6 Ottobre 2023

50 anni fa la prima crisi petrolifera, cosa abbiamo imparato?

LinkedInTwitterFacebookEmailPrint

Il 6 ottobre 1973 iniziava la guerra dello Yom Kippur che in pochi giorni segnò una discontinuità nella storia moderna dell’energia, non solo del petrolio. A 50 anni da quegli eventi, un nuovo shock energetico minaccia l’UE: l’errata convinzione di non aver più bisogno del petrolio a fronte della consapevolezza dei paesi arabi della strategicità delle loro riserve.

Era il 1972 il Club di Roma pubblicava il “Rapporto Meadows” intitolato The Limits to Growth, stampato in 30 milioni di copie e tradotto in una trentina di lingue, segnando un’intera generazione. Sulla base di modelli, predisse l’esaurimento delle riserve petrolifere entro il 2000. Tutti ci credevano, anche io, tanto che fui spinto a fare un dottorato in questo campo.

Questo famoso report commissionato dal Club di Roma viene ancora esaltato dai sostenitori della decrescita, nonostante le sue previsioni si siano rivelate false. Perfino Ursula von der Leyen ha dichiarato al Parlamento europeo il 15 maggio che il Club di Roma ci aveva avvertito di fermare la crescita economica e demografica.

La pesante eredità del report “I limiti dello sviluppo”

Il colonnello libico Muammar Gheddafi aveva spodestato il re Idriss appena tre anni prima e nazionalizzato l’industria petrolifera. La produzione era però in calo e la rivoluzione aveva bisogno di soldi: serviva un prezzo del petrolio più elevato per sostenerla. Il colonnello approfitto del timore suscitato dal Club di Roma che il petrolio finisse nel 2000 per convincere gli altri paesi arabi ad aumentare il prezzo del greggio. L’occasione perfetta per utilizzare le riserve per influenzare la politica occidentale nei confronti di Israele.

Il 6 ottobre 1973, giorno della grande festa ebraica dello Yom Kippur (la “Grande Espiazione”), Egitto e Siria attaccarono Israele per costringerlo a restituire i territori conquistati durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967. Il prezzo del greggio salì alle stelle.

Per costringere i paesi occidentali a fare pressione su Israele, dieci giorni dopo l’inizio della guerra, i paesi arabi produttori di petrolio (l’OAPEC, non l’OPEC) aumentarono il prezzo del 70% e ridussero del 5% le esportazioni annue di petrolio verso Europa e America – in particolare Stati Uniti, Paesi Bassi, Portogallo e Sud Africa – “fino al completo ritiro di Israele dai territori arabi occupati nel 1967 e al ripristino dei diritti del popolo palestinese”.

Le conseguenze della crisi del 1973 e la risposta dell’Europa

Alla fine del conflitto, il 23 ottobre, l’OPEC aveva ridotto la produzione del 25%. Le conseguenze furono immediate. Il segnale più tangibile di questo primo shock petrolifero fu una seria impennata dell’inflazione. La spesa energetica accelerava la crisi economica che aveva colpito l’Europa: la recessione interruppe bruscamente la crescita economica dei Trent’anni gloriosi; la produzione industriale diminuì, i settori economici tradizionali furono colpiti direttamente e aumentarono i fallimenti. I paesi in via di sviluppo dovettero indebitarsi e continuare a pagare gli interessi sui loro debiti.

Come nel 2022 e nel 2023, l’aumento dei prezzi dell’energia colpì duramente l’economia.

Ma i paesi dell’OCSE si riorganizzarono rapidamente creando l’Agenzia Internazionale per l’Energia. I governi reagirono alla riduzione del consumo di prodotti petroliferi decretando le famose domeniche senza auto, la prima delle quali ebbe luogo il 18 novembre 1973. Valéry Giscard d’Estaing, allora Ministro francese delle Finanze, lanciò l’ora invernale e lo slogan “In Francia non abbiamo petrolio, ma abbiamo idee”. La gestione energetica divenne questione pubblica importante, molto prima che si parlasse di cambiamento climatico di origine antropica.

Valéry Giscard d’Estaing e lo slogan “In Francia non abbiamo petrolio, ma abbiamo idee”

Tali circostanze hanno portato a un’intensificazione della ricerca petrolifera e al lancio di una vasta campagna esplorativa in molti paesi produttori, tradizionali e non.

Allo stesso tempo si cercarono alternative al petrolio, come ad esempio l’etanolo ricavato dalla canna da zucchero in Brasile. La Commissione europea lanciò il programma dimostrativo “petrolio e gas” per lo sviluppo tecnologico, che ha portato alla produzione nel Mare del Nord (per approfondire questa storia di successo rimando al mio libro Energy insecurity: The organised destruction of the EU’s competitiveness). Dobbiamo a queste iniziative il successo del controshock petrolifero della metà degli anni ’80, che riportò i prezzi del petrolio a livelli ragionevoli. Gli ambientalisti si sono affrettati a distruggere questo programma una volta entrati al Parlamento europeo.

2023 come il 1973?

Quali lezioni possiamo imparare dalla crisi petrolifera? Innanzitutto, non credere ciecamente ai modelli. I modelli IPCC ci dicono che dobbiamo decarbonizzare. Eppure, questi stessi modelli che prevedono la temperatura nel 2100 finora sono stati smentiti. Dal momento che un computer non può predire il futuro, perché definire politiche punitive e radicali basate su queste proiezioni?

Molte persone – sempre meno in verità – continuano a crederci e spingono l’UE ad adottare una politica di decrescita volontaria o involontaria. Si pensi che in un’università che conosco bene si sta valutando di penalizzare i ricercatori che viaggiano per condividere il proprio lavoro e scambiare idee con altri ricercatori.

In secondo luogo, bisogna proseguire la ricerca tecnologica, anche nel campo degli idrocarburi, che resterà essenziale perché – dopo decenni di sovvenzioni e molteplici sostegni – l’energia primaria prodotta da turbine eoliche e pannelli solari rappresenta solo il 3% del totale, e non potranno avvicinarsi al 100% né nel 2050 né successivamente.

Sostenere il contrario è difficilmente credibile. Furono le nuove tecnologie dell’epoca – produzione di idrocarburi ed energia nucleare – che permisero di mettere a tacere la geopolitica della paura. Non c’è motivo di disperare della capacità degli ingegneri di trovare soluzioni ai problemi che continueremo a incontrare.

Ancora più preoccupante è il fatto che le banche dell’UE sono riluttanti a finanziare progetti energetici convenzionali per paura di incorrere nell’ira delle ONG ambientaliste. Riducono, o addirittura interrompono, il finanziamento di progetti essenziali per il futuro; è il caso, ad esempio, di BNP e Société Générale, che amano apparire verdi. D’altro canto, le banche extra-UE investono pesantemente nei settori vitali del petrolio e del gas, perché non sono soggette al controllo delle ONG ambientaliste.

Se il Parlamento europeo non cambierà posizione dopo le elezioni del 9 giugno 2024, ricadremo in una trappola simile a quella del 1973. All’epoca non sapevamo che il Club di Roma aveva torto. Oggi lo sappiamo. Ci sono abbastanza esperti energetici nel mondo per denunciare la farsa della decarbonizzazione. È tempo di agire se vogliamo evitare uno shock, ma questa volta non sarà globale come nel 1973, ma limitato alla verde UE. E questo shock sarà molto più terribile di quello di 50 anni fa, perché il resto del mondo, incoraggiato dai BRICS+, si sta lanciando con entusiasmo verso le energie convenzionali.


Samuele Furfari, Professor of energy geopolitics, ESCP Business School


Foto: National Archives


0 Commenti

Nessun commento presente.


Login