La IEA vede il declino dei fossili come prossimo; l’OPEC ritiene che questa edulcorata narrazione porterà più guai che benefici. Chi ha ragione? Nessuno ed entrambi.
La recente querelle tra IEA e OPEC sullo scenario energetico del prossimo decennio sintetizza, a parole, il bivio di fronte al quale il genere umano si trova.
Da una parte, il Direttore Esecutivo dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Fatih Birol che, in articolo sul Financial Times molto ripreso e citato, congettura il picco contestuale, mai verificatosi prima, nella domanda di carbone, petrolio e gas nel decennio corrente.
Dall’altra, il Segretario Generale dell’OPEC, Haitham Al Ghais, che sottolinea come la narrazione della IEA non faccia altro che portare il sistema energetico internazionale a fallire in modo spettacolare.
E spettacolare è la contesa stessa che vede due istituzioni cardine dell’establishment internazionale proporre visioni ortogonali sul futuro prossimo. Chi ha ragione dei due? Nessuno ed entrambi.
In entrambe le visioni si nasconde la comprensione, almeno parziale, di un pezzo di verità insita nell’altrui punto di vista
Si potrebbe dire che la IEA esalta la derivata prima dei trend, mentre l’OPEC si concentra sulla media di lungo periodo. Di qui quel suo sottolineare la sostanziale stabilità del mix energetico con i combustibili fossili che continuano a rappresentare l’80% del totale, come 30 anni fa.
E tuttavia, in entrambe le visioni si nasconde la comprensione, almeno parziale, di un pezzo di verità insita nell’altrui punto di vista. Per questo Birol non esita a sottolineare – contrariamente a quanto accade nel famoso report Net Zero Emissions del maggio 2021 – l’esigenza di investimenti nel petrolio e nel gas poiché il declino naturale dei campi esistenti può essere molto rapido.
Specularmente, l’OPEC coglie l’importanza dell’obiettivo di riduzione delle emissioni, evidenziando come il progresso tecnologico dell’industria fossile continui a realizzare soluzioni che già oggi aiutano a ridurre le emissioni.
Dunque, dobbiamo continuare a fornire energia e, nello stesso tempo, le emissioni vanno ridotte. Ma essendo l’energia fossile intorno all’80% è chiaro che se la domanda si espande senza che la quota dei fossili diminuisca, le emissioni crescono proporzionalmente. Non solo, se anche la quota dei fossili diminuisse in un contesto di forte domanda di energia, vi sarebbe sempre la possibilità che le emissioni crescano.
Solo una crescita delle fonti a zero emissioni maggiore dell’incremento di domanda può portare a una contrazione delle emissioni su base annua
Affinché le emissioni decrescano, occorre che si verifichi una delle seguenti condizioni, o entrambe: la prima è che la domanda di energia diminuisca, anche a mix invariato. Ciò è altamente improbabile poiché tutti gli scenari evidenziano la crescente fame di energia dei paesi, trainata dalla doppia espansione demografica ed economica.
La seconda è che la domanda alimentata da fonti fossili si riduca progressivamente e che gli incrementi di domanda siano soddisfatti in misura superiore al 100% da rinnovabili e/o nucleare. Solo una crescita delle fonti a zero emissioni maggiore dell’incremento di domanda può portare a una contrazione delle emissioni su base annua.
Ora, Birol ci dice che la prima volta la IEA scorge questa diminuzione e che essa si verificherà nel decennio corrente. Il punto è assai sottile ed è quasi un artificio comunicativo: da tempo l’Agenzia di Parigi ci dice che la quota dei fossili sta già diminuendo e che manca assai poco alla contrazione della domanda assoluta di fonti fossili.
La IEA vede il calo delle fossili avviarsi ancor prima del 2030
L’ultimo WEO, dello scorso anno, è stato assai chiaro su questo punto: il grafico 1.9, che propone lo scenario STEPS basato sulle policy già dichiarate dai paesi, mostra tanto la diminuzione avviata da circa un decennio della quota combinata di carbone, petrolio e gas, quanto la contrazione dei volumi assoluti a partire da… prima del 2030.
Dunque, ciò che leggiamo sul Financial Times non è messaggio nuovo e stupisce il clamore che l’articolo ha suscitato nell’etere mondiale. O forse no, considerata la vocazione allo strillo della modernità. L’unica novità che esso contiene è che tutte e tre le fonti, e non solo il carbone, diminuiranno prima del 2030. Dal punto di vista dei numeri, che Birol però non cita sul FT, sembra cambiare poco. Il prossimo WEO ci dirà se è così.
Lo scenario ipotizzato sul FT ricorda molto quello fatto dalla stessa IEA verso i primi anni 2000 che ipotizzava la diminuzione delle emissioni di anidride carbonica nei paesi OCSE. All’epoca lo scenario appariva piuttosto improbabile perché il trend dell’area OCSE era stato sempre in ascesa: i fatti, però, quella volta diedero ragione all’Agenzia di Parigi perché, a un certo punto – complice anche la crisi economica del 2008 – le emissioni cominciarono realmente a scendere. Ciò, tuttavia, non significa che la recente esternazione della IEA abbia un contenuto rivoluzionario.
Più del simbolismo contano i numeri
Tutt’altro, poiché più del simbolismo insito nell’ipotizzata contrazione simultanea dei tre fossili, contano i numeri. E ce lo insegna proprio la storia delle emissioni dei paesi OCSE, per i quali il decoupling reddito-emissioni realizzato da tempo è buona cosa ma rimane ancora troppo debole.
Cosa dicono i numeri? Che tra il 2010 e il 2021 le emissioni OCSE generate dall’uso dei fossili sono diminuite dell’1,2% annuo, con una lieve accelerazione nella seconda metà del periodo (2015-2021: 1,3%).
È sufficiente un semplice calcolo per comprendere che questo ritmo è del tutto insufficiente per decarbonizzare l’economia OCSE. Per portare le emissioni non a zero, ma diciamo al 20% di quanto sono oggi, anche immaginando diminuzioni dei volumi costanti negli anni – e quindi una crescita accelerata dei tassi – occorrerebbe una sessantina di anni.
Dunque, dire che c’è un picco – tra l’altro ancora di là da venire – è dire molto poco. Il clamore della retorica della fine dell’era dei fossili svanisce come vapore sotto il getto potente dei numeri. E d’altra parte Fatih Birol è ben consapevole di quanto stretta sia la via verso net zero e di come l’ipotizzato declino nella domanda dei fossili sia insufficiente a centrare il target.
Nel già citato articolo, egli infatti aggiunge: “i cali previsti della domanda che vediamo sulla base delle impostazioni politiche odierne non sono affatto abbastanza forti da mettere il mondo sulla strada per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C. Ciò richiederà un’azione politica significativamente più forte e più rapida da parte dei governi”. Più chiaro di così!
Alcuni lo dicono e lo pensano, altri lo dicono e nell’intimo lo negano
Ma non è tutto. C’è da ritenere che la pendenza della discesa delle emissioni mondiali sarà ben più lieve di quella, già di per sé fiacca, dell’OCSE. Infatti, mentre per quest’ultima area si realizzava il già citato calo dell’1,2% annuo nel periodo 2010-2021, nei paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) le emissioni aumentavano a un ritmo doppio (+2,4%). Il risultato di questi due trend contrapposti è rappresentato nel grafico seguente, che sembra volerci dire che la fine dell’era dei fossili è ancora di là da venire.
Vi sono crepuscoli che sono attimi e altri che durano secoli, come la storia di Roma insegna. Certo, l’orchestra ha cambiato spartito e i suonatori dicono che il rock fossile non è più di moda e che è tempo di altro. Alcuni lo dicono e lo pensano, altri lo dicono e nell’intimo lo negano.
Comunque sia, lo spirito del tempo è mutato. E, tuttavia, c’è un dettaglio non insignificante: all’orchestra manca un direttore. Quanto tempo ancora dovrà passare prima che il green swing si affermi?
Enzo Di Giulio è economista ambientale e membro del Comitato Scientifico di ENERGIA
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