12 Febbraio 2024

Petrolio: l’Arabia Saudita e il (possibile) dilemma dei tagli

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L’Arabia Saudita e i paesi OPEC+ confidano di ridurre nel 2024 i tagli alla produzione di petrolio mantenuti e incrementati nel 2023. Ma sorprese sul fronte della domanda o dell’offerta li obbligherebbero a una dura scelta: prolungare (a malincuore) i tagli o rivedere l’intera strategia.

I tagli dell’OPEC+ sembrano destinati a restringere significativamente il mercato petrolifero quest’anno. Se il ritmo della probabile crescita della domanda globale di petrolio è oggetto di dibattito, l’espansione dell’offerta di almeno 1 milione di barili al giorno è ampiamente condivisa. Recessione permettendo.

La crescita dell’offerta non OPEC è prevista rallentare in modo significativo, soprattutto negli Stati Uniti (si veda Petrolio: fra shock di mercato e transizione energetica, ndr). Anche la crescita dell’offerta dei paesi non soggetti al sistema di quote OPEC – Iran, Libia e Venezuela –– è prevista rallentare.

L’insieme di queste forze consentirà di ridurre le scorte globali nel corso dell’anno. Quel che a sua volta potrebbe spingere al rialzo i prezzi del greggio (Fig. 2) – una prospettiva di rilievo per gli Stati Uniti che si apprestano al voto – e/o consentire al gruppo OPEC+ di iniziare ad allentare i tagli volontari nei prossimi mesi.

Questo punto di vista è ampiamente condiviso tra gli analisti, tra cui Rystad Energy e le tre principali agenzie di previsioni petrolifere: l’Agenzia internazionale per l’energia (IEA), l’OPEC e l’Energy Information Administration (EIA). Inoltre, il conflitto in corso in Medio Oriente potrebbe far aumentare i prezzi se, oltre al dirottamento delle petroliere attualmente in corso per evitare il Mar Rosso, il suo allargamento arrivasse ad impattare le esportazioni o la produzione di petrolio.

Eppure… lunga è la lista delle volte in cui il mercato ha sorpreso e smentito il consenso. E l’impatto potrebbe essere particolarmente forte quest’anno qualora si verificasse un cambiamento nelle strategie di breve termine del gruppo OPEC+ e in particolare dell’Arabia Saudita.

Le previsioni 2024 sono a favore dell’OPEC+

Vale la pena ricordare che negli ultimi anni l’Arabia Saudita ha detenuto la chiave del mercato petrolifero. Il regno ha indotto il gruppo OPEC+ a istituire ampi tagli delle quote alla fine del 2022, aggiungendovi un ulteriore taglio volontario di 1 milione di barili al giorno per sé – il famoso “lecca-lecca” offerto dal ministro del Petrolio saudita.

Tali tagli sono stati mantenuti fino al 2023, intensificati a metà anno e ora estesi fino al primo trimestre del 2024. La produzione saudita si è mantenuta vicino a 9 mil. bbl/g, la più bassa da oltre un decennio fatta eccezione per le riduzioni estreme durante la pandemia nel 2020. La capacità inutilizzata del regno ha raggiunto 3,5 mil. bbl/g, più di un quarto della sua capacità produttiva totale.

Tuttavia, questi grandi tagli non sono riusciti ad aumentare i prezzi, che lo scorso anno sono scesi in media annua di quasi il 20%. Anche con una forte crescita della domanda globale, la sorprendente forza della produzione al di fuori dell’ambito della gestione dell’offerta da parte dell’OPEC+ ha superato la disciplina saudita/OPEC+.

  • La produzione in Iran –membro OPEC ma senza quota – è cresciuta di circa 0,5 mil. bbl/g a causa dell’allentamento delle sanzioni. Anche la produzione in Libia e Venezuela – anch’essi membri senza quote – è aumentata modestamente.
  • L’offerta russa è stata più forte del previsto. Molti analisti si aspettavano che le sanzioni del G7 riducessero drasticamente la produzione nel 2023, ma Mosca è riuscita a trovare nuovi clienti (e ad accedere alle spedizioni). La Russia ha accettato una quota inferiore a quella dell’Arabia Saudita a metà del 2023 e ha promesso di ridurre la produzione, ma il rispetto di tale quota è rimasto in discussione – un argomento che discuteremo più avanti.
  • Ci si aspettava che gli operatori shale statunitensi si concentrassero sulla restituzione di liquidità agli investitori piuttosto che sull’aumento della produzione. Ma se da un lato hanno generato un forte flusso di cassa, dall’altro hanno anche sorpreso il mercato fornendo una solida crescita della produzione. L’EIA afferma che l’offerta interna sia cresciuta di ben 1,5 mil. bbl/g lo scorso anno, 600.000 barili al giorno in più rispetto alle aspettative di inizio anno.

Il risultato per l’Arabia Saudita e il gruppo OPEC+ è stato che le restrizioni temporanee alla produzione sono rimaste in vigore più a lungo di quanto sperassero, a causa di una crescita dell’offerta più forte del previsto altrove.

Per quest’anno, le aspettative sono di una crescita dell’offerta statunitense notevolmente più lenta: l’EIA prevede un aumento di soli 350.000 bbl/g. Quel che fa sperare Arabia Saudita e gli altri membri OPEC+ di poter invertire i tagli e iniziare a riconquistare quote di mercato nel corso dell’anno. Le proiezioni di Rystad Energy abbracciano questo assunto.

Per ora, tutti i segnali puntano in effetti a un rallentamento della crescita dell’offerta statunitense: minor numero di impianti, produttività in fase di stabilizzazione e continua pressione degli investitori per mantenere la disciplina del capitale e aumentare i rendimenti. Quel che è confermato anche dagli ultimi dati ufficiali, che suggeriscono una stabilizzazione della produzione statunitense (Fig. 1).

Ma gli operatori statunitensi dello shale hanno una lunga esperienza nel sorprendere il mercato attraverso innovazioni costanti volte a migliorare la produttività e ridurre i costi. Ad eccezione del 2020, quando la pandemia ha sconvolto il settore, la produzione USA ha superato la previsione iniziale dell’EIA di una media di 300.000 barili giornalieri all’anno dal 2012. (Grafico 3). La media degli “insuccessi” da parte dell’IEA e dell’OPEC è stata leggermente maggiore.

What if?

Un’altra sorpresa al rialzo di 0,5 mil. bbl/g da parte dei produttori shale statunitensi quest’anno lascerebbe la coalizione Saudita/OPEC+ nella spiacevole posizione di mantenere i tagli ancora più a lungo e potrebbe sollevare dubbi sulla sostenibilità della loro strategia.

Il regno saudita necessita infatti di maggiori fondi per sostenere il suo programma di diversificazione economica; lo scorso anno ha registrato un deficit di bilancio, anche con prezzi del petrolio superiori a 80 dollari al barile.

Il FMI stima che il prezzo di breakeven per il bilancio saudita sia di 86 dollari al barile. Bloomberg stima che includere i piani di spesa del Fondo di investimento pubblico – il suo fondo sovrano – porterebbe il breakeven fino a 108 dollari. A dire il vero, sebbene il fabbisogno di entrate del paese sia robusto, la sua condizione fiscale di base è drammaticamente migliore rispetto alla fine degli anni ’90, quando il debito pubblico in percentuale del PIL superò brevemente il 100%.

Una domanda globale di petrolio relativamente anelastica e l’offerta (non saudita) fanno sì che la strategia di massimizzazione delle entrate per l’Arabia Saudita nel breve termine sia quella di limitare l’offerta e optare per prezzi più alti. Cioè – nel breve termine, la percentuale di limitazione della produzione è inferiore al conseguente aumento percentuale dei prezzi. Naturalmente, la strategia funziona ancora meglio quando il dolore derivante dal taglio della produzione è condiviso portando altri paesi nel regime delle quote, anche se ciò complica anche il processo decisionale e incoraggia l’imbroglio o il superamento dei limiti delle quote.

La principale innovazione nella strategia di gestione del mercato saudita/OPEC negli ultimi anni è stata la creazione del più ampio gruppo OPEC+ nel 2016, che ha aggiunto la Russia e altri paesi non-OPEC agli obiettivi di produzione del gruppo e ha ampliato la quota di mercato dei paesi partecipanti a circa 50% – vicino a quello che era per l’OPEC durante il suo periodo di massimo splendore nei primi anni ’70.

Ma tagliare la produzione per aumentare i prezzi si è rivelato difficile da sostenere nel tempo. Lascia i paesi con grandi quantità di capacità inutilizzata, aumentando il rischio di imbrogli o semplicemente di abbandonare l’impegno, come ha recentemente illustrato l’Angola. Inoltre, invita a investire nell’offerta competitiva e pesa sulla crescita della domanda. Di conseguenza, la cooperazione a volte si interrompe e il produttore principale cerca di dare agli altri quello che John Rockefeller una volta chiamò “una bella sudata”, cioè una guerra dei prezzi. L’OPEC, guidata dall’Arabia Saudita, lo ha fatto nel novembre 2014, dopo aver perso quote di mercato per diversi anni a favore dei produttori di scisto statunitensi e a favore della Russia nei primi giorni della pandemia nel 2020, quando quest’ultima si è opposta ai tagli aggressivi alla produzione.

Le due opzioni saudite

Quindi, il regno potrebbe impegnarsi in una guerra dei prezzi quest’anno se la produzione statunitense sorprendesse ancora una volta al rialzo? L’auspicata inversione dei tagli dell’OPEC+ potrebbe anche essere ritardata da una crescita della domanda più debole del previsto o da sorprese sul fronte dell’offerta al di fuori degli Stati Uniti. O preferirebbe estendere o approfondire i tagli esistenti nel tentativo di sostenere i prezzi?

Questa volta una guerra dei prezzi potrebbe essere ancora più complicata da gestire. Oltre al crescente fabbisogno di entrate, il regno deve ora preoccuparsi del suo nuovo alleato nel mercato petrolifero, la Russia, anch’essa sotto pressione per aumentare le entrate petrolifere per finanziare la sua guerra in Ucraina.

Il nesso petrolifero tra Arabia Saudita e Russia è stato una delle caratteristiche dominanti del mercato negli ultimi anni, una mossa che ha sorpreso molti a fronte della lunga riluttanza della Russia a partecipare ai tagli. L’adempienza russa è sempre stata un punto interrogativo: più recentemente, la Russia ha affermato che la sua partecipazione ai tagli è avvenuta attraverso le esportazioni piuttosto che con la produzione, e l’ha applicata sia ai prodotti raffinati che al greggio, rendendo la verifica più difficile.

Estendere i tagli alla produzione esistente oltre il primo trimestre potrebbe sostenere i prezzi, o aumentarli, ridurrebbe al minimo l’impatto sul bilancio interno dell’Arabia Saudita e manterrebbe le relazioni con la Russia equilibrate. Ma una tale mossa rischia di incoraggiare ulteriori investimenti da parte dello shale americano e di altri fornitori globali in un momento in cui molti, ma non tutti, si aspettano un picco della domanda globale di petrolio.

Prospettiva che verrebbe accelerata da una politica di prezzi elevati del petrolio da parte del gruppo OPEC+. In tal caso, i tagli “temporanei” alla produzione potrebbero diventare una realtà più duratura e spiacevole.

Sperare per il meglio, prepararsi al peggio

In conclusione: sperare per il meglio, prepararsi al peggio. Se è probabile che la crescita della produzione americana si esaurisca, mantenere i tagli fino a quando il mercato non si restringe è chiaramente la strategia meno dolorosa a breve termine. Ecco dove si trova attualmente il consenso.

Ma come reagirebbe il Regno alla continua e inaspettata debolezza dei fondamentali globali? Sopporterebbe le sofferenze di breve termine di una guerra dei prezzi per posizionarsi meglio nel medio termine? Oppure le esigenze di entrate nazionali e il suo rapporto con la Russia significherebbero offrire ulteriori “lecca-lecca” elargiti al mercato estendendo o approfondendo i tagli alla produzione esistenti?

Le conseguenze di queste scelte si sentirebbero nei governi, nei consigli di amministrazione, nei tavoli delle cucine e nei seggi elettorali di tutto il mondo, non solo nelle capitali di Riyadh e in altri paesi dell’OPEC+.


L’articolo è stato pubblicato sul sito di Rystad Energy con il titolo OPEC+ cuts should tighten the market

Claudio Galimberti è Senior Vice President, Head of North America Analysis, Rystad Energy
Mark Finley è Fellow in Energy and Global Oil, Rice University’s Baker Institute


Foto: Unsplash

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