Guasti superiori al previsto, inflazione, mancate economie di scala sono tre fattori che soffiano contro lo sviluppo atteso dell’eolico, tecnologia ritenuta matura e chiave per il raggiungimento degli obiettivi net zero, ma la cui esperienza ci ricorda l’importanza di interrogarsi costantemente sugli impatti delle soluzioni che adottiamo.
“Ragione, io ti sacrifico alla brezza della sera.”
Aimé Césaire
Immersi come siamo nell’era del “global boiling”, per dirlo con un’iperbole comunicativa cui ci ha abituato il Segretario Generale delle Nazioni Uniti Antonio Gutèrres, vale la pena ricordarlo: spesso l’impresa che chiamiamo “tecnologia” è accompagnata da narrazioni avvincenti e sensazionalistiche.
Alcuni di noi sono tentati di assecondarle a fin di bene, per aumentare il senso di urgenza e far sì che i governi, le aziende e le società nel loro insieme si muovano più in fretta. Il rischio, però, è di urtare contro la realtà, che purtroppo ha la testa dura e quindi insiste sul fatto che tutti i dettagli tecnici siano a posto. Dettagli che, come vedremo, possono costare anche 4,5 miliardi di euro.
Con riferimento alle tecnologie low carbon per produrre energia, quando parliamo di soluzioni pionieristiche o di frontiera – quelle sulla cui curva di apprendimento dobbiamo ancora inerpicarci – istintivamente pensiamo al nucleare di ultima generazione o alla cattura della CO2.
L’eolico lo citiamo invece come esempio di tecnologia ormai matura, sotto controllo. L’idea è che lì non abbiamo più nulla di importante, di sostanziale da imparare: gli obiettivi che ci siamo prefissi sono facilmente raggiungibili e a portata di mano, fare deployment (quando, quanto, dove) è “solo” un dettaglio.
Insomma: roba noiosa per i decisori politici. Frattanto, le migliori menti dedite all’ingegneria passino pure al prossimo problema: circolare, qui non c’è (più) niente da vedere.
Da qualche mese, però, stiamo scoprendo che non è così semplice.
“The bigger, the better”, il motto di una fonte dalla bassa densità energetica
Il primo ordine di ragioni è tecnologico, o costruttivo. Il motto dell’eolico, infatti, è “the bigger, the better” e basta guardare i dati per convincersene: per le turbine onshore, in soli 20 anni il diametro medio del rotore è passato da ca. 58 metri (2000) a 90 metri (2020), grossomodo l’altezza della Statua della Libertà a Manhattan.
Questo sforzo nasce dalla volontà di superare una delle fondamentali sfide tecnologiche per l’eolico: l’intrinseca bassa densità energetica. Il vento, infatti, è una fonte “diluita”. Per gli operatori dei parchi eolici è cruciale garantire una produzione “economicamente sostenibile”: ossia garantire che l’impianto generi, nel corso della sua vita utile, abbastanza MWh da ripagare il costo dell’investimento iniziale (CAPEX).
15-30%, il tasso di guasto (più alto del previsto) del parco eolico di Siemens Gamesa
Poiché l’energia prodotta è direttamente proporzionale all’area spazzata dal rotore, un modo per raggiungere il target consiste appunto nell’aumentare le dimensioni delle pale, ormai lunghe anche 100 metri, con velocità che toccano i 320 km/h sulle estremità.
Guasti elettrici, meccanici e delle pale sono comuni e costosi, così come lo sono le attività di manutenzione necessarie a garantire un buon funzionamento delle turbine. Affrontare questi limiti costruttivi è una sfida ingegneristica impegnativa.
Di recente, Siemens Gamesa, la divisione di Siemens Energy che si occupa di turbine eoliche, ha fatto sapere di aver riscontrato importanti difetti di qualità a più livelli sulle pale e sui rotori. Questi difetti espongono a tassi di guasto più alti del previsto in una forbice che va dal 15 al 30% delle turbine che costituiscono la flotta attualmente installata (132 GW).
Per rimediare, è stata avviata un’ampia revisione tecnica sulla flotta in esercizio e sul design dei nuovi prodotti. Siemens Energy ha ritirato la profit guidance, prevedendo una perdita di 4,5 miliardi di euro. L’azienda ha reso noto che “per raggiungere i livelli di qualità desiderati, sono necessari costi significativamente più alti del previsto”.
40% l’aumento del dei costi dovuto all’inflazione
A questo, si è sommato un secondo fattore: il contingente e repentino aumento dei costi (ca. 40% in un anno). I progetti infatti richiedono quantità enormi di cemento, acciaio, resine plastiche ad alte prestazioni, materiali di rinforzo in vetroresina o fibra di carbonio, magneti permanenti a base di terre rare e lubrificanti di alta gamma: non sorprende, quindi, che i costi siano suscettibili alle dinamiche dell’inflazione, in particolare al prezzo del petrolio.
Infine, ad aggravare ulteriormente il problema, c’è stato anche un terzo fattore: il modo in cui l’industria dell’eolico sta crescendo. Si tratta di un settore ancora relativamente giovane in cui gli standard si stanno gradualmente cristallizzando. Per questo, molti sviluppatori hanno accettato di localizzare pezzi delle catene di approvvigionamento in Stati, province e città: se da un lato questo ha assicurato sostegno politico ai nuovi progetti, dall’altro ha reso meno facile realizzare i vantaggi legati alle economie di scala.
I risultati non hanno tardato a farsi vedere all’ultima asta annuale per incentivi alle rinnovabili nel Regno Unito: paese leader europeo nell’eolico, in particolar modo nel settore offshore, e secondo solo alla Cina per capacità installata.
La delusione anglosassone
A dispetto dell’impegno preso dal governo ad aumentare questa capacità a 50 GW entro il 2030, l’asta ha deluso le aspettative perché non è stato garantito un prezzo unitario sufficientemente alto per l’elettricità prodotta. Questo ha creato ulteriore incertezza sulle revenue future per gli sviluppatori del settore, che affrontano in anticipo gli elevati costi di cui sopra.
La situazione non migliora oltreoceano, negli Stati Uniti, dove per molti progetti gli operatori stanno chiedendo di rinegoziare gli strike prices, cioè i prezzi di esercizio per MWh prodotto. In altri casi, le aziende hanno preferito addirittura pagare consistenti penali di rescissione e rinunciare agli impegni presi, piuttosto che affrontare le perdite finanziarie attese realizzando i progetti in questione.
Scenario preoccupante, visto che l’eolico riveste al momento un ruolo chiave nelle traiettorie di decarbonizzazione. Secondo i dati IEA, nell’ipotesi Net Zero l’eolico dovrebbe generare 7.400 TWh al 2030 (rispetto agli attuali 2.380 TWh), quindi crescere circa del 17% all’anno.
Se la speranza è che l’industria trovi presto il modo di superare queste difficoltà, la vicenda ci mostra come affrontare il cambiamento climatico implichi fare deployment di tecnologie sotto molti aspetti nuove, in contesti di grande incertezza.
I dettagli tecnici contano
In più, la nostra runway, la pista di decollo, è corta. Quindi ha senso interrogarci costantemente sugli impatti delle soluzioni che adottiamo: ci aiuta a capire se fare pivot o perseverare. Forse la sfida più importante è quella di rimanere ottimisti, continuando a provare e tenendo però a mente che il successo è solo uno dei possibili esiti di questo incessante sforzo di innovazione. Set-back e battute di arresto possono esserci anche decenni dopo le prime applicazioni commerciali.
I dettagli tecnici contano. In questo, il cambiamento climatico non è certo un inedito.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il Sacro Graal di cui le migliori menti dell’epoca erano alla ricerca era la teoria del campo unificato, o Teoria del Tutto in grado di conciliare la meccanica quantistica con la relatività generale. Nel 1958, il fisico Werner Heisenberg annunciò nel corso di un programma radiofonico di esserci riuscito e di dover “solo mettere a punto i dettagli tecnici”.
Questa uscita irritò moltissimo Wolfgang Pauli, che la commentò ironicamente in una lettera indirizzata al collega George Gamow. Sopra a un semplice rettangolo tracciato con la matita nera, Pauli scrisse: “Questo è per mostrare al mondo che riesco a dipingere come Tiziano: mancano solo i dettagli tecnici”.
Emiliano Morgia è responsabile ambientale per l’Europa presso Fluence Energy
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Foto: Jan Jansson: Map of the Winds, circa 1650
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