Nonostante numerosi eventi nella geopolitica globale, gli shock degli ultimi mesi non hanno inciso sui prezzi del petrolio così come ci si sarebbe aspettato. La volatilità di prezzo è stata relativa e i mercati sembrano più bilanciati di quanto apparirebbe. In questa fase, l’equilibrio tra domanda e offerta rimane pivotale per comprendere lo stato dei mercati.
Riguardo al futuro del prezzo del petrolio, provate una simulazione Monte Carlo, e poi pregate. La volatilità sembra l’essenza stessa del suo quotarsi; e farci trading non è per deboli di cuore. Per far d’esempio, recentemente Banca Intesa ha stimato per il 2024 un prezzo medio di 82 dollari/barile, ma dentro una forchetta previsionale compresa tra i 68 e i 98.
La forchetta di Banca Intesa peraltro non fa che sostanzialmente riprodurre il dato storico. Negli ultimi 12 mesi ha quotato (Brent) tra un minimo (12 giugno 2023) di poco superiore ai 71 dollari e un massimo oltre i 95 (15 settembre 2023) e poi ha continuato per discese antiche e risalite; e mentre scrivo si piazza a metà dei suoi alti e bassi poco sotto 84.
Se il pane vi aumentasse in tre mesi del 25% e nei tre successivi riscendesse di altrettanto, financo la mia Signora Gina afferrerebbe il significato di “volatilità” e si affretterebbe probabilmente a surgelare a fine discesa.
Il petrolio però non è esattamente come il pane. Per produrre ricchezza ne usiamo sempre meno e lo usiamo meglio. Ai tempi della crisi del 1973 consumavamo al mondo quasi un barile di petrolio per produrre mille dollari di ricchezza (qui misurata come PIL); e oggi ce ne basta comodamente meno di mezzo. L’“intensità petrolifera” si è in pratica dimezzata in cinquant’anni; e la sua diminuita necessità a fini di produzione di ricchezza ci fa notevolmente più resilienti ai suoi sbalzi di prezzo (il che vale solo per le conseguenze economiche; che dal punto di vista ambientale la crescita del PIL di questi cinquant’anni ha fatto sì che la minore intensità petrolifera coesistesse con un aumento pressoché continuo dei consumi assoluti).
In cinquant’anni abbiamo visto il barile (in dollari 2023) passare in un decennio da 20 a 120 dollari (1980) per crollare nel decennio successivo sotto i 50, ripassare da 20 e poi schizzare vicino a 150. Per le abitudini e la storia del petrolio un anno come questo di galleggiamento tra 71 e 95 dollari sullo sfondo di Ucraina, Gaza, attacchi degli Houthi e quant’altro ti dà forse per paradosso l’idea di un mercato ormai fondamentalmente stabile. La geopolitica può darti scossoni, e anche traumatici. Però in questi mesi i prezzi hanno mostrato resilienza alla scossa; se lo scossone non è epocale è più utile ragionare giusto di domanda e offerta e dei loro fattori.
Le ragioni della stabilità
La principale, forse, si chiama OPEC+. L’OPEC si auto-annunciava come strumento di stabilità di mercato, peccato che le curve di prezzo successive al suo andare in scena da protagonista riproducano graficamente le montagne russe. Storicamente l’OPEC è stata strumento efficace di difesa dei volumi, e dunque delle proprie quote di mercato; ma ha costantemente fallito o quasi ogni tentativo di difesa del prezzo. Diminuire i volumi per aumentare i prezzi faceva a pugni con la necessità dei produttori dipendenti dalla rendita petrolifera di vendere a qualunque costo (o, se preferite, prezzo). Aggiungete la Russia all’equazione e il risultato cambia. Lei e i sauditi da soli valgono oltre il 20% della capacità mondiale; dunque c’è spazio per tagliare concordi l’offerta e fare suasion differenziata sugli altri aderenti.
Lo Stato produttore si fa qui azienda (ai tempi del varo di OPEC+ non c’era nulla di politica o di politica estera su cui russi e sauditi fossero d’accordo; e anzi erano su quasi tutto, conflitto siriano compreso, dalle parti opposte del tavolo); e può permettersi di far cartello e dispiegare tecniche di mercato profittando anche della sua immunità da interferenze antitrust.
Poi a leggere i giornali dai tagli, in termini di rimbalzo di prezzo, OPEC+ si sarebbe dovuta aspettare qualcosa in più. In realtà, è comunque riuscita a bilanciare in punto di prezzo la domanda, la cui debolezza ha in qualche modo a sua volta concorso con OPEC+ a dare (relativa) stabilità al prezzo. Che poi la debolezza sia contingente o strutturale è probabilmente il tema da cui dipenderà il futuro nel breve termine del petrolio e del suo prezzo; ma vi ritorneremo. Per adesso basta notare che il taglio all’organizzazione ha anche dato in dote una spare capacity (stima IEA Oil Market Report) di quasi 6 milioni di barili/giorno, concentrati soprattutto in Arabia Saudita (3,08) e EAU (1,13); il che pure contribuisce alla stabilità dell’oggi e consente di prenotare la quota di mercato contendibile in caso di ripartenza futura.
Quale scenario nel lungo periodo?
Le green oil companies. Ovvero la transformational journey delle società petrolifere occidentali. Strette, tra l’altro, in una tenaglia tra un “diritto assoluto al clima” che potrebbe in una qualche sua declinazione giudiziale attribuire loro pesanti responsabilità patrimoniali e nel caso degli amministratori, ove non dimostrassero di tenere barra fermamente dritta in direzione di net zero 2050, anche personali; dall’altra dalla difficoltà e dal costo crescente del credito che conseguono al crescente rigore di applicazione della tassonomia ESG da parte degli istituti bancari. Per chi è fossile, almeno in Occidente, finanziarsi comincia a farsi problema.
Con qualche possibile conseguenza forse ancora da apprezzare. In termini reali (dollari 2023) l’anno scorso gli investimenti in esplorazione e produzione di idrocarburi sono stati poco più della metà degli investimenti nel 2014, circa 500 miliardi di dollari. Bastano a garantirci petrolio fino alla fine fossile? La società di consulenza Wood Mackenzie è sostanzialmente affermativo, argomentando anche sulla base del grande recupero di efficienza del capitale investito (e quindi della riduzione dell’investimento necessario per unità di produzione) e proiettando perciò una necessità di investimento minimo per il decennio corrente di 400 miliardi di dollari/anno. Col rischio, comunque, che una più lenta evoluzione dell’efficienza e/o un ulteriore diminuzione del capitale investito su base annua creino già a fine decennio tensioni dal lato dell’offerta e un almeno temporaneo schizzo verso il cielo del prezzo.
La pressione verso net zero esercitata dalla spinta di diritto e tassonomia non potrà non imporre alle majors d’Occidente una ristrutturazione del portafogli titoli e qualche necessaria dismissione. Laddove l’acquirente, come ci raccontano le cronache ad esempio nigeriane, ha spesso radici locali e mai lo standing, in termini di sicurezza e altrimenti, del venditore. Il giacimento continua così a produrre; però per effetto di decarbonizzazione (occidentale) a volte può produrre petrolio un poco più sporco.
Il prezzo è funzione di scenario. Laddove OPEC vi proietta una domanda nel 2045 di 116 milioni di barili/giorno con picco di produzione ancora di là da venire; Wood Mackenzie vede la domanda in leggera ascesa nel decennio e al picco all’inizio del prossimo. La IEA nel suo leggendario ed entusiasta ottimismo circa il processo di decarbonizzazione il picco lo ha già annunciato salvo poi arrendersi (temporaneamente) all’evidenza del numero. In uno scenario, considerate le limitazioni dell’agire occidentale, chi investe oggi potrebbe ritrovarsi nel 2045 con prezzi alti e produzione pienamente assorbita dal mercato. All’altro estremo, se però è la domanda a calare, e magari significativamente, investendo oggi in un grande progetto vi potreste trovare stranded prima ancora di andare in produzione e comunque con prezzi in discesa per eccesso di offerta. A ciascuno il suo modello.
In un mondo che è ancora in ascesa demografica è ad ogni modo difficile pensare a una riduzione assoluta dei consumi di energia. Tutto quello che possiamo fare è cercare di far sì che fonti non fossili alimentino l’aumento della domanda di energia (questo grosso modo quasi avviene) e che anche sostituiscano progressivamente il fossile nei suoi usi correnti (e qui siamo a stento all’inizio, come vi testimonia il picco della domanda di petrolio ancora di là da venire). La domanda di energia aumenterà ancora; laddove il tema diventa di coniugare la crescita della domanda di energia con la decrescita (in valore assoluto, che sono i volumi a fare emissione e non le percentuali) della domanda di energia fossile.
Sostituire il petrolio negli usi correnti
Il 57% del petrolio che usiamo lo usiamo affinché ci trasporti, e quasi il 26% è per traffico automobilistico. Altri settori di utilizzo possono essere harder to abate; ma il trasporto leggero (e anche altri sotto-settori) dispone di tecnologie mature di sostituzione. Lo scenario futuro sarà anzitutto funzione dell’andamento della domanda di petrolio, ma la domanda di energia per fonte andrà là dove, per scelta e/o per sussidio, la porterà il motore.
Il livello di penetrazione dei motori non alimentati a fossile (e ci includo anche a fini di trasporto aereo ma non solo i biofuel) si avvia a essere (e forse già è) la determinante nel breve/medio periodo del punto di equilibrio di domanda e offerta di petrolio e del relativo prezzo. La domanda futura diventa funzione del tasso di sostituzione del petrolio nel settore trasporti. La Cina, che è massimo attore dell’aumento dei consumi, si fa anche e per paradosso solo apparente leader della sostituzione. La percentuale delle sue immatricolazioni non fossili quest’anno potrebbe per la prima volta superare la soglia del 50% dell’immatricolato; il che è pessima notizia per il petrolio e il suo prezzo.
Poi sulla velocità della sostituzione a ciascuno il proprio indovino. Io, comunque, come assicurazione contro i ritardi del decarbonizzare, un po’ di petrolio di scorta in cantina me lo terrei e con tassonomia e diritti non mi spingerei all’estremo del rigore.
La sicurezza è anzitutto ridondanza.
Massimo Nicolazzi è docente di economia delle risorse energetiche presso l’Università di Torino.
L’articolo è stato pubblicato su ISPI col titolo “Il petrolio che (forse) evapora”
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Foto: Unsplash
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