Una decisione strana e inattesa, quella dell’Opec Plus di tagliare ulteriormente da maggio sino alla fine dell’anno la propria produzione. La decisione non riguarda i fondamentali di mercato, ma ha matrice politica. A riprova del ritorno dirompente della geopolitica dell’energia.
In mezzo al quasi totale disinteresse mediatico e politico per la prima fonte di energia consumata al mondo, esattamente un mese fa scrivevo su questo blog le ragioni della tuttora essenzialità del petrolio.
A ricordarlo meglio di me ci ha pensato l’inattesa decisione dell’Opec Plus del 3 aprile di tagliare ulteriormente da maggio sino alla fine dell’anno la propria produzione di 1,66 milioni di barili al giorno, aumentando quindi a 3,66 mil.bbl/g il taglio praticato dallo scorso novembre.
Il taglio deciso ieri graverà principalmente sull’Arabia Saudita (500 mila bbl/g), Iraq (per 211), Emirati Arabi (per 144), Kuwait (per 128). A questi deve aggiungersi quello deciso dalla Russia a febbraio per 500 mila bbl/g.
Una decisione inattesa e strana
Decisione inattesa e strana anche per le modalità con cui è stata comunicata: non al termine di un vertice dell’Organizzazione di Vienna ma di una riunione del suo Joint Ministerial Monitoring Committee (JMMC) che fornisce all’OPEC Plus l’informazione sull’andamento del mercato petrolifero.
Il JMMC ha sostenuto che la decisione del taglio costituisce “a precautionary measure aimed at supporting the stability of the oil market”. Spiegazione che non tiene dal momento che nella scorsa settimana i prezzi avevano recuperato i due terzi del calo registrato da inizio marzo, da circa 86 doll/bbl ai 74 del 20 marzo, per poi rimbalzare a circa 80 il 31 marzo.
Il mercato si era in sostanza stabilizzato da sé. Sta di fatto che all’annuncio dell’JMMC le quotazioni sono balzate dell’8% per poi ripiegare al 6,4% a circa 85 doll/bbl. per il Brent Dated.
Una decisione che coglie molti di sorpresa, a partire da Ed Morse di Citigroup, che assieme a Francesco Martoccia su ENERGIA 1.23 prefiguravano che l’Opec Plus “adotterà delle politiche di offerta accomodanti per garantire un prezzo del petrolio sufficientemente alto per coprire il pareggio di bilancio degli Stati membri (…) ma al contempo non così elevato da strozzare l’economia mondiale, già indebolita dall’inflazione e dalle politiche monetarie restrittive delle banche centrali”.
Invece che garantire stabilità, la decisione dell’Opec Plus prelude ad un balzo dei prezzi a partire dal secondo trimestre – per un effettivo deficit di offerta – con Goldman Sachs che già proietta livelli prossimi ai 100 doll/bbl a fine anno.
Taluni hanno sostenuto che il taglio è prodromico a riassorbire un ipotetico surplus di offerta di petrolio. Cosa non vera, rammentando che l’insieme dei paesi Opec non riusciva a raggiungere i target produttivi che si era data.
Il fatto, semmai, è che la domanda si è mantenuta elevata potendo raggiungere, secondo l’Agenzia di Parigi, i 103,5 mil.bbl/g contro i 100 registrati nel 2019 l’anno pre-pandemia.
La scarsa capacità produttiva residua è la vera questione dirimente
Il punto, vera questione dirimente, è la scarsa capacità produttiva residua (spare capacity) nell’ordine di solo il 2-3% della domanda.
L’esplodere di una qualsiasi tensione geopolitica, ve ne sono molte di potenziali, genererebbe un deficit di offerta non dissimile da quello che nella seconda parte del 2021 causò l’esponenziale aumento dei prezzi del gas naturale.
Per accrescere la spare capacity bisognerebbe però investire moltissimo: dai 358 miliardi del 2021 ai 640 del 2030, stimano IEF e S&P in un recente rapporto.
Le compagnie sono tuttavia restie a farlo per molte ragioni: disciplina finanziaria che si sono date, rischi di calo della domanda per le politiche climatiche sempre più aggressive, ostracismo dei governi e degli organismi internazionali a partire dalla Commissione europea.
Due ultime annotazioni. La prima è che diversamente da quel che accadeva non molti anni fa a riequilibrare il mercato non può soccorrere il ‘barile marginale’ rappresentato dallo shale oil americano che nel giro di breve tempo era in grado di accrescere l’offerta sul mercato internazionale, con grande scorno dei paesi Opec che oggi ne hanno invece riguadagnato il pieno controllo.
La seconda è che il taglio della produzione è, a mio avviso, frutto della sempre più stretta alleanza politica tra Russia e Arabia Saudita. Alleanza che ha ormai cancellato quella passata tra Stati Uniti e Arabia Saudita. I comunicati entusiasti dell’agenzia russa Tass lo stanno a dimostrare.
Ritorna la geopolitica dell’energia
L’aumento dei prezzi consente infatti a Mosca di compensare il calo dei ricavi delle esportazioni energetiche, per i minori prezzi del gas rispetto alle punte dello scorso anno e per la necessità di praticare alti sconti alle esportazioni petrolifere per arginare embargo e sanzioni europee.
Ritorna in tutta la sua dirompenza la geopolitica dell’energia, come ci ricordano sia Olivier Appert, nel suo articolo pubblicato sul primo numero 2023 di ENERGIA, che Francesco Sassi, che da quest’anno su RivistaEnergia.it ha iniziato a curarne un’apposita rubrica.
Un nuovo equilibrio geopolitico, avverso all’Occidente, va affermandosi su scala mondiale, e sarebbe opportuno che l’Europa se ne rendesse conto. Considerando l’essenzialità del petrolio ancora per non pochi decenni.
Alberto Clô è direttore della rivista Energia e del blog RivistaEnergia.it
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