La contrazione della domanda interna di rinnovabili renderà la Cina ancora più aggressiva altrove, con la leva del sottocosto e della sovraproduzione. Respingere questo attacco non sarà facile. Ma è poi davvero l’unica strada?
Anno di record brucianti lo scorso per le rinnovabili: almeno 85% e 60% in più a livello globale, per solare ed eolico rispettivamente (IEA, Clean Energy Market Monitor, marzo 2024).
Impressionante l’accelerazione impressa dalla Cina, che nell’eolico ha raddoppiato la sua crescita e nel solare l’ha quasi triplicata: lì hanno avuto luogo quasi due su tre delle nuove installazioni nel mondo, dell’una e dell’altra tecnologia.
Per dire: anche in UE è stato un anno record, nonostante la frenata dell’eolico, ma la Cina è cresciuta comunque cinque volte di più, in entrambi i comparti.
Non meno brutale l’allungo sul lato della produzione. La capacità produttiva di pannelli solari oggi in Cina è di oltre 1 TW, il triplo rispetto a soli due anni fa e più del doppio di quanto il mondo chiederà ogni anno per i prossimi dieci anni.
1 TW, la capacità produttiva di pannelli solari oggi in Cina: più del doppio di quanto il mondo chiederà ogni anno per i prossimi dieci anni
Crescita vistosa pure nel campo dell’eolico, laddove dalla sola componentistica si passa sempre più anche alle turbine complete, prima predominio dell’industria europea: la Cina intercetta già almeno il 15% degli ordini di aerogeneratori all’estero.
Con una prepotente manovra “a tenaglia” il mercato globale è stato piegato in pochi mesi, tra prezzi più che dimezzati e saturazione delle fabbriche al disotto del 40%, cioè con margini azzerati e sovracapacità spinta.
L’egemonia di Pechino sulle rinnovabili si è così rafforzata in tutti i segmenti della filiera, con quote di mercato che raggiungono ora massimi del 79%% nell’eolico (navicelle) e addirittura del 97% nel solare (wafer).
Ciò, peraltro, con prodotti ormai a livelli di best-in-class, per qualità e affidabilità, e con un alto tasso di innovazione tecnologica: in pratica all’opposto della narrazione che li ha storicamente contraddistinti.
Una posizione conquistata grazie anche a massicce dosi di capitali pubblici
D’altra parte sono almeno quattro anni che la Cina inietta capitali in dosi massicce nell’energia verde: se prendiamo solo il 2023, ha investito nella generazione quasi il triplo dell’Europa, coprendo circa il 45% del totale globale, e in proporzione ha puntato ancora di più sull’espansione produttiva, perlopiù nel solare, impegnando qualcosa come 50 miliardi di dollari (BNEF, Energy Transition Investment Trends 2024)
E pensare che in Europa si arriverà ad investirne al massimo 14 nel corso di anni (Wood Mackenzie, ‘23–The year the renewables bubble burst and reasons for optimism in 2024), seppure gli ambiziosi obiettivi di produzione locale del Net Zero Industry Act verranno raggiunti, con il rischio quindi di un effetto “goccia nel mare”.
Dunque una marcia pianificata a tappe forzate, quella della Cina sulle rinnovabili, non dissimile da quanto in atto in altri campi del clean-tech (i.e. batterie o veicoli elettrici), per conquistare stabilmente il mercato globale e scoraggiare all’origine le possibilità di concorrenza.
Quattro spunti sul futuro prossimo
E adesso? Quattro spunti sul futuro prossimo.
Il solare: alcuni prevedono che a breve possa entrare nell’era della sua maturità, approcciando la “gobba” del tipico ciclo di vita dell’innovazione tecnologica (Wood Mackenzie, Three predictions for global solar in 2024).
Dopo anni di crescita irruenta, per l’asse portante dell’energia rinnovabile potrebbe arrivare una fase di andamento più piatto nei mercati principali e la stessa Europa potrebbe assistere ad un significativo soft landing: questo inasprirebbe inevitabilmente la guerra dei prezzi.
L’eolico: è verosimile che nei paesi occidentali arrivi l’atteso rimbalzo, anche se le aspettative rischiano di risultare eccessive, visto che gli squilibri lungo le catene di fornitura non sono ancora del tutto rientrati; l’off-shore, in particolare, potrebbe trovarsi “nel momento della verità”, dopo mesi forse i più duri della sua storia, con 15 GW di investimenti cancellati o rinviati solo tra USA e UK.
E promette bene il fatto che i produttori europei, tuttora un’eccellenza di settore, stiano superando il recente periodo di pesanti difficoltà economiche.
C’è però da aspettarsi che si dispieghi appieno, come avvenuto nel solare, l’effetto più duro dell’offensiva della produzione asiatica, con prezzi sempre più in picchiata.
La capacità produttiva: dopo il picco dell’anno scorso, almeno fino al 2030 per il solare non ne servirà di nuova nel mondo (lo stesso, ad esempio, anche per gli elettrolizzatori) e per l’eolico ne basterà poca in più. Malgrado ciò la base manifatturiera del fotovoltaico è prevista in ulteriore espansione per i prossimi due anni, sulla base di quanto già annunciato.
I margini faranno perciò fatica a risalire e anche integrarsi verticalmente a monte sarà proibitivo, visto il ferreo dominio cinese su materiali e componenti.
La Cina: sta assistendo ad una contrazione della domanda interna di rinnovabili e questo la renderà ancora più aggressiva altrove, con la leva del sottocosto e della sovraproduzione. Ma l’offerta del made in China è già in largo eccesso rispetto alla domanda mondiale e costa già fin troppo poco: rispetto ad esempio all’UE, fino a due o quattro volte di meno, quanto a solare o eolico.
Si prefigura un attacco su larga scala del made by China
Eppure, non si fermerà l’espansione della sua capacità produttiva, stavolta però rivolta all’estero: a partire dai Paesi del Sud-Est Asiatico l’avanzata cercherà di insinuarsi in altre regioni, in via diretta o in forme indirette, per compensare il raffreddamento dell’economia nazionale e per aggirare le politiche restrittive attuate dai governi a difesa delle produzioni locali.
Del resto il Sud-Est Asiatico assorbe oggi il 64% degli investimenti manifatturieri cinesi all’estero e non per nulla, nel solare, è già la seconda geografia al mondo come vantaggio di costo.
Ebbene, si prefigura un attacco su larga scala del made by China, oltre che del made in: “esportare la crisi”, si usa dire, producendo tanto e dappertutto, vendendo poi a prezzi insostenibili, per demolire il mercato.
Non sarà facile respingere questo attacco, soprattutto nei Paesi dove manca un solido retroterra industriale di settore, dato l’enorme gap da recuperare: il dominio cinese sull’intera filiera produttiva durerà anni e infatti sono settimane che si registrano un po’ ovunque (anche in Cina) ripensamenti su investimenti già programmati.
La terribile situazione del Made in USA
Prendiamo il caso dell’imponente Inflation Reduction Act statunitense: un rapporto di non molti mesi fa (Credit Suisse, Treeprint US IRA – A tipping point in climate action, 2022) prevedeva “conservativamente” quasi 600 miliardidi dollari in via di mobilizzazione in dieci anni a favore delle rinnovabili (tra pubblico e privato), di cui circa 200 destinati alla manifattura.
Si pensava che quel piano avrebbe reso la produzione locale di solare ed eolico “la più competitiva al mondo”, a partire dal 2025, con il solare che sarebbe arrivato a costare “fino al 50% in meno” di quello cinese e con volumi tali da far decollare anche le esportazioni.
Invece anche lì già si registrano casi di cancellazione o sospensione di investimenti in nuove fabbriche: per il solare, in particolare, ora si stima che neppure i copiosi sussidi riusciranno, almeno nel breve, a rendere il made in USA competitivo con la produzione cinese e neanche con quella del Far East (BNEF, US Factories are in for “Rude Awakening”).
La situazione è “terribile”, il mercato è crap, il collasso dei prezzi è “drammatico”: così le voci degli operatori USA del fotovoltaico, che chiedono un supporto ancora maggiore da parte della regolazione (FT, US Solar manufacturers in “dire situation” as imports soar).
Tuttavia gli Stati Uniti rimangono l’area più determinata a resistere, con gli effetti dell’IRA che devono ancora manifestarsi compiutamente, e per questo nei mesi scorsi anche qualche produttore europeo (come Meyer Burger) ha deciso di dirottare in quella direzione i propri investimenti.
Nel Vecchio Continente, infatti, nonostante le velleità del NZIA, la battaglia è considerata ormai persa: non dobbiamo “fare la fine dell’Europa” ha dichiarato il capo della prima azienda americana di moduli, sarebbe “devastante” per il mercato, significherebbe “aprire le chiuse” di un fiume in piena.
Ma respingere è davvero l’unica strada?
Ma respingere è davvero l’unica strada? Senza la spinta della Cina la transizione energetica non sarebbe arrivata sin qui, non avremmo assistito ad una spettacolare discesa dei prezzi nelle rinnovabili, avvenuta in soli dieci anni, il costo dell’energia verde non sarebbe basso come ora e i capitali da stanziare nel mondo sarebbero stati ben più alti.
Cercare di spiazzare la produzione cinese ha ora un prezzo per l’Occidente esponenzialmente più alto che non un decennio fa e comunque, pur in caso di successo, la nostra manifattura sarebbe senz’altro più cara, anche solo a motivo della diversità di standard, di fattori produttivi e di remunerazioni attese: il 20% più cara, secondo una stima, che ha quantificato in 6 trilionidi dollari il maggior onere che dovrebbe sostenere il pianeta per arrivare alla decarbonizzazione, in un ipotetico scenario “senza Cina” (Wood Mackenzie, Not Made in China).
D’altronde, anche in termini di occupazione, la larga maggioranza di quella indotta dalle rinnovabili non sta nella manifattura, che per il solare, ad esempio, assorbiva nel 2022 solo il 20% degli occupati nel mondo (IEA, World Energy Employment 2023): sta piuttosto nelle fasi di sviluppo, costruzione ed esercizio degli impianti, le stesse che in futuro richiederanno sempre più persone.
Quelle fasi che peraltro non si possono delocalizzare, a differenza della produzione, sempre esposta agli arbitraggi sulle convenienze territoriali del momento (vedi sopra) e alla progressiva automazione dei processi: gli stessi produttori europei dell’eolico in dieci anni hanno delocalizzato il 35% in più.
Puntare a governare quell’attacco, anziché a respingerlo
Allora perché non puntare a governare quell’attacco, anziché a respingerlo, cercare di monitorarlo e guidarlo, con il rigore che serve, facendone esperienza e traendone vantaggio, nel difendere le posizioni, più che nell’inseguire a tutti i costi: le forme di collaborazione o di partnership non mancano.
La guerra commerciale e l’overcapacity, in una situazione di mercato che potrebbe diventare stagnante, quantomeno renderà più arduo per la Cina continuare ad investire sull’innovazione tecnologica, laddove invece i Paesi europei (Italia tra tutti) possono essere vincenti e riguadagnare posizioni di avanguardia verso nuovi cicli di vita di prodotto.
Indicativo intanto che qualche giorno fa proprio il primo produttore al mondo di pannelli solari (la cinese LONGi) abbia evocato pubblicamente un intervento di Pechino contro la corsa al ribasso dei prezzi, che sta portando al fallimento molte aziende locali.
Attenzione però a convincersi che basti regolare e cooperare, perché in ogni caso gli investimenti sono la chiave, di un ordine di grandezza a cui non siamo abituati: coerenti, segnaletici, concentrati, senza i quali pensare di scongiurare l’irrilevanza può facilmente rivelarsi illusorio.
Di questi tempi il protezionismo non è più un tabù, ma rimane comunque insidioso, specie nei settori maturi: quando adottato da solo, di solito poggia su un piano inclinato che conduce ad una trappola.
Meglio evitare.
Carmine Biello è Senior Advisor Apogee Global
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