Alberto Clô presenta i contenuti del nuovo trimestrale ENERGIA.
In fondo al testo è possibile scaricare il pdf dell’intera presentazione.
Le politiche climatiche funzionano?
La transizione energetica – che si presume già ampiamente in atto nonostante la quota delle fossili resti invariata a fronte di un continuo aumento dei consumi – assume che le politiche climatiche possano ridurre dall’alto la dinamica delle emissioni rivoluzionando l’intero sistema economico ed energetico. Le soluzioni sinora individuate si riducono sostanzialmente al sostegno alle rinnovabili elettriche – e ai relativi interessi costituiti – con la parallela estromissione delle fossili. Soluzione necessaria ma tutt’altro che sufficiente, essendo logicamente necessario agire preventivamente sul versante della domanda. Resta il fatto che le emissioni continuano imperterrite a crescere. Secondo un recente report di International Energy Forum e S&P Global Commodity Insights, gli attuali Nationally Determined Contributions potrebbero ridurre le emissioni al 2030 (rispetto al 2019) di appena il 10% contro il 43% raccomandato dall’IPCC (1). Quel che porta a ritenere che i governi, le politiche, stiano facendo troppo poco contro quella che viene indicata come emergenza climatica. Necessita, si sostiene, un’azione della politica, vagamente intesa e si presume in linea con quella sinora seguita, ben più determinata e aggressiva. Senza però chiedersi se essa possa dirsi efficiente ed efficace. A questa domanda mira a rispondere l’approfondita analisi quantitativa di Enzo Di Giulio e Stefania Migliavacca. Perentoria e fuori dal pensiero dominante la loro conclusione: le politiche sinora seguite hanno contato poco nella transizione energetica, che la storia insegna essere influenzata soprattutto dalle forze dell’economia, della convenienza, della tecnologia. In una parola: del mercato. «Le policy – scrivono gli Autori – non stanno funzionando e non ci stanno affatto avvicinando al target net zero». A partire da quella europea la cui performance, a guardare i dati, non è migliore né di quella cinese né di quella americana. Quelli relativi al settore elettrico dimostrano che il suo processo di decarbonizzazione (sintetizzabile nell’indicatore della intensità carbonica) è più celere negli Stati Uniti rispetto all’Europa, che pur vanta, a suo dire, una posizione di leadership nella lotta ai cambiamenti climatici, con impiego di grandi masse di denaro a fronte però di risultati meno positivi rispetto ad altri paesi. L’analisi sfata molti luoghi comuni e falsi convincimenti, a partire dall’idea che i paesi ricchi stiano decarbonizzando più dei paesi emergenti; che l’Europa stia facendo meglio di altre aree, ad iniziare dagli Stati Uniti; che le politiche climatiche siano essenziali nel ridurre le emissioni. Un’analisi che dovrebbe portare a riflettere criticamente sugli strumenti di cui sinora esse si sono avvalse e sulla possibilità di conseguire in tempi brevi obiettivi sempre più ambiziosi. Ed è quello che si appresteranno a fare i consumatori-elettori europei in vista della scadenza elettorale del giugno 2024 ove, nell’opinione di chi scrive, le politiche climatiche costituiranno la cartina di tornasole della loro valutazione di questa legislatura. Le politiche, in sostanza, guidano la transizione energetica meno di quel che comunemente si crede, eppure vanno pesando sempre più sulle tasche dei consumatori così come sui conti delle imprese. La possibilità ora di esprimersi dei consumatori-elettori porta a prefigurare un possibile sostanziale cambiamento del vento che sinora ha favorito i movimenti ambientalisti e il dogmatismo climatico dei vertici dell’Unione. Se la speranza è che le future politiche climatiche europee siano improntate a un maggior pragmatismo e attenzione all’accettabilità e alle ricadute sociali, non può escludersi che un eventuale «vento di destra» sia effettivamente in grado di raccogliere il testimone per affrontare con maggior efficacia le sfide che ci si pongono innanzi. Quattro ne individua nel suo articolo il vincitore del Premio Pulitzer Daniel Yergin, nessuna delle quali facile da affrontare: sicurezza energetica, tempistiche e impatti macroeconomici, divario Nord-Sud, nuove filiere dei minerali. Ostacoli nel percorso di transizione che, interagendo tra loro, possono aggravare i rispettivi impatti. A parere di Yergin, l’attuale transizione è altro da quelle precedenti in quanto al traino della politica e non della tecnologia e dell’economia. Rivoluzionare le fondamenta energetiche di un’economia globale che l’Autore stima in 100 trilioni di dollari può creare sconvolgimenti macroeconomici di cui poco si sta tenendo conto, così come dei diversi punti di vista dei paesi in gioco e dell’impatto delle nuove politiche industriali. Che singoli paesi, o raggruppamenti di paesi, siano in grado di riuscirci nei tempi desiderati è obiettivo difficilmente realizzabile. Che ci possano riuscire senza adeguate analisi macroeconomiche e di impatto geopolitico è semplicemente utopia. Ed è proprio una notizia recente a mantenere alta, dopo la crisi del gas russo, l’attenzione sul tema della sicurezza energetica, questa volta per le sue implicazioni future connesse alla transizione energetica: la decisione cinese di limitare l’export di gallio e germanio, che Francesco Sassi analizza attraverso la lente della teoria delle relazioni internazionali per interrogarsi se quella che lega i paesi nell’ambito delle materie prime critiche sia un’interdipendenza economica «fragile», e quindi reversibile al mutare degli interessi e delle condizioni, o al contrario «complessa», ovvero che non vi sia possibilità per i paesi consumatori di affrancarsi, per lo meno in tempi utili, dalla posizione dominante cinese neppure se questa decidesse di innescare ulteriormente l’arma energetica.
Riforma del mercato elettrico: un’Unione più che mai disunita
Uno dei temi centrali in questo numero è la riforma del design del mercato elettrico europeo a partire dalla proposta della Commissione che muove dal riconoscimento che il modello del system marginal pricing – utilizzato dalla maggior parte dei paesi europei e poi inserito nella legislazione comunitaria – è da preservare offrendo segnali di prezzo efficaci garantendo – si sostiene – efficienza e trasparenza. Nel parere di Luca Franza e Giacomo Spinola a queste finalità si è aggiunta la necessità, da un lato, di ridurre la volatilità dei prezzi e, dall’altro, di stimolare gli investimenti nelle rinnovabili per raggiungere target sempre più ambiziosi (nel settore elettrico passare da una loro quota del 39,4% nel 2022 al 69% nel 2030). Rispetto alle proposte più radicali emerse nel 2022, quella della Commissione – che si regge su tre pilastri: sostegno alle misure di flessibilità, sostegno diretto ai consumatori, misure per facilitare la contrattualizzazione di lungo termine – riesce nell’esercizio di equilibrismo tra innovazione e mantenimento dell’architettura del mercato liberalizzato. La proposta approdata in Parlamento e Consiglio ha assunto una valenza politica più forte, facendo emergere le profonde diversità di posizione tra i diversi paesi, specie tra Francia e Germania. Parzialmente favorevole alla proposta della Commissione è Dominique Finon, che la ritiene un passo nella giusta direzione, ma migliorabile. Nel suo articolo, propone un modello di mercato che ritiene possa meglio supportare la transizione energetica proteggendo i consumatori dall’estrema volatilità dei prezzi, accoppiando quelli al consumo con i costi di lungo termine e preservando l’ottimizzazione attraverso il sistema dei prezzi spot. Il modello dell’Acquirente Centrale garantisce, a suo dire, una maggior efficienza mentre non è incompatibile con le regole europee in materia di mercato e concorrenza. L’obbligo ad acquistare la maggior parte della elettricità all’ingrosso assegnato all’organismo pubblico lo rende peraltro più difficile da accettare dai difensori del mercato ad ogni prezzo. Nel ridisegno del mercato elettrico europeo l’Unione Europea è dunque fortemente disunita, come emerge anche dall’arguta analisi di GB Zorzoli che critica le dodici opinioni, inclusa quella dello stesso Finon, pubblicate sull’«Oxford Energy Forum» dell’Oxford Institute of Energy Studies contestando l’ampia riluttanza che ne emerge verso qualsiasi cambiamento dell’attuale modello di mercato europeo così perdurando le criticità che ha ampiamente evidenziato.
La priorità continuano ad essere le reti
Prodromico ad ogni strategia sul mercato elettrico e sulla transizione energetica basata essenzialmente sulla penetrazione delle rinnovabili è il processo di adattamento e di sviluppo delle reti elettriche. In un saggio sull’ultimo numero di «Energia» dello scorso anno, Giovanni Goldoni esaminò in linea teorica e pratica le prevedibili diseconomie che sarebbero sorte dall’accelerazione della penetrazione delle rinnovabili prima di aver adattato le reti di trasmissione centrale e finale. Sarebbe, scrivemmo, come «mettere il carro davanti ai buoi». In questo numero, Guido Guida riporta la strategia che l’operatore di sistema, Terna, si è data col piano di sviluppo da 21 miliardi di euro di investimenti nei prossimi dieci anni per raddoppiare la capacità di scambio di energia elettrica tra le zone interne di mercato e aumentando ulteriormente l’interconnessione con l’estero, soprattutto nel Sud del Paese. Determinante ai fini della transizione energetica, come emerge dall’articolo di Ercole De Luca, è il ruolo dei distributori di elettricità in grado di realizzare reti intelligenti (flessibilità, riconfigurabilità, controllabilità) capaci di gestire queste nuove funzionalità, senza però implicare massivi investimenti che, ripercuotendosi sul costo energetico, di fatto rappresenterebbero un ostacolo alla transizione stessa. In grado, infine, di assorbire l’impatto della mobilità elettrica con vetture full electric che i documenti governativi sostengono possano salire a 6 milioni di unità nel 2030 e 9 milioni nel 2040 (rispetto alle sole 50 mila vendute nel 2022). Obiettivo del tutto inverosimile. Con un enorme impatto sul profilo di carico aggiuntivo, con un aumento della variabilità giornaliera della domanda di potenza. L’evoluzione della transizione energetica potrà generare degli impatti significativi sulla gestione delle reti, in particolare in termini di: maggiore necessità di previsione e governo dei carichi; eccessiva anticipazione di investimenti rispetto all’effettivo momento di utilizzo significativo dell’asset stesso; uso inefficiente degli asset se dimensionati per soddisfare il nuovo picco di potenza richiesto dalla mobilità elettrica e dalla generazione distribuita; aumento del rischio di congestionamento della rete di distribuzione. Problematiche di cui si dovrà tener conto nella prevista gara per il rinnovo delle concessioni di distribuzione, la cui scadenza è fissata per il 31 dicembre 2030, ma il da farsi deve essere deciso almeno cinque anni prima, come emerso nel dibattito che abbiamo ritenuto opportuno aprire su «Energia» nel 2021 (2).
Energia, palla al piede dell’economia italiana
L’energia continua ad essere una palla al piede per l’economia italiana, come emerge dalla relazione annuale del MASE sulla situazione energetica del Paese (3). Ai sentimenti di sollievo per il permanere di bassi prezzi del gas naturale, oggi un decimo delle punte di un anno fa, si contrappongono preoccupazioni per la risalita di quelli del petrolio – che nel 2022 ha assicurato circa il 36% dei nostri fabbisogni energetici – di oltre 10 dollari al barile superando gli 85,0 dollari al barile. Parallelo è stato l’impatto sui prezzi derivati, ad iniziare da quelli della benzina, ormai a 2 euro/litro, mentre il Governo, poco consapevole sui criteri di formazione dei prezzi, si affanna a porvi rimedio imponendo un’insignificante «cartellonistica» sui loro livelli medi nel territorio. La palla al piede è riconducibile al perdurante dominio delle fonti fossili nel mix energetico (oltre 78% nel 2022) nonostante la sostenuta crescita delle rinnovabili elettriche. Lo è nel confronto con le altre maggiori economie europee meno dipendenti di noi dalle importazioni (aumentate sui consumi nel 2022 di circa sette punti all’80%) e più determinate ad accrescere la loro produzione energetica interna: si tratti di nucleare in Francia o del carbone in Germania. La produzione nazionale di petrolio e gas è invece ulteriormente e paradossalmente calata (dell’8%) nonostante gli effimeri impegni dei governi, ad iniziare da quello Draghi, a volerla aumentare. Il tutto a beneficio della Croazia che nell’Alto Adriatico vede l’Eni come operatore nell’estrazione di gas dai nostri giacimenti. Riluttante a farlo in casa nostra, ma disponibilissima ad impegnarsi nell’altra costa dell’Adriatico. Una politica del gruppo attenta alle possibili critiche dei movimenti ambientalisti e funzionale alla sua strategia sempre più orientata ai business verdi – riflessa nella sua campagna di comunicazione tutta incentrata su pale eoliche e panelli solari – con effetti negativi sulla sua redditività e tale da non arrestare la perdita del valore del titolo in atto da lungo tempo e più che dimezzato dai primi anni Duemila, nonostante i prezzi del petrolio fossero meno di un terzo di quelli attuali. Nel 2022 la crisi si è ulteriormente aggravata, con un aumento della «povertà energetica», indicata come quota della popolazione non in grado di riscaldare la propria abitazione, all’8,8% (oltre 2 milioni di famiglie). Nel 2021 la spesa per l’energia pesava mediamente per le famiglie italiane oltre il 10% del reddito disponibile (4). Altra nota dolente è il divario dei prezzi dell’energia rispetto ai valori medi europei aumentato per l’elettricità dai 118 punti percentuali del 2021 ai 145,8 nel 2022 e per il gas da 86 a 115 punti. Un indubbio incentivo a delocalizzarsi all’estero. Grave poi l’impatto sui conti con l’estero. Secondo l’articolo di Giacomo Romanini ed Enrico Tosti di Banca d’Italia, nel 2022 il disavanzo energetico dell’Italia ha toccato il picco del 5,4% del PIL, il secondo valore più alto dal 1981, quando, a seguito delle due crisi petrolifere degli anni Settanta, aveva raggiunto il 5,8%. L’impatto sul PIL nel 2021 è stato tuttavia di quasi 3 punti superiore: più di quanto osservato nelle passate crisi. La lezione da trarre dalle traumatiche e ancora non superate vicende dell’anno scorso è che energy matters: ciò di cui le politiche nazionali non sembrano aver adeguata contezza. Pur nella consapevolezza dei limiti che l’energia pone allo sviluppo e alla competitività della nostra economia, non possono tuttavia sottacersi le opportunità che la transizione offre alle imprese – che ne sono a loro volta il vero driver – in termini di investimenti e di efficientamento dei processi produttivi. Cruciale a tal fine è l’accesso al credito (pubblico e privato), come illustra Paolo Melone nell’articolo sulla strategia del gruppo Intesa Sanpaolo nel contesto italiano e sugli strumenti di finanziamento che il sistema bancario ha sviluppato a supporto delle imprese.
a.c.
Bologna, 8 settembre 2023
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