 830 miliardi di dollari che Obama iniettò nell’economia americana per sollevarla dalle secche della crisi economica del 2008.

I governi hanno difeso aziende e cittadini dall’aumento dei prezzi gas…

Lo scudo dei governi europei è un segno che cittadini e imprese non possono resistere alle onde straordinarie del mercato. Ma l’incremento dei prezzi energetici non è proprio un esempio di carbon pricing? E lo scudo creato dai governi a difesa di aziende e cittadini è forse una implicita sconfessione del carbon pricing? La risposta dipende dall’entità degli aumenti.

Per la transizione energetica Fondo Monetario Internazionale e IEA stimano necessari prezzi della CO2 nel range 75-130 $ per tonnellata.

Ora, una carbon tax di 100 $/tCO2 implica un aumento del prezzo di un litro di benzina di circa 0,25 € e una crescita del prezzo di un MWh di gas naturale di circa 20 €. Si tratta di aumenti sensibili ma comunque assai distanti da quelli indotti dalla crisi del gas, il cui prezzo oggi viaggia intorno ai 40€ /MWh, un valore che, alla luce delle impennate passate, ci sembra quasi basso. Di fatto è come se il prezzo odierno incorporasse, rispetto al 2021, una carbon tax di circa 100 €/tCO2.

Dovremmo da ciò dedurre che i paesi possono permettersela? La risposta non è netta. Diremmo “fino a un certo punto”, e questo per due ragioni: la prima è che 100€/tCO2 possono rappresentare un macigno per i cittadini di paesi a basso reddito, sia all’interno che all’esterno dell’Europa.

La seconda è che la percezione degli aumenti di prezzo può cambiare a seconda della situazione. La cancellazione del taglio delle accise da parte del governo italiano ha suscitato, ad esempio, ampie proteste e uno sciopero di due giorni dei benzinai: l’aumento era intorno ai 20 centesimi per litro, ovvero di poco inferiore all’importo derivante da un’eventuale carbon tax di 100 dollari.

..ma questi equivalgono a una carbon tax in linea con l’obiettivo Net Zero

Spesso il prezzo dei combustibili si muove con gradualità nella fascia 1,5-2 €/lt e ciò non dà luogo a proteste. Altre volte, però, il contesto cambia e una variazione di qualche decimo di euro può dar luogo a forti opposizioni da parte dei cittadini.

Sul mercato dell’ETS, una tonnellata di CO2 costa oggi intorno ai 90 €, dopo aver toccato anche quota 100. Ciò significa che già oggi, i cittadini europei pagano, per circa il 40% delle emissioni che generano, una carbon tax di valore pari a quello auspicato per l’obiettivo Net Zero da autorevoli istituzioni internazionali.

Cento euro sono molti ma impattano solo sul 40% delle emissioni europee. In futuro, il campo d’azione della carbon tax dovrà estendersi a tutta l’economia. Non solo, il valore dovrà crescere: secondo la IEA a 130€ nel 2030 e a 205 € nel 2040.

Si tratta di valori notevoli e ciò che la recente crisi del gas ci insegna è che, oltre un certo livello, occorre lo scudo pubblico dei governi per sostenere i bilanci economici delle famiglie. Ciò apre un tema enorme, la cui rilevanza è in crescita nell’ambito dell’Unione Europea: la transizione energetica costa – circa 500 miliardi di euro all’anno da qui al 2030 – e non è affatto certo che il settore pubblico disponga dei fondi necessari a finanziarla.

Dunque, l’ipotesi ricorrente di destinare i fondi derivanti dal carbon pricing alla transizione appare ottimistica alla luce dell’enorme scudo economico che i governi hanno dovuto porre in atto per difendere i redditi dei cittadini: è questo che la guerra ci dice.

Test 3: risparmio energetico, impatto positivo, ma non ingente

Infine, vi è la questione del risparmio energetico. La transizione implica comportamenti virtuosi da parte degli agenti, stimolati anche dal carbon pricing. Su questo fronte, la guerra ha indotto dei miglioramenti?

Secondo la IEA, se non si considerano i consumi di gas dovuti alla compensazione del nucleare (+22 mmc) e dell’idroelettrico (+12 mmc), nel 2022 i consumi sono scesi di 85 mmc rispetto al 2021. Si tratta di una riduzione considerevole se si pensa che l’importazione totale dalla Russia nel 2021 è stata pari a 155 mmc.

Il calo della domanda elettrica e il taglio della produzione industriale sono state le cause maggiori della diminuzione dei consumi. Il comportamento avrebbe impattato al massimo, nel residenziale, per 7 miliardi di metri cubi, ovvero per poco meno del 10% della riduzione totale.

D’altra parte, non si può escludere che una parte del calo della domanda elettrica sia da imputare a risparmio energetico. In sintesi, non è semplice stimarne l’esatto impatto, ma di certo c’è stato un effetto positivo in termini di conservazione e di efficienza: il consumo è sensibile alla variabile prezzo.

Per concludere, l’analisi delle tre dimensioni sopra considerate – penetrazione rinnovabili, carbon pricing, risparmio energetico – ci consegna un quadro non univoco.

La guerra non ha impresso un’accelerazione considerevole, per contro ha creato un clima per nulla favorevole alla cooperazione e al dialogo

C’è stata una certa crescita delle rinnovabili ma essa non è vigorosa come si poteva congetturare. Analogamente, il carbon pricing è stato accettato solo entro una certa soglia, inducendo i governi a intervenire pesantemente. Infine, vi è stato un impatto positivo, ma non ingente, su conservazione energetica ed efficienza.

Ci sembra di poter affermare che i dati del 2022 segnalano un complessivo effetto benefico sulla transizione ma non autorizzano a dire che la guerra la acceleri in misura considerevole. I dati del 2023 ci aiuteranno a comprendere, forse, se vi è un vantaggio o meno per la transizione.

Per ora, non ci sembra di essere di fronte né a una rivoluzione copernicana né a un cambio di passo significativo. Per contro, non si può non sottolineare come la guerra abbia logorato la fiducia tra i paesi, creando un clima per nulla favorevole alla cooperazione e al dialogo, due ingredienti essenziali nella lotta al cambiamento climatico.


Enzo Di Giulio è economista ambientale e membro del Comitato Scientifico di ENERGIA


Foto: Unsplash

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