L’UE ha annunciato un’inchiesta commerciale sull’importazione di auto elettriche prodotte in Cina per il rischio che inondino il mercato europeo grazie agli enormi sussidi che ricevono in patria. Cosa spiega questa “inondazione”? Come funziona il provvedimento annunciato? Quali sono i rischi?
È stata la grande sorpresa del discorso sullo stato dell’Unione: l’annuncio di un’inchiesta commerciale sull’importazione di auto elettriche prodotte in Cina. “I mercati globali sono inondati di auto elettriche cinesi molto economiche. Il loro prezzo è mantenuto artificialmente basso da enormi sussidi statali”, ha detto Ursula von der Leyen.
Ma che cosa significa esattamente? Andiamo con ordine.
Cosa spiega “l’inondazione” delle esportazioni cinesi di auto elettriche? È il mercato, bellezza: domanda globale in crescita, prezzi competitivi, buona qualità ed eccesso di offerta sul mercato interno. I veicoli prodotti in Cina si sono riversati sui mercati stranieri, compreso quello europeo (dove il piano di bandire le auto tradizionali al 2035 alimenta la domanda di elettrico).
Qualche dato: negli ultimi 3 anni le esportazioni di auto cinesi sono cresciute di un fattore 6, raggiungendo i livelli dei primi della classe (Germania e Giappone, figura 1 – fonte The Economist). L’espansione è sostenuta soprattutto dal segmento delle auto elettriche: premesso che in questo caso l’effetto brand legacy è meno rilevante che per le auto tradizionali, per le nuove generazioni – cresciute nell’era di Alibaba – i veicoli cinesi non hanno nulla da invidiare, in termini di rapporto qualità-prezzo, a quelli europei o americani (la conferma è anche nei dati, figura 3).
Sotterfugi o lungimiranza? Breve storia della recente industria automobilistica cinese
Come è stato possibile? Anzitutto, dobbiamo tornare all’inizio degli anni 2000. L’industria automobilistica cinese si trovava in una fase critica: nonostante fosse una potenza nella produzione di auto, non c’erano marchi nazionali che potessero competere con i produttori statunitensi, tedeschi e giapponesi che dominavano il mercato. Le scelte di investimento del governo cinese si sono quindi orientate verso un territorio quasi inesplorato (Tesla nasce nel 2003): le automobili interamente elettriche. Una scelta rischiosa, ma in palio c’era la possibilità di diventare leader in un nuovo segmento dell’industria automobilistica, oltre all’opportunità di risolvere in parte il problema della qualità dell’aria nelle grandi città cinesi.
Inoltre, l’industria nazionale godeva già di alcuni vantaggi non trascurabili derivanti dalla produzione di auto tradizionali: la capacità produttiva, la mano d’opera e le materie prime a basso costo potevano essere dirottate verso il nuovo segmento.
Il piano di Pechino ha agito su diversi fronti: generosi sussidi governativi, agevolazioni fiscali, contratti di appalto per fornitura di mezzi pubblici e piani di ricerca e sviluppo hanno permesso la nascita di numerosi marchi nazionali.
In Cina si può scegliere tra oltre 300 modelli di veicoli full-electric
Nel 2021 in Cina era possibile scegliere tra quasi 300 modelli diversi di veicoli completamente elettrici. Una leggera flessione della domanda interna, legata alla congiuntura economica cinese nel 2022, ha evidenziato un problema di overcapacity (quantificato in circa 10 milioni di veicoli all’anno) che si è riversato sul mercato internazionale.
Proprio la molteplicità di strumenti introdotti dal governo rende difficile quantificare il denaro pubblico investito negli ultimi 20 anni in questo settore. Inoltre, alcune misure sono difficilmente monetizzabili: per esempio, se nelle grandi città cinesi è difficile ottenere la targa per una nuova auto a benzina, il processo di autorizzazione non serve se si decide di acquistare un veicolo elettrico.
Cosa molto importante: l’accesso a questo ecosistema di agevolazioni non è riservato alle aziende cinesi, il che ha facilitato la presenza di marchi stranieri sul territorio, con ulteriori ricadute positive.
Nel complesso, l’impressione è che la Cina abbia chiaramente perseguito per anni un obiettivo strategico ben prima che altri ritenessero si trattasse di qualcosa di importante. Alla fiera I.A.A. Mobility, biennale salone dell’auto a Monaco, i marchi cinesi hanno rubato la scena: mentre i brand europei presentavano modelli elettrici che saranno sul mercato nel 2026, quelli stanno già vendendo in tutta Europa.
Come funziona il provvedimento annunciato?
Come funziona il provvedimento annunciato (e non ancora attivato) dal Presidente della Commissione europea e dove potrebbe portare? Un’indagine del genere dura 13 mesi. Durante questo periodo, la Commissione chiederà alle aziende interessate e al governo cinese di compilare dei questionari. Va detto che il track record di Pechino è tutt’altro che brillante quando si tratta di trasparenza nel modo in cui sovvenziona le aziende.
La Commissione ha nove mesi di tempo per divulgare i risultati e le misure provvisorie che decide di applicare. Al massimo dopo altri quattro mesi, la Commissione dovrà pubblicare le misure definitive che intende adottare. La misura più probabile è l’applicazione di un “dazio compensativo”. Dato che la Commissione stima la differenza di prezzo tra le auto elettriche cinesi ed europee a circa il 20%, questo potrebbe essere un primo indicatore del futuro dazio.
Se venissero approvate, queste tariffe commerciali si applicherebbero a tutti i veicoli elettrici a batteria prodotti in Cina. Ciò significa che le case automobilistiche europee e americane che gestiscono fabbriche con sede in Cina, come Volkswagen, BMW, Mercedes-Benz e Tesla, potrebbero essere costrette a sottostare ai dazi, avendo beneficiato degli aiuti statali cinesi.
Il rischio di una guerra commerciale (e politica)
Questo è uno dei motivi per cui la Francia ha spinto molto per l’avvio dell’indagine, mentre la Germania è stata molto più prudente. Imporre dazi aumenterebbe la possibilità di una guerra commerciale: oltre la metà dell’utile netto di Volkswagen proviene da operazioni cinesi, per BMW la stima è di oltre il 30%.
Non è la prima volta che Bruxelles tenta di limitare i prodotti cinesi sul mercato europeo. Circa dieci anni fa, ci fu un tentativo di applicare misure antidumping sui pannelli solari cinesi. In quell’occasione, la Cina si dimostrò abile nel mettere i paesi dell’UE gli uni contro gli altri e infine Bruxelles abbandonò la misura.
Ad oggi però, lo scenario geopolitico mondiale è profondamente mutato con la guerra in Ucraina e le nuove tensioni con la Cina: l’indagine appare più come una sfida politica che non meramente commerciale.
Anche perché il pericolo della deindustrializzazione europea non viene solo da Oriente. Sul fronte Ovest, grazie all’Inflation Reduction Act, anche gli Stati Uniti hanno iniziato ad ingolosire il comparto delle auto elettriche. Joe Biden ha previsto un investimento di ben 370 miliardi dei quali 135 destinati alla mobilità. Nello specifico, almeno il 50% dei veicoli acquistati dagli statunitensi nel 2030 dovranno essere ad emissioni zero.
Il difficile trade-off tra obiettivi climatici e industriali
La differenza con l’Unione Europea non è soltanto nelle cifre, ma soprattutto nell’approccio: si parte dai finanziamenti per acquirenti e industria, e poi si arriva ai divieti. Condizione per accedere agli incentivi: le auto devono essere prodotte negli Stati Uniti. Secondo indiscrezioni, la Volkswagen starebbe pensando di spostare Oltreoceano la gigafatory prevista inizialmente in Est Europa e, secondo il Financial Times, se lo facesse potrebbe rastrellare 9-10 miliardi di incentivi.
In questa guerra dei sussidi, accerchiata su due fronti, l’Europa è decisamente in ritardo nella composizione di un piano industriale efficace a supporto del Green Deal, nel tentativo di mettere d’accordo tutti gli Stati membri.
Di certo un eventuale dazio verso la Cina non sarebbe nell’interesse dei cittadini europei: l’elevato prezzo di acquisto dei veicoli elettrici è l’ostacolo principale al loro acquisto. Con un bando imminente per le auto diesel e benzina, l’offerta cinese per il consumatore europeo costituisce sicuramente un’opzione interessante. La scelta protezionista di Bruxelles rischia di spazzare via questa possibilità al fine di tutelare un settore industriale che sembra avere fatto finta di non veder arrivare il cambiamento.
L’unica speranza è che questo gap di competitività si chiuda velocemente e che la guerra dei sussidi arrivi ad una tregua: altrimenti i costi della transizione per i cittadini europei rischiano di essere insostenibili.
Stefania Migliavacca è docente di Economia dell’energia e dell’ambiente – Dinamica dei Sistemi presso la Scuola Enrico Mattei
Le opinioni espresse nell’articolo sono personali dell’autore e non rispecchiano il punto di vista dell’azienda per cui lavora.
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