Alberto Clô presenta i contenuti del nuovo trimestrale ENERGIA.
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L’energia tra politica ed economia
L’ordine internazionale – a parere di Giampiero Massolo – sta osservando una «recessione geopolitica», con l’America impossibilitata a svolgere il tradizionale ruolo di potenza egemone mentre altre potenze, a cominciare dalla Cina, proiettano la loro influenza su aree crescenti del globo. In un confronto che coinvolge essenzialmente l’Occidente da una parte e il Resto del Mondo dall’altra («the West and the Rest»), senza che in entrambi i fronti prevalga una forte leadership interna, con la possibilità che si affermi una pluralità di assetti mondiali. «Per l’Europa, e l’Italia, –- conclude l’Autore – sarà fondamentale ripassare la lezione della crisi legata al Covid-19. L’unità e l’efficacia della reazione alla crisi pandemica dovranno essere d’esempio per la gestione delle criticità che si profilano nell’agenda comune». A modificare l’ordine internazionale concorreranno anche – secondo Giacomo Luciani – le conseguenze geopolitiche della transizione energetica, con una perdita di importanza dei paesi esportatori di idrocarburi a vantaggio di quelli che producono minerali necessari alle tecnologie low-carbon. (…) Accanto a questi aspetti economici, non meno rilevanti sono quelli geopolitici specie dei paesi del Golfo, tuttora convinti di essere in posizione di forza, perseguendo una maggiore indipendenza nei confronti degli Stati Uniti, mentre l’impressione è che in realtà il loro potere contrattuale sia molto più ridotto di quanto possano immaginare, cercando in alternativa il sostegno della Cina, sempre più arbitro degli equilibri non solo regionali. Posizione condivisa da Romano Prodi che analizza le molte criticità che stanno attraversando il mondo dell’energia, a partire dalla nuova geopolitica che si sta modellando intorno all’impressionante «nuovo blocco che si estende dalla Russia all’Asia ed al Medio Oriente, grazie anche alla latitanza delle altre potenze». (…) il mercato del petrolio conoscerà sempre più il dominio dei paesi OPEC, anche per la scarsa propensione ad investire delle oil majors, che pesano peraltro meno del 10% della complessiva produzione mondiale. (…) I bassi investimenti, al di là dei giganteschi profitti realizzati dalle compagnie (200 miliardi di dollari per le prime cinque oil majors)(4) generano un concreto rischio che la transizione energetica al dopo-fossili non abbia a completarsi prima che queste siano state rimpiazzate, derivandone un vuoto d’offerta dalle gravi conseguenze. La causa è rintracciabile, a parere di Jean-Bernard Levy, nella bassa propensione degli operatori a realizzare gli enormi investimenti necessari a rispettare la traiettoria dell’Accordo di Parigi e a soddisfare la domanda attesa per il 2030(5). Bassa propensione riconducibile, a suo dire, al disegno dei mercati europei imperniato su liberalizzazioni che premiano logiche ed orizzonti di breve termine(6). Da qui, la necessità di introdurre una loro «ibridazione» attraverso contratti a lungo termine tali da dare alle imprese certezze di reddittività dei loro investimenti. (…)
I rischi di scarsità di risorse minerali
A queste sottaciute difficoltà se ne aggiungono altre a partire dal rischio di scarsità delle risorse minerali. Tema trattato da Christophe Poinssot che evidenzia come la crescita esponenziale della loro domanda sia riconducibile alla transizione energetica incardinata nelle fonti rinnovabili, le cui tecnologie ne hanno un’intensità d’uso molto maggiore di quella delle fonti tradizionali. (…) Due le questioni cruciali che ne derivano: da un lato, la capacità del mercato di soddisfare questa crescente domanda nei tempi necessari; dall’altro, la perdita di sovranità per larga parte dei paesi, ad iniziare dall’Europa. (…) Una mancata risposta causerebbe una scarsità di questi minerali, la cui concentrazione produttiva è ancor maggiore di quella nel petrolio (il Congo controlla il 70% della produzione di cobalto) e una maggiore dipendenza dalla Cina, dato il suo dominio nelle supply chain delle tecnologie e manifatture clean. Nel 2021, l’Unione Europea ha acquistato dalla Cina il 64% delle turbine eoliche che ha installato, l’89% dei pannelli solari, il 43% delle auto elettriche(12). Da qui, nell’analisi di Chiara Proietti Silvestri, il bivio che si prospetta ai paesi europei: se proseguire nella dipendenza dall’estero per beni essenziali alla transizione energetica, ovvero virare verso la costruzione di industrie nazionali, in tempi però dilatati e con costi più elevati. Una scelta che manifesta trade-off di non facile soluzione. «Se l’obiettivo industriale – conclude l’Autrice – diviene prioritario, dovremmo avere anche chiaro a cosa dovremmo rinunciare (energia a basso costo? disparità di bilancio? una transizione più lenta?) e, soprattutto, esplorare strade che non alimentino le disuguaglianze tra e negli Stati membri dell’Unione Europea». In un articolo politicamente poco corretto, Jason Bordoff e Meghan O’Sullivan, criticano l’illusoria idea che la transizione energetica porrebbe fine alle passate tensioni geopolitiche, essendo, a loro avviso «caotica in pratica, tale da produrre nuovi conflitti e rischi nel breve periodo», a seguito del riaffermarsi della sicurezza energetica come questione prioritaria. (…) Affrontare la nuova insicurezza energetica non può limitarsi ad accrescere la produzione interna e diversificare le forniture estere, ma ancor prima richiede di accrescere la resilienza dei sistemi energetici a minacce esterne, aumentandone la flessibilità a fronte della penetrazione delle rinnovabili, puntando ad un maggior coordinamento delle politiche nazionali, e una maggior integrazione dei sistemi, respingendo frammentazioni e protezionismi.
Uno sguardo all’Italia
Lo tsunami dell’energia come ha modificato situazione e prospettive energetiche del nostro Paese? Francesco Gracceva traccia un analitico quadro dei mutamenti intervenuti, specie dal lato della domanda, cercando di valutarne la natura strutturale o congiunturale. Ebbene, solo un terzo della sua riduzione ha natura strutturale, mentre le emissioni sono cresciute ancora nel 2022 allontanando ancor più il nostro sistema dalla traiettoria necessaria a conseguire le riduzioni fissate dalla Commissione per il 2030. Conclusione: le cose si son fatte ancor più complesse perché quelle riduzioni richiederebbero aggiustamenti di gran lunga superiori a quelli registrati negli anni scorsi. (…) In un articolo sul precedente numero di «Energia»(14), ho evidenziato la contraddizione tra la necessità sostenuta dai paesi europei di espandere gli investimenti infrastrutturali nel gas naturale e l’impegno vincolante da loro assunto di ridurne i consumi di circa il 60% entro il 2030. Contraddizione che emerge anche nell’articolo di Mostefa Ouki, dell’Oxford Institute for Energy Studies, che esamina l’effettiva possibilità che l’Italia divenga un hub mediterraneo del gas. Quel che dipende non tanto dalle pur incerte addizionali disponibilità di gas da Algeria e Libia, ma dalla domanda di gas in Italia e nel resto d’Europa a causa della decisione di Bruxelles di ridurla fortemente. (…) Sul futuro del gas, che un recente rapporto della IEA ritiene fonte cruciale sulla via della transizione (17), si sofferma Stefano Venier, il quale, ritenendo che la passata crisi non possa dirsi del tutto rientrata, evidenzia la necessità di rafforzare le infrastrutture di trasporto, sia dall’estero per ampliare e diversificare la struttura degli approvvigionamenti, che all’interno col rafforzamento della strategica dorsale Sud-Nord in parallelo alle maggiori forniture previste nel Mezzogiorno. Un rafforzamento globale tale «garantire un adeguato margine di “ridondanza” [e] una maggior affidabilità del sistema». Ridondanza che potrebbe esser favorita da un aumento dell’agrivoltaico, come analizzato nel contributo di Elena De Luca e Fulvio Fontini. Un aspetto determinante sul futuro energetico del nostro Paese sarà dato dall’implementazione della Direttiva «case green» recentemente proposta dal Parlamento europeo e che prevede per gli edifici residenziali il raggiungimento della classe energetica E entro il 2030 e D entro il 2033, con la possibilità di dimezzare i consumi energetici. Proposta che dovrà ora essere negoziata con Consiglio e Stati membri. Secondo lo studio dei ricercatori RSE Marco Borgarello, Lorenzo Croci, Francesca Talamo, Ennio Brugnetti, Francesco D’Oria, Stefano Sabbatini, la quota oggetto di potenziale riqualificazione potrebbe ammontare (al netto di quelli esentati) a 8,8 milioni di edifici, pari a circa 18,8 milioni di abitazioni, con un impegno a carico delle famiglie, cumulato al 2030, di circa 200 miliardi di euro a prezzi correnti per l’obiettivo di minima (classe E) e un onere doppio per l’obiettivo D, compreso tra 365 e 420 miliardi di euro, a seconda delle variabili assunte. Ogni famiglia dovrebbe sostenere un costo di circa 22.000 euro per l’obiettivo di massima. Un onere gravoso per le famiglie meno abbienti, che abitano case meno efficienti, cui lo Stato dovrebbe contribuire in misura rilevante. (…) Anche nel caso delle «case green» vi è da parte della Commissione – come bene illustra Valeria Palmisano nella sua consueta «Lettera da Bruxelles» – scarsa contezza della fattibilità e ancor prima dell’onerosità di quel che propone, tutta presa da una «bulimia normativa» che va creando contrapposizioni tra gli Stati in ragione delle specificità nazionali che mal si conciliano con decisioni univoche.
Bologna, 30 maggio 2023
a.c.
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