29 Novembre 2023

Fossili, finanza, mercati del carbonio: l’eterno ritorno delle COP

LinkedInTwitterFacebookEmailPrint

Se in teoria è possibile ridurre a costo limitato un ingente volume di gas serra, perchè nella pratica ciò non accade? Questo scontro tra piano normativo e piano positivo trova massima espressione nei negoziati delle COP da ormai tre decenni e certamente si riproporrà immutato nella COP28. È una specie di ritorno dell’identico: le questioni cambiano nome ma i nodi critici rimangono gli stessi.

Negli ultimi anni, la Unfccc ha preso la buona abitudine di pubblicare, qualche settimana prima della COP, un report che fa il punto della situazione. L’ultimo s’intitola Technical dialogue of the first global stocktake: lo stocktake è un processo di valutazione dello stato di avanzamento delle politiche, una sorta di punto della situazione che identifica ciò che si è fatto e i gap rispetto a ciò che occorrerebbe fare. Il report contiene molte parole e pochi, significativi numeri. Eccone alcuni, che dipingono una situazione contraddittoria:

  • Dal 1850 al 2019, sono state emesse circa 2.400 miliardi di tonnellate di CO2, il 58% delle quali sono occorse nei 139 anni che vanno dal 1850 al 1989, mentre il rimanente 42% è ascrivibile ai 29 anni tra il 1990 e il 2019. In altri termini, la media annua del periodo recente è tre volte e mezzo quella del precedente.
  • Le emissioni medie annue del periodo 2009-2019 sono le più elevate di sempre, ma il tasso di crescita è più basso dei dieci anni precedenti che vanno dal 2000 al 2009: 1,3% contro il 2,1%. In parole povere, le emissioni continuano a crescere ma recentemente a un ritmo più basso.
  • Il gap di emissioni tra ciò che i paesi hanno detto di voler fare – e non è detto che faranno, sottolinea la stessa Unfccc – e ciò dovrebbero fare è di 20,3 miliardi di tonnellate di CO2, rispetto all’obiettivo di 1,5°C, e 12,5 miliardi rispetto ai 2°C.
  • Il target di emissioni nette pari a zero nel 2050 richiederebbe una riduzione del 43% nel 2030 e del 65% nel 2035, rispetto al livello del 2019.

Sarebbe possibile ridurre le emissioni del 50%, nel 2030 rispetto al 2019, con un costo minore o uguale a 100 $/ton. CO2

Dov’è la contraddizione? Essa emerge nel punto in cui la Unfccc, basandosi su dati Ipcc, afferma che sarebbe possibile ridurre le emissioni del 50%, nel 2030 rispetto al 2019, con un costo minore o uguale a 100 $/ton. CO2. Non solo, metà di questa riduzione potrebbe essere ottenuta a un costo inferiore a 20 $/ton. CO2.

Dunque, ci troviamo di fronte alla strana situazione che, secondo gli studi, è possibile ridurre a costo limitato un ingente volume di gas serra, portandosi rapidamente verso livelli di sicurezza delle emissioni. E tuttavia, ciò non accade. Non accade oggi come non è accaduto in passato – come dimostra la curva crescente delle emissioni – segno che vi è uno iato tra la potenzialità teorica e la viscosità del reale.

Questo scontro tra teoria e pratica, piano normativo e piano positivo, astrazione e applicazione, wishful thinking e concretezza è una costante del negoziato internazionale da ormai tre decenni e certamente si riproporrà immutato nella COP28. Esso si insinuerà come un virus nei diversi piani di discussione di questa conferenza che si caratterizza, oltreché per la sopra citata irrevocabilità del gap numerico, per le nubi scure del quadro geopolitico che certo non favoriscono il dialogo e la collaborazione.

1. Il crepuscolo delle fossili: OPEC vs IEA

Tre almeno i punti focali della discussione. Primo fra tutti, il destino delle fonti fossili. La reiterata querelle tra IEA e OPEC – nei giorni scorsi riproposta nella dialettica tra “moment of truth” e “whose moment of truth?” – non è altro che il riverbero di un nocciolo incandescente intorno al quale ruota tutta la vicenda della transizione: in che misura e in quali tempi si può fare a meno delle fossili?

Finora il dibattito ha riguardato soprattutto il carbone – graziato nella COP27 con la trasformazione in extremis della formula phaseout in phasedown – ma progressivamente si allarga all’oil e al gas. Il partito della transizione hic et nunc pretende l’esplicitazione di un’uscita irrevocabile, con tempi certi, da queste fonti – oggi ritenute tossiche – che hanno reso possibile la grande crescita di Occidente e Oriente. Si esige che d’emblée i paesi decretino nero su bianco la fine di un’era, con tanto di esplicitazione dei tempi.

Ci sbilanciamo circa l’esito negativo a cui questa richiesta andrà incontro, per almeno tre ragioni.

La prima è numerica: da trent’anni la quota dei fossili è ferma sull’80% e nulla assicura che il piano inclinato congetturato dalla IEA – 73% nel 2030 – esista davvero e che il paesaggio incantevole descritto dai modelli non lasci l’economia nelle secche di un vuoto d’offerta.

La seconda è geopolitica: parecchi paesi basano le proprie economie sulle vendite di petrolio e gas, ed è pertanto da escludere che siano disponibili a chiudere i rubinetti.

La terza ragione è sociologica e trae alimento e linfa da quella numerica: la struttura dell’economia odierna, à la Marx, è ancora fortemente centrata sui fossili e per quanto la sovrastruttura rivoluzionaria – le idee green – sia penetrata nella cultura e nell’opinione pubblica contemporanea, è da escludere che essa induca la struttura a decretare la propria eutanasia. Detto in termini più prosaici, i profitti e le revenue delle fossili sono ancora alti e attraenti, quelli dell’elettrico green esigui e incerti, le auto elettriche costano ancora troppo e cambiare un boiler a gas con una pompa di calore è troppo costoso e complicato. Ci vuole tempo.

2. Il nodo della finanza, tra Nord e Sud del mondo

Il secondo dibattito sarà sulla finanza, un vero e proprio evergreen che caratterizza le conferenze sul clima dalla notte dei tempi. I poveri chiedono, i ricchi non concedono, o se lo fanno ciò accade a parole, come dimostra la lunga e faticosa strada per pervenire al mitico obiettivo dei 100 miliardi di dollari all’anno dai paesi abbienti a quelli in via di sviluppo.

La cifra fece capolino per la prima volta nel naufragio della COP15 di Copenaghen per essere poi riaffermata, con accresciuto vigore, nella COP21 di Parigi. Dunque, dal 2009 si passa al 2015 e oggi, al 2023, la cifra non è stata lontanamente sfiorata.

Nel frattempo, a Sharm El Sheikh, un nuovo capitolo si è aggiunto alla saga della finanza green. Dopo trent’anni di richieste, i paesi in via di sviluppo sono riusciti ad ottenere da quelli ricchi la costituzione di un fondo, denominato Loss and Damage, che in qualche modo soccorra i primi nell’evenienza di eventi estremi indotti dai cambiamenti climatici.

L’idea è buona e condivisibile ma, come nella migliore tradizione del negoziato, s’impantana nel fango della burocrazia climatica. Un anno è passato dall’okay di Sharm, ma il fondo è ancora avvolto nelle nebbie di un’incertezza che potremmo definire strutturale. È vero che si è deciso che il fondo sarà ospitato dalla World Bank per un periodo di quattro anni, ma rimane l’incertezza su chi paghi, a chi, e sull’entità degli importi.

In generale, si ripropone una questione antica del negoziato climatico, il timore da parte dei paesi in via di sviluppo che i nuovi fondi spiazzino quelli già esistenti – ad esempio i 100 miliardi di dollari – in un gioco a somma zero. Questo già accadde con il Protocollo di Kyoto, che introduceva i meccanismi CDM e JI inducendo preoccupazioni nei developing countries per possibili limitazioni agli aiuti allo sviluppo o agli investimenti diretti esteri.

È una specie di ritorno dell’identico: le questioni cambiano nome ma i nodi critici rimangono gli stessi.

3. Mercati del carbonio in cerca di regole

Il medesimo discorso si applica alla vasta materia dei mercati del carbonio, delineati nell’articolo 6 dell’Accordo Parigi. Si tratta di un tema molto tecnico finalizzato allo scambio di crediti di carbonio al fine di favorire tanto la generazione dei crediti quanto il loro scambio. Dalla prima dovrebbe conseguire una crescita dei volumi di abbattimento e compensazione, dal secondo l’efficienza e il risparmio dei costi. Ma il carbonio non è né uno smartphone né un vestito, e dunque tanto l’offerta quanto la domanda devono essere create e gestite attraverso la supervisione del regolatore.

Che a distanza di otto anni dal Paris Agreement si stia ancora, letteralmente, lottando sui tecnicismi che dovrebbero rendere possibili l’esistenza e il buon funzionamento di questi mercati, è un’ammissione implicita della complessità della materia e, forse, del suo stato di enigma.

Questa la cornice di massima della Conferenza. Per approfondimenti rimandiamo al bel report dell’Oxford Institute for Energy Studies 10 Key Issues for COP 28.

Nel sito della Unfccc si legge che a Dubai sono attesi circa 70.000 delegati. Lo scorso anno, a Sharm, il numero si aggirava sui 30.000. Quest’anno avrebbe dovuto partecipare alla COP anche il Papa, ma ragioni di salute glielo hanno impedito. Certamente, è un segno della crescita d’importanza della questione climatica. Che poi tale crescita inverta con forza – perché è questo che serve – il trend consolidato delle emissioni è risultato opinabile.


Enzo Di Giulio è economista ambientale e membro del Comitato Scientifico di ENERGIA


Foto: Freepik

0 Commenti

Nessun commento presente.


Login