12 Luglio 2023

Green Deal Industrial Plan e il difficile trade-off tra obiettivi climatici e industriali

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Il Green Deal Industrial Plan è la risposta europea all’ondata sempre più aggressiva di protezionismo da parte di Cina e Stati Uniti. Ma, come emerge dall’articolo di Chiara Proietti Silvestri su ENERGIA 2.23, l’obiettivo di lanciare lo sviluppo di filiere nazionali rischia di dilatare le tempistiche della transizione energetica.

La cooperazione globale per fronteggiare i cambiamenti climatici, che trova massima espressione nelle Conferenze delle Parti (COP), ha da sempre una faccia rimasta a lungo nascosta e, almeno in apparenza, latente e che solo negli ultimi anni ha iniziato ad emergere in tutta la sua rilevanza: la competizione industriale.

Nello scorso numero di ENERGIA abbiamo ospitato un articolo di Georgina Wright (Senior Fellow and Director, Europe Programme, Institut Montaigne) in cui presenta l’Inflation Reduction Act dell’Amministrazione Biden, le reazioni che vi sono state in Europa e le possibili risposte al vaglio dell’Unione Europea.

In questo nuovo numero dedicato all’Europa nell’era dell’insicurezza energetica continuiamo a presidiare questo importante tema con un’analisi di Chiara Proietti Silvestri che presenta nel dettaglio il piano industriale europeo, le tecnologie considerate centrali nella decarbonizzazione e le opzioni di finanziamento in discussione.

Il processo di transizione energetica europea è a un bivio

Presentato il primo febbraio scorso per rispondere all’ondata sempre più aggressiva di protezionismo da parte di Cina e Stati Uniti, il piano strategico europeo per potenziare la capacità produttiva nei settori low-carbon e ridurre la dipendenza dalle tecnologie estere rischia al contempo di dilatare le tempistiche della transizione energetica.

Dopo aver introdotto il contesto di competizione industriale, con i programmi di Cina e Stati Uniti, l’analista di Rie-Ricerche Industriali ed Energetiche presenta la composizione del Green Deal Industrial Plan (par. 1), “quattro pilastri che illustrano il modo in cui l’UE intende rilanciare gli investimenti nelle tecnologie pulite al fine di proseguire nel percorso verso la neutralità climatica (Fig. 1)”.

“In vista di un rafforzamento delle catene di approvvigionamento globali, la Commissione ipotizza anche la creazione di nuovi partenariati industriali e di un Critical Raw Materials Club tra paesi consumatori e produttori di materie prime critiche che possa garantire la sicurezza globale dell’approvvigionamento attraverso una base industriale competitiva e diversificata”. La cruciale questione degli approvvigionamenti delle materie prime necessarie alla transizione è approfondita nello stesso numero da Christophe Poinssot del Bureau de Recherches Géologiques et Minières mentre l’ipotesi del “friend-shoring”, per il cui interesse è cresciuto a fronte del deteriorato quadro geopolitico, ritorna anche (sul fronte del gas) nell’analisi di Mostefa Ouki sulle possibilità di un nuovo hub nel Mediterraneo.

L’analisi di Proietti Silvestri prosegue presentando quelle che il piano europeo ritiene tecnologie strategiche (par. 2): 8 voci – solare, eolico, batterie e accumulo, pompe di calore ed energia geotermica, elettrolizzatori e celle a combustibile, biogas/biometano, CCUS e tecnologie di rete – a cui è riconosciuto “un sostegno particolare in termini di agevolazioni ai procedimenti autorizzativi e accesso ai finanziamenti”.

Il solare fotovoltaico è la tecnologia che rischia di più

Passa quindi in rassegna le reazioni dell’industria (par. 3), che “vede di buon grado un processo di espansione della capacità produttiva europea nelle tecnologie net-zero”. Tuttavia, non mancano le critiche: da chi lamenta l’“enfasi alla cattura e stoccaggio della CO2 (16)” o “preoccupazioni per il fatto che non si accenni alle tecnologie di seconda e terza generazione” nucleare o come quelle sollevate “dalle aziende solari europee” per “il rischio che l’aumento della produzione interna possa farne salire i costi”.

A proposito di aspetti finanziari, il quarto capitolo dell’articolo affronta proprio i costi del «made in». “Garantire la resilienza e la competitività dell’Unione non è solo un obiettivo politico ma risponde anche all’urgenza di tutelare l’economia e il tessuto industriale dei Paesi membri rispetto a politiche di stampo protezionistico messe in campo dalle superpotenze. In caso contrario, diverse imprese europee potrebbero essere tentate di delocalizzarsi. Tuttavia, occorre valutare la strada più sostenibile dal punto di vista economico, climatico e di opportunità politica”.

A quale obiettivo dare priorità: climatico, industriale o sociale?

Questione non di poco conto se si considera quanto conclude la stessa Commissione: “L’attuale bilancio dell’UE non dispone di mezzi sufficienti per sostenere gli obiettivi del Net-Zero Industry Act”. Affermazione che “solleva l’altra annosa questione legata all’allentamento delle misure sugli aiuti di Stato”.

Ma vi è un’altra, ancor più importante questione: “la domanda da porsi, quindi, è quale sia l’obiettivo, o gli obiettivi, cui dare priorità: climatico, industriale o sociale. (…) Se l’obiettivo industriale diviene prioritario, dovremmo avere anche chiaro a cosa dovremmo rinunciare (Energia a basso costo? Disparità di bilancio? Una transizione più lenta?) e, soprattutto, esplorare strade che non alimentino le disuguaglianze tra e negli Stati membri dell’Unione Europea”.


Il post presenta l’articolo di Chiara Proietti Silvestri Il piano industriale europeo e l’ondata di «protezionismo verde» pubblicato su ENERGIA 2.23 (pp. 48-53)

Chiara Proietti Silvestri è analista Rie, Ricerche industriali ed energetiche

Foto: Unsplash

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