13 Dicembre 2023

Transitioning away: COP28 e la formula double face sulle fossili

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Per la prima volta in una COP si cita il superamento delle fonti fossili, ma manca sia il termine “uscita” sia la tabella di marcia. La formula double face “transitioning away” ha consentito il raggiungimento di un accordo ma non scioglie il nodo delle fossili che rimane intatto e immutato, come le divisioni tra le parti. Tre sono tuttavia le ragioni per non buttare COP28.

Alla fine, il nodo è venuto al pettine, e là è rimasto: apparentemente risolto, in realtà intatto e immutato. Da sempre sullo sfondo delle COP, il nodo si è progressivamente spostato da una posizione marginale del negoziato a una sempre più centrale, finché è venuto a contatto con i denti del pettine che non hanno potuto far altro che rilevarne l’esistenza, senza avere la forza di scioglierlo.

È emersa una parvenza di soluzione, quel “transitioning away from fossil fuels” che ha rimpiazzato il più duro “phase-out” e che ha fatto fibrillare i vari traduttori online: “transition away”, cosa significa?

Letteralmente transitare via, qualcosa che sta a metà tra l’uscire e il rimanere, e dunque accontenta e delude tutti nello stesso tempo, non avendo né la forza dell’uscita né quella del rimanere. Google restituisce come traduzione per “transitioning away” allontanandosi.

Una formula double face…

E alla fine la formula double face, buona per tutti poiché leggibile sia in senso stretto che largo, ha consentito l’accordo. Ma il nodo e la divisione rimangono.

Due le parti contrapposte, entrambe un misto di visione, interesse economico, interpretazione del mondo: da una parte, l’orizzonte green, le rinnovabili pervasive e sufficienti, la decarbonizzazione hic et nunc; dall’altra, i combustibili fossili, l’incumbent irrinunciabile, la sostituibilità futura e mai presente.

Per le prime, l’energia e l’equilibrio climatico come gioco a somma zero: la crescita del green comporta l’annullamento del brown: tertium non datur.

Per le seconde, la torta energetica può e deve crescere, e c’è spazio per tutti perché crescente è il numero delle bocche da sfamare.

…per due visioni ortogonali

Due visioni ortogonali che, in ultimo, si riducono a una diversa percezione del tempo: là, lo sguardo rivolto ai ghiacci che si sciolgono e ai mari che allagano le città di Oriente e di Occidente; qua, la vista diretta ai bisogni del tempo presente e alla povertà energetica. Là, l’equità intergenerazionale; qua, l’equità intragenerazionale. Là, la sostenibilità; qua, la sicurezza energetica.

Così si è chiusa la COP 28, con una dichiarazione di compromesso che non ha fatto né vinti né vincitori, un pareggio che forse accontenta e scontenta tutti.

Ecco il punto critico: “Transitioning away from fossil fuels in energy systems, in a just, orderly and equitable manner, accelerating action in this critical decade, so as to achieve net zero by 2050 in keeping with the science”.

La dichiarazione è storica nel senso che la prima volta, in una COP, si cita il superamento delle fonti fossili. Non lo è affatto perché manca sia il termine “uscita”, sia la tabella di marcia.

D’altra parte, che la spallata vincente fosse ancora di là da venire – foss’anche in un enunciato di principio all’interno di una COP – era scontato: ancora sbilanciato è il rapporto di forze a favore dell’incumbent. Di qui quel rimando al futuro così tipico del negoziato climatico, vero ritorno dell’uguale  (si veda il mio precedente articolo Fossili, finanza, mercati del carbonio: l’eterno ritorno delle COP).

3 ragioni per non buttare COP28:
1) il nodo delle fossili è venuto al pettine

Il nodo permane ma ci si occuperà di esso nella COP di domani, a Baku o a Belem. Dunque, è tutto da buttare? No, per almeno tre ragioni.

Primo,il fatto che il nodo si sia manifestato rappresenta un passo avanti del negoziato, un tentativo di procedere verso una maggiore trasparenza e un maggiore contenuto operativo.

E infatti, l’Opec ha ben visto l’insidia insita in questo progredire verso l’operatività e ha dissuaso i paesi membri dal siglare accordi che citassero il phase-out delle fossili. Molto meglio, e meno rischioso, continuare a parlare di tagli delle emissioni, o ancor meglio di contenimento della temperatura, perché ogni passo in direzione della concretezza rappresenta un rischio potenziale per il paradigma energetico corrente.

Molto meglio separare i combustibili fossili dalle emissioni, tenendoli distanti attraverso la barriera della CCS. Tuttavia, il fatto che a Dubai il nodo sia stato affrontato rappresenta una nuova frontiera del negoziato climatico: il tema tornerà, di certo, sui tavoli delle prossime COP.

2) due accordi importanti su nucleare e rinnovabili + efficienza energetica

La seconda ragione per cui questa conferenza non è stata vana sono i due accordi raggiunti sul nucleare e sulle rinnovabili. Il primo – Declaration to Triple Nuclear Energy – siglato da 22 paesi – tra i quali Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Emirati Arabi, Corea del Sud, Francia – implica l’impegno di triplicare la capacità nucleare entro il 2050.

Il secondo – Global Renewables and Energy Efficiency Pledge – firmato da 121 paesi e poi confluito nella dichiarazione finale della COP, ha come obiettivo la triplicazione della capacità rinnovabile e il raddoppio degli incrementi di efficienza energetica addirittura entro il 2030.

Si tratta di obiettivi condivisibili che certamente avranno un impatto positivo sulla riduzione delle emissioni.

Certo, oggi non è dato sapere in che misura essi saranno realizzati. Per le rinnovabili si tratterebbe di accelerare la corsa nella crescita della capacità, passando dall’11,2% degli ultimi dieci anni al 14,7% dei prossimi sette: aumentare il tasso di crescita di 3,5 punti contestualmente al crescere del denominatore non sarà facile.

Analogamente, sarà arduo portare il tasso di decrescita dell’intensità energetica mondiale dall’1,5% dell’ultimo decennio al 3%.

Per il nucleare, la triplicazione della capacità sarebbe una rivoluzione, perché il suo andamento è stato più o meno piatto negli ultimi dieci anni. Pur tuttavia, questi due accordi sono espressione di un movimento nella giusta direzione.

3) progressi sul fronte Fondo Loss&Damage

Il terzo elemento positivo di questa COP è rappresentato dai progressi compiuti nell’ambito del fondo Loss and Damage”. Introdotto nella COP 27 di Sharm El Sheikh, dopo tre decenni di richieste da parte dei paesi in via di sviluppo, il fondo è uscito dalla nebulosità che lo caratterizzava poiché diversi paesi si sono dichiarati disposti ad alimentarlo.

Tuttavia, la somma raggiunta fino ad oggi, circa 700 milioni di dollari, è assai distante dai volumi necessari a fronteggiare i crescenti danni climatici. Secondo alcune stime, saremmo allo 0,2% di quanto sarebbe necessario. E però, il fatto che il fondo esista e vi sia disponibilità ad alimentarlo rappresenta un elemento di positività.

Verso Baku, la prossima seduta psicoterapeutica di Sapiens

Dunque, un altro anno è passato e un altro sta cominciando: si guarda già alla COP 29 di Baku e ci si chiede se essa sarà in grado di liberare il negoziato climatico dalle sabbie mobili nelle quali da anni giace.

L’impressione, purtroppo, è che le conferenze sul clima rappresentino ormai per il genere umano una sorta di psicoterapia collettiva e periodica: annualmente, Sapiens si distende sul lettino e parla. Ad ascoltarlo non vi è il Dott. Freud, ma il Dott. Sapiens medesimo. Così Egli si pone di fronte a sé stesso e cerca di dare risposte a problemi che il suo attivismo geniale ha generato.

Poi, però, la seduta si chiude e Sapiens – paziente e dottore – torna alla sua frenesia quotidiana, al day by day: l’economia cresce e si espande, la popolazione lievita e non c’è nulla da fare: serve energia. Di qui la crescita delle emissioni, di qui l’azione che nega il proposito.

Ecco dunque che la Norvegia investe 18 miliardi di dollari nello sviluppo di nuovi campi oil & gas.

Ecco dunque che Gli Stati Uniti – che pure compaiono nel gruppo di paesi che a Dubai hanno sostenuto il phase out dalle fonti fossili – raggiungono livelli record di produzione petrolifera da shale.

Ed ecco, dunque, che ancora una volta le emissioni, che dovrebbero scendere, aumentano: secondo le stime di Global Carbon Budget, nel 2023 esse cresceranno dell’1,1% rispetto al 2022, raggiungendo il nuovo record di sempre.

Stesso discorso per la temperatura, stimata in crescita dall’Osservatorio Copernicus, al punto che lo scorso 17 novembre sarebbe stata sfondata la barriera dell’incremento dei 2°C rispetto ai livelli pre-industriali. Certo, incide El Niño, ma solo in parte, perché la temperatura cresce anche sull’Atlantico e ciò, secondo gli esperti, non è conseguenza della sola azione di El Niño.

Alla fine, più delle parole delle COP – vero e proprio flusso di coscienza della modernità geniale e contraddittoria – contano i numeri.

A otto anni di distanza dall’Accordo di Parigi, le emissioni – con l’eccezione della flessione del 2020 indotta dal Covid e dell’insignificante riduzione del 2019 – sono sempre cresciute.

Ed è questo che più di tutto ridimensiona la dichiarazione di Dubai, questa distanza tra la parola e l’azione, il dichiarato e il fatto, l’aspirazione e il quotidiano. Nel videogioco lucente delle COP, la CO2 flette verso il basso, ma nell’opacità del reale non si è ancora trovato il joystick.


 Enzo Di Giulio è economista ambientale e membro del Comitato Scientifico di ENERGIA


Foto: Wikimedia

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