L’identità di Kaya mette in relazione quattro fattori che determinano il livello e la crescita delle emissioni di anidride carbonica: intensità energetica, intensità carbonica, Pil pro capite, popolazione. Proponiamo un paragrafo dell’articolo Le politiche climatiche funzionano? pubblicato su ENERGIA 3.23 in cui Enzo Di Giulio e Stefania Migliavacca presentano l’Identità di Kaya e analizzano l’andamento dei 4 driver nel tempo per individuare quale è il maggior responsabile del continuo aumento delle emissioni.
Le emissioni globali di CO2 sembrano non conoscere tregua: ogni anno registrano nuovi incrementi, eccezion fatta per i periodi di crisi economica (Fig. 1).
Il PIL, infatti, è uno dei driver delle emissioni: man mano che il mondo si arricchisce, più persone possono accedere al consumo di elettricità, o aumentare la domanda di riscaldamento, trasporti e altri beni e servizi che richiedono input energetici (per l’80% di tipo fossile). Il reddito, tuttavia, non è l’unico fattore in gioco. Per capire meglio le dinamiche delle emissioni, utilizziamo la scomposizione nota come Identità di Kaya (Fig. 2).
Con il supporto dei dati, possiamo analizzare nel dettaglio come i quattro fattori dell’Identità di Kaya stiano guidando le emissioni nel tempo e quale tra essi sia più influente.
L’intensità di carbonio è un parametro che riflette le caratteristiche del mix energetico. Si misura come la quantità di CO2 emessa per unità di produzione di energia. Ciò significa che è fortemente dipendente dalla quantità di combustibili fossili inclusi nel mix energetico, rispetto alle fonti a basse emissioni di carbonio.
I 4 driver dell’Identità di Kaya
L’intensità energetica è una metrica che riflette l’efficienza di un’economia nell’utilizzo dell’energia. Si misura come la quantità di energia consumata per produrre un’unità di PIL. Un’intensità energetica inferiore significa che il sistema è in grado di generare più valore aggiunto, con meno input di energia. Una migliore performance rispetto all’intensità energetica può derivare da un sistema economico basato su attività a minore consumo di energia (ad esempio, concentrato maggiormente sui servizi rispetto alla produzione di alluminio, acciaio o cemento), oppure da maggiore efficienza dal punto di vista energetico nella produzione.
L’ultimo fattore dell’identità è la popolazione: più persone generano maggiore domanda di energia ed emissioni più elevate. In effetti, quando confrontiamo le emissioni di CO2 tra paesi, vediamo che riflettono fortemente le dimensioni della popolazione. Questo è uno dei motivi per cui spesso è utile ragionare in termini pro-capite. Tuttavia, le emissioni di CO2 sono molto più sensibili alle variazioni del PIL che alla popolazione. Il grafico in Fig. 1 offre una semplice evidenza empirica: i tassi di variazione di PIL ed emissioni appaiono fortemente correlati, mentre il tasso di crescita della popolazione è costante (1). Ciò non significa che la popolazione non abbia un ruolo nella crescita delle emissioni, ma in genere non è il driver più forte.
La Fig. 3 ci permette di avere una visione d’insieme dei quattro fattori dell’Identità, nel periodo dal 1990 al 2021. Viene inoltre rappresentato il totale delle emissioni annuali di CO2, cioè il risultato finale.
Il reddito pro-capite si conferma come il motore principale: con un PIL in costante crescita, ciò che differenzia le performance nazionali in termini di emissioni è la capacità di ridurre intensità energetica e carbonica abbastanza velocemente.
Se i miglioramenti di efficienza o di intensità di carbonio sono lenti (o in alcuni casi inesistenti), allora le emissioni di CO2 non possono che aumentare. A livello globale, l’intensità energetica si è ridotta (–38% al 2021 rispetto al 1990), mentre l’intensità carbonica dei consumi energetici è rimasta pressoché invariata. mpossibile, dunque, contrastare la crescita delle altre componenti: le emissioni sono salite incessantemente, registrando al 2021 un +54% rispetto al 1990.
La Cenerentola della transizione
Come vedremo analizzando alcuni dettagli regionali, la decarbonizzazione rimane quasi ovunque la Cenerentola della transizione: la crescita del reddito viene solo parzialmente compensata da una maggiore efficienza nell’uso dell’energia, mentre il contributo dell’intensità carbonica, negli ultimi 30 anni, è quasi sempre trascurabile. Come mostra la Fig. 4, abbiamo provato a suddividere il periodo in un due, andando alla ricerca di quello che potremmo chiamare «effetto Parigi». Dopo la firma del Paris Agreement nel 2015, l’intensità carbonica sembra guadagnare maggiore spinta: si riduce a un tasso medio annuo dello 0,5%, mentre nei 25 anni precedenti era rimasta sostanzialmente ferma (tendenza che si intravede anche nella Fig. 3).
Ciononostante, le emissioni rallentano a corsa ma registrano sempre un netto incremento positivo. Mettiamo ora a confronto tre grandi protagonisti dello scenario mondiale: Unione Europea, Stati Uniti e Cina. La Fig. 5 rappresenta le variazioni medie annue – per sottoperiodi – dei driver principali delle emissioni. Una prima osservazione riguarda l’ampiezza delle variazioni.
A costo di penalizzare la leggibilità dei primi due grafici, abbiamo volutamente mantenuto la medesima scala, per sottolineare la differenza di magnitudine: la Cina continua a crescere a un ritmo superiore al 5% annuo mentre il PIL di UE e USA si mantiene ben al di sotto. Le emissioni cinesi hanno recentemente rallentato la corsa, complice proprio una crescita (relativamente) meno intensa del reddito.
Migliora l’efficienza energetica, grazie soprattutto alla terziarizzazione dell’economia, e, negli ultimi cinque anni, anche l’intensità carbonica diminuisce dell’1,1% medio annuo, come risultato del crescente contributo delle fonti rinnovabili nel mix energetico. Tuttavia, per usare una metafora sportiva, la Cina sembra giocare un campionato diverso rispetto a Europa e Stati Uniti, proprio per la dimensione delle grandezze in gioco.
In termini di NDCs (Nationally Determined Contributions), la Cina si è impegnata a raggiungere il picco delle emissioni prima del 2030 e a ridurre l’intensità carbonica del reddito di oltre il 65% al 2030 rispetto al 2005. Nel 2021 la riduzione del rapporto tra emissioni e PIL è stata del 47% rispetto al 2005 e, mantenendo lo stesso ritmo di riduzione (circa il 4% medio annuo), la riduzione al 2030 sarebbe del 63%: basterebbe dunque un minimo sforzo aggiuntivo per essere in linea con quanto dichiarato.
USA e UE hanno profili di decarbonizzazione simili
Tornando alla Fig. 5, UE ed USA vedono le loro emissioni di CO2 già in diminuzione dal 2005 in poi. Parte di questo risultato è imputabile a una crescita economica fiaccata dalla crisi finanziaria. I grafici mettono in evidenza anche un costante miglioramento dell’efficienza energetica e, più recentemente, risultati discreti in termini di decarbonizzazione.
Per gli USA, quest’ultimo risultato deriva principalmente dal passaggio dal carbone al gas nel settore elettrico (grazie alle risorse domestiche di shale gas), mentre, per l’Unione Europea, il merito spetta alla crescita delle fonti rinnovabili (la quota di solare ed eolico nella generazione elettrica è passata dal 3% del 2005 al 20% del 2020).
Nei grafici proposti, i due paesi hanno un profilo molto simile: forse l’Unione Europea ha una performance più costante nella decarbonizzazione, anche se parliamo di variazioni medie annue che difficilmente superano l’1%.
Il post è un estratto dell’articolo di Enzo Di Giulio e Stefania Migliavacca Le politiche climatiche funzionano? Pubblicato su ENERGIA 3.23 (pp. 14-27)
Enzo Di Giulio, Eni Corporate University e comitato scientifico ENERGIA
Stefania Migliavacca, Eni Corporate University
Foto: Unsplash
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