Servirebbe cautela di fronte a scenari energetici altamente incerti. Eppure, nel tracciare le prospettive della domanda petrolifera la IEA si mostra fin troppo ottimista. E se le cose non volgessero nel modo descritto? Quali lezioni ci ha lasciato la recente e non ancora conclusa crisi del gas?
La futura grande crescita delle rinnovabili farebbe intravvedere molto vicino all’orizzonte il picco della domanda petrolifera. Si tratta del 2028, secondo il rapporto Oil 2023 dell’Agenzia di Parigi uscito recentemente.
Entro quell’anno la domanda sarà di circa 3 milioni di barili al giorno (mil.bbl/g) superiore rispetto ai 103 mil.bbl/g previsti nel quarto trimestre di quest’anno (si veda Oil Market Report di maggio) e che, a loro volta, sono +3 mil. bbl/g rispetto ai livelli pre-pandemia.
Dopo tale data la domanda – sempre secondo la IEA – dovrebbe prendere irreversibilmente a declinare. Degli stessi 3 mil.bbl/g al 2035, stando allo scenario più cauto (lo Stated Policies, STEPS, ovvero politiche correnti) del suo World Energy Outlook 2022, mentre gli altri scenari (Announced Pledges, APS, e Net-Zero, NZE) prevedono un declino molto più drastico.
Servirebbe cautela di fronte all’incertezza
Escludere che le cose possano volgere in peggio è del tutto arbitrario e non tiene conto, da ultimo, del recente passato e delle evoluzioni che ancora sono in essere. Scorrendo questo ed altri scenari, ad esempio quelli di Rystad Energy, quel che emerge è infatti l’assoluta incertezza su quel che potrà accadere tra mille assunzioni, possibili politiche pubbliche o comportamenti dei consumatori, vessati dagli alti costi dell’energia e poco inclini ad assecondare costose politiche climatiche.
Eppure, sostiene la IEA, dei futuri livelli di domanda non vi è motivo di preoccuparsi perché la capacità inutilizzata di petrolio (spare capacity) al 2028 di 3,8 mil.bbl/g sarà in grado di fronteggiare ogni ammanco d’offerta. Affermazioni tre volte errate.
La spare capacity è e sarà adeguata: un’affermazione tre volte errata
Primo, perché un simile livello di spare capacity è del tutto insufficiente a fronteggiare mai escludibili tensioni geopolitiche che provochino una consistente riduzione dell’offerta mondiale. Si pensi al taglio di quelle iraniana o venezuelana (sebbene potrebbero riprendere se fossero eliminate le sanzioni americane)
Secondo, perché l’essere ostaggi del Medio Oriente dovrebbe suscitare preoccupazioni nei 28 paesi che l’Agenzia dovrebbe rappresentare. Evidentemente, la guerra ucraina non ha insegnato nulla quanto ai rischi connessi alla dipendenza da pochi e politicamente ostili fornitori, quali quelli raggruppati in OPEC Plus, forti della sempre più stretta alleanza tra Russia e Arabia Saudita.
L’organizzazione di Vienna ha acquisito un forte controllo del mercato con politiche d’offerta che rispondono alle esigenze di suoi paesi membri e non alle nostre esigenze. Sapendo che diversamente dal passato non potrà soccorrerci il “barile marginale” dello shale oil americano che nello scorso decennio ha consentito di più che bilanciare cali d’offerta medio-orientali o nord-africani.
Abbandonando l’allegra finanza del passato, i produttori shale puntano ora a rimborsare i debiti, remunerare gli azionisti e non ad aumentare le estrazioni (per approfondire si rimanda all’articolo di Michele Manfroni Shale oil: penuria nell’abbondanzapubblicatosu ENERGIA 3.22). La produzione statunitense ha recuperato molto lentamente dopo il crash del 2020 e il suo livello attuale resta al di sotto di quello pre-pandemico.
Morale: la futura offerta di petrolio proverrà prevalentemente dai paesi OPEC con una quota prevista crescere dall’attuale 30% al 50% e più, tornando ai livelli che si ebbero durante le crisi degli anni Settanta. Una tendenza irreversibile considerando che essi controllano il 70% delle riserve provate.
Terzo, perché, afferma la IEA, gli investimenti upstream pur in crescita restano inferiori del 47% in termini reali a quelli del 2014. Investimenti realizzati in larga parte dalle National Oil Companies dei paesi produttori e che registrano una decrescente produttività in termini di scoperte.
Un sensibile aumento dell’offerta non-OPEC+?
Nel 2021, ultimo dato disponibile, sono stati scoperti appena 5 miliardi di barili convenzionali – la metà della media del precedente decennio – compensati però in buona parte dalle scoperte di petrolio non convenzionale. La prospettiva ravvisata dalla IEA che nei paesi non-OPEC+ la capacità estrattiva di petrolio possa aumentare in modo sensibile contrasta con la ritrosia delle compagnie a farlo per una pluralità di ragioni.
Non sembra quindi condivisibile il messaggio di fondo che può trarsi dal rapporto dell’Agenzia: che la situazione prospettica del petrolio è sostanzialmente positiva, che il mercato conoscerà un sostanziale equilibrio, grazie soprattutto alla capacità sostituiva delle tecnologie green. Consolidando l’illusoria idea che del petrolio non vi sia motivo per interessarsene e preoccuparsene, pur continuando a costituire la prima fonte energetica utilizzata nel mondo.
Quel che cozza contro una banale domanda: che accadrebbe se le cose non volgessero nel modo descritto dalla IEA? Quali rimedi, a quel punto, potrebbero mai adottarsi? Il rischio è veder esattamente il ripetersi di quanto accaduto, e amaramente vissuto, sul fronte del gas nell’anno alle nostre spalle.
Alberto Clô è direttore della rivista Energia e del blog RivistaEnergia.it
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