La Cina continua a prediligere il carbone per la propria sicurezza energetica, ma per proseguire nel percorso di transizione intende renderlo “a basse emissioni”. Tre sono le tecnologie per riuscirci, ma tutte e tre presentano non pochi ostacoli.
Nel 2023, la Cina ha aggiunto 301 GW di capacità di generazione rinnovabile, più della capacità installata totale della Germania. Tuttavia, nonostante l’aumento della capacità di stoccaggio delle batterie e di pompaggio idroelettrico, gli operatori dei sistemi energetici riscontrano ancora l’impossibilità di integrare il massiccio afflusso di generazione rinnovabile nella rete elettrica.
L’Impero di Mezzo non dispone (ancora) di un mercato elettrico sviluppato (si veda il report Iea Building a Unified National Power Market System in China) pertanto diventa complesso anche semplicemente vendere l’energia solare in eccesso che viene prodotta in una provincia, alle province limitrofe con un’elevata domanda di elettricità o capacità di stoccaggio disponibile.
Quale ponte verso la transizione?
Nonostante la crescita delle rinnovabili abbia eroso la quota di mercato del carbone, passato dal 70% al 61%, la scelta della Cina è ancora quella di affidarsi alle risorse nazionali: il carbone resta l’ultima barriera della sicurezza energetica, come più volte ribadito dai principali esponenti del Partito Comunista Cinese (PCC).
In Cina, il gas non pare destinato ad essere la fonte fossile ponte verso le rinnovabili. Nonostante sia il più grande importatore di GNL al mondo, la Cina negli ultimi dieci anni ha prodotto appena il 3% della sua elettricità con il gas.
Produrre energia elettrica con il GNL costa infatti 30-40 dollari per megawattora in più del carbone mentre eolico ed solare, anche grazie alle economie di scala della Cina, sono fonti di energia più economiche, se non vengono imputati i costi dell’intermittenza e della frammentazione geografica.
A fare da fonte fossile ponte sembra essere sempre il carbone, risorsa domestica che la Cina intende rendere più pulito. La vera priorità del PCC è, da sempre, la stabilità sociale. E la sicurezza energetica è ineludibile per il consenso popolare.
Due sono gli obiettivi del PCC sul fronte del carbone: da un lato, garantire l’affidabilità della rete elettrica attraverso la stabilizzazione economica dei proprietari delle centrali elettriche e dei gestori di rete; dall’altro, mantenere l’immagine di leader negli investimenti in energia verde e nello sviluppo di tecnologie a basse emissioni di carbonio.
Per conseguire il primo obiettivo la Cina ha sviluppato un apposito capacity market, per conseguire il secondo verranno sviluppate centrali elettriche a carbone a basse emissioni.
Il capacity market cinese e il carbone a basse emissioni
La progressiva penetrazione delle energie rinnovabili intermittenti nel mix di energetico rende infatti ineludibile la necessità di disporre di capacità dispacciabile per il funzionamento affidabile della rete elettrica. Ma l’alimentazione di riserva, per sua natura, ha tassi di utilizzo inaffidabili rendendone incerta la redditività futura dovendo, le centrali a carbone, passare dalle operazioni di carico di base alla fornitura di capacità di riserva durante i picchi di domanda.
A differenza di quelli in essere o previsti in Europa, il meccanismo di capacità previsto dal Partito Comunista Cinese non si basa sulla neutralità tecnologica ma è specifico per una risorsa: il carbone. La remunerazione per le centrali a carbone sarà una tariffa fissa per kilowatt fino a un massimo del 30% dei loro costi di capitale.
La Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme della Cina (NDRC), il principale organo di pianificazione economica del paese, e l’Amministrazione nazionale per l’energia (NEA), hanno pubblicato un piano d’azione per la “trasformazione a basse emissioni di carbonio” delle centrali elettriche a carbone. Lo scopo è migliorare l’efficienza di utilizzo del carbone accelerando la costruzione di un nuovo sistema energetico che contribuisca al raggiungimento del picco delle emissioni in Cina e, in un momento successivo, alla neutralità carbonica.
Il piano mira a dimezzare l’intensità carbonica (le emissioni di carbonio per kilowattora di elettricità prodotta) di un numero ancora indefinito di centrali entro il 2027 rispetto ai livelli del 2023. Il piano si articola in due fasi: la prima, entro il 2025, in cui le emissioni di carbonio verranno abbattute di circa il 20% rispetto al livello medio attuale di centrali simili e diverranno significativamente inferiori rispetto a quelle delle unità di energia a carbone più avanzate esistenti.
La seconda fase, entro il 2027, ridurrà le emissioni delle centrali in questione di circa il 50% rispetto al livello medio attuale portandole ad un livello di emissioni vicino a quello delle unità di generazione a gas naturale.
La riduzione delle emissioni verrà ottenuta utilizzando tre diverse tecnologie:
- la co-combustione di biomassa,
- la co-combustione di ammoniaca verde e la cattura,
- l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio (CCUS).
Il piano prevede che le centrali a carbone, una volta adeguate, aumentino la percentuale di biomassa e ammoniaca verde nella combustione fino al 20%.
Sebbene il piano stabilisca obiettivi di miglioramento dell’intensità delle emissioni, non specifica il numero di unità o di megawatt di potenza a carbone che saranno coinvolte: questo suggerisce che la finalità potrebbe non essere tanto nell’abbattimento strutturale delle emissioni quanto piuttosto nello sperimentare nuove applicazioni di co-combustione e CCUS.
Una strada in salita
Le tre tecnologie presentano una serie di vincoli il cui rispetto può ridurre ulteriormente il numero di unità di generazione ammissibili per il piano che già di per sé potrebbero venire limitate a quelle la cui costruzione, relativamente recente, imponga il prolungamento dell’esercizio per ammortizzarne i costi.
La biomassa ha una bassa densità energetica ed un’alta percentuale del suo utilizzo può ridurre l’efficienza e la produzione di energia. Inoltre, un adeguato approvvigionamento comporta che la raccolta, l’immagazzinamento e il trasporto si svolgano su distanze contenute per garantirne la sostenibilità economica. In Cina le odierne centrali elettriche a biomassa si trovano in difficoltà economiche e l’industria della produzione di energia da biomassa agricola e forestale potrebbe presto fermarsi a causa dei sussidi statali insufficienti.
La co-combustione dell’ammoniaca ha guadagnato interesse come potenziale mezzo per ridurre le emissioni delle centrali a carbone esistenti e la Cina è oggi il più grande produttore di ammoniaca con il 30% della produzione globale.
Come l’idrogeno, l’ammoniaca è disponibile in diversi colori ma affinché nel processo di co-combustione di ammoniaca e carbone, in una centrale a carbone esistente e ristrutturata a tal fine, il suo contributo abbatta le emissioni è necessario si tratti di ammonica verde. Inoltre, l’inferiore densità energetica rispetto al carbone (18,6 MJ/kg rispetto a 24-35 MJ/kg) impone l’utilizzo di una maggiore quantità di ammoniaca per produrre la stessa quantità di energia.
Un tasso di co-combustione del 20% di ammoniaca e 80% di carbone significa comunque che l’80% delle emissioni di carbone rimane intonso mantenendo, di fatto, emissioni significativamente superiori a quelli di una centrale a gas. Inoltre, il 99% della produzione dell’ammoniaca oggi si basa su combustibili fossili e si traduce in 1,6 tonnellate di CO2 per tonnellata di ammoniaca prodotta. Fa eccezione l’ammoniaca verde, prodotta mediante energia rinnovabile le cui emissioni sono relativamente basse (sono stimati fattori di emissione tra i 100-300 gCO2/kWh).
Rinnovabili e carbone: percorsi paralleli o coincidenti?
Nonostante il loro rapido sviluppo, la capacità di generazione di energia rinnovabile del paese non ha ancora raggiunto la scala per fornire sufficiente elettricità in eccesso per supportare questa tecnologia che ha un significativo consumo energetico.
Allo stato attuale della tecnologia, la co-combustione di ammoniaca pare ancora un percorso inefficace per ridurre le emissioni del settore energetico per quanto, in un incontro dei ministri dell’Energia del G7, sia stata definita un potenziale strumento di “efficace riduzione delle emissioni” .
La Cina non ha ancora stabilito una metodologia per misurare l’effetto di riduzione delle emissioni della tecnologia di miscelazione e questo aspetto potrebbe condizionare i risultati del piano d’azione.
Inoltre, è ipotizzabile che il piano possa distrarre dal focus della transizione energetica o portare ad accuse di greenwashing: la sensazione è chel’energia a carbone e quella rinnovabile pare avanzino più su percorsi paralleli che coincidenti.
Ma in questo momento, in cui è probabile che il paese manchi i suoi 14 obiettivi quinquennali in materia di energia e clima, i pianificatori energetici sono impegnati sia a bilanciare gli interessi del settore energetico del carbone che a ridurre le emissioni del settore dell’energia.
Giovanni Brussato è ingegnere minerario
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Attualmente il carbone costituisce la seconda fonte energetica consumata a livello mondiale, dopo il petrolio e prima del gas naturale. Come per gli altri due combustibili fossili, il suo consumo è in continuo aumento e si prevede che questo trend non solo non si fermerà, ma aumenterà significativamente. Inoltre, le riserve mondiali di carbone sono le più cospicue rispetto agli altri combustibili fossili: mentre petrolio e gas naturale, ai livelli di incremento dei consumi previsti, dureranno qualche decennio, le riserve di carbone potranno durare anche oltre un centinaio di anni.
Utilizzo attuale e trend futuro
Per approfondire l’argomento è importante conoscere la differenza fra riserve e risorse: per riserve si intendono i depositi già identificati e sfruttabili economicamente, per risorse si intendono i depositi probabili ma non identificati con certezza e/o quelli sfruttabili a costi non competitivi.
Per quanto concerne i combustibili fossili, secondo il Rapporto della British Petroleum del 2008, l’indicatore che consente di stimare le riserve è costituito dal rapporto R/P, dove R indica le riserve attualmente stimate e P la produzione annua attuale. In base a questo indicatore le riserve stimate dovrebbero durare: 41,6 anni il petrolio, 60,3 anni il gas naturale e 133 anni il carbone. Tenendo in debita considerazione la crescita della popolazione mondiale e l’incremento dei consumi, è ozioso pretendere, come vorrebbero le anime belle, che si attui una decisiva contrazione dell’utilizzo dei combustibili fossili. Questo nonostante si stiano costruendo nuove centrali nucleari e malgrado l’incremento delle cosiddette energie rinnovabili. Su queste ultime è necessario un chiarimento di fondo: esistono due tipologie di energie rinnovabili, quelle che sono veramente alternative ai combustibili fossili, ossia, oltre al nucleare, l’idroelettrico, il geotermico, il solare termodinamico ed in parte le biomasse; e quelle che sono integrative, ossia che necessitano sia disponibile una fonte che fornisca energia (carico di base) con continuità ed in quantità utile. Fra queste si annoverano il fotovoltaico, il solare termico, l’eolico, le maree, ecc. Inoltre, ulteriori handicap delle integrative sono costituiti dalla bassa densità energetica e dall’intermittenza della disponibilità, per cui spesso producono energia quando non serve che quindi va sprecata.
Impatto ambientale e sanitario
L’impatto ambientale e sanitario delle centrali termoelettriche alimentate a carbone è significativo, per cui sono oggetto di ricerca e sviluppo nuove tecnologie tese ad abbassare significativamente questo impatto: quindi analizziamo l’impatto attuale e di seguito discutiamo le tecnologie volte a ridurlo.
Per tracciare un bilancio corretto dell’impatto dell’utilizzo del carbone per produrre energia, dobbiamo farlo per tutto il ciclo del combustibile. Partiamo quindi dall’estrazione, che presenta un altro grado di inquinamento e di perdite di vite umane per incidenti (senza contare gli invalidi ed i morti causati dall’antracosi, malattia altamente invalidante), secondo il WHO (Word Health Organization) valutabile statisticamente in circa 7000 addetti l’anno di cui 5000 in Cina, per continuare con il trasporto con la conseguente dispersione delle polveri, cosa che si verifica puntualmente anche nel corso dell’alimentazione degli impianti, specialmente in presenza di vento, la combustione con la conseguente formazione di gas e ceneri, l’impatto dei gas sull’atmosfera e delle ceneri su suolo e falde, per finire con lo smantellamento degli impianti. Inoltre, è noto che il carbone che viene combusto non è mai puro, ma presenta quantità significative di metalli pesanti (uranio compreso), mercurio (altamente tossico e cancerogeno, causa effetti nefasti al sistema nervoso provocando ritardi mentali), zolfo (ad esempio il carbone del Sulcis in Sardegna ne presenta quantità industriali tanto che a volte prende fuoco quando portato in superficie!), ossidi di zolfo e di azoto, metano ed altri inquinanti. Secondo un articolo pubblicato dalla prestigiosa rivista Scientific American nel dicembre 2007, “una centrale a carbone disperde nell’ambiente 100 volte più radiazioni di una centrale nucleare che produce la stessa quantità di energia”. Inoltre, le scorie sono disperse soprattutto nelle ceneri. Tra l’altro, una centrale da 1000 MW termici, quindi 400 MW elettrici, produce ogni anno 240.000 metri cubi di ceneri che, inevitabilmente, sono disperse, almeno in parte, nell’ambiente. Va sottolineato che le nanoparticelle > PM 10 (contenute anche nei fumi che escono dalle ciminiere delle centrali) non vengono bloccate dal “filtro” nasale. E’ vero che, da alcuni anni, per Legge, in quasi tutti i Paesi europei ed in Nord America, le ceneri sono (o dovrebbero essere) compattate e/o utilizzate nei cementifici, ecc., ma questo avviene da pochi anni, mentre per decenni sono state sotterrate o disperse in mare, cosa che avviene regolarmente nel resto del mondo. Quelle sotterrate, oltre ad inquinare i terreni, inquinano le falde, quelle disperse in mare, provocano danni minori, soprattutto morie di organismi delle zone interessate. Le centrali termoelettriche a carbone più moderne non utilizzano più la combustione diretta, ma privilegiano la tecnologia letto fluido o la gassificazione. Esistono però tecnologie innovative che riducono drasticamente l’impatto ambientale provocato dalla combustione del carbone. Pregevoli da questo punto di vista quelle sviluppate dall’ENEA (come più sotto brevemente descritto), e diverse tipologie di filtri, sistemi di abbattimento dei fumi, postcombustione, ecc.
il carbone rimane però il combustibile con il maggiore impatto ambientale e sanitario nei Paesi più arretrati tecnologicamente, per cui sarebbe auspicabile incrementare il passaggio tecnologico da parte dei Paesi più avanzati, eventualmente utilizzando il mercato delle emissioni, oppure come aiuto ai PVS.
In molti Paesi, anche tecnologicamente avanzati come la Germania, si brucia anche la torba che è caratterizzata da un basso potere calorifico e da rilevante percentuale di acqua. La Germania, al di la della dissennata politica energetica consistente nel notevole finanziamento concesso alle cosiddette energie alternative, addirittura comprendente la costruzione di dispersori di energia elettrica e della priorità concessa loro nel dispacciamento (cosa quest’ultima che avviene anche in Italia), continua a costruire centrali a carbone: l’ultima, licenziata a fine dicembre dello scorso anno, è la più grande al mondo, e ne sono in costruzione altre sette, e sta distruggendo interi villaggi per estrarre la torba presente nel suolo.
Il maggiore produttore ed utilizzatore di carbone è comunque la Cina, seguita dagli Stati Uniti e dall’India.
Secondo il WHO (Word Health Organization) una centrale a carbone da 1000 MW termici, ossia 400 MW elettrici, appartenente alla tipologia più diffusa in Europa, causerebbe ogni anno 4000 morti per carcinomi e malattie polmonari. Sempre secondo lo stesso Ente, in Europa possiamo quantificare una morte ogni due causata dalle emissioni delle centrali a carbone, questo senza calcolare le morti e le malattie indirette causate dall’inquinamento delle falde causato dalle ceneri. Va aggiunto che, specie nei Paesi in Via di Sviluppo, spesso le centrali sono obsolete e non hanno sistemi di contenimento e/o trattamento dei fumi.
Nella Tabella 4 sono indicate le centrali in costruzione nei Paesi extraeuropei che stanno incrementando maggiormente l’utilizzo del carbone.
Utilizzo a minore impatto ambientale
Mentre in Italia continuare con il carbone ha poco senso, anche perché questo è comunque importato, i Paesi che dispongono di vaste riserve ed incrementano continuamente i consumi energetici, difficilmente ne abbandoneranno l’utilizzo. Per citare un esempio significativo, la Cina, come discusso più sopra, sta implementando continuamente la costruzione di nuove centrali, ed anche se sta diversificando la produzione energetica, la maggior parte di questa avviene per mezzo della combustione del carbone. Questo rende critica la situazione ambientale globale e quindi acuisce la necessità di utilizzare le nuove tecnologie di combustione e di trattamento delle ceneri. Anche se, come sostengono vari Autori, l’incremento dell’effetto serra non fosse causato dalle attività umane, l’impatto provocato dalla combustione del carbone sull’ambiente e sulla salute è comunque devastante. Sono attualmente in corso studi e ricerche volte a diminuire drasticamente l’impatto ambientale e sanitario del carbone, ma è illusorio pensare che questo avvenga su scala mondiale e possa in ogni caso essere risolutivo. Pregevole da questo punto di vista la ricerca effettuata dall’ENEA: “Modelli avanzati di combustione del carbone e della produzione di inquinanti. Simulazioni CFD del reattore ISOTHERM-ITEA alimentato con carbone Sulcis”, poiché dimostra la fattibilità di abbattere drasticamente l’impatto prodotto dalla combustione di carbone anche di scarsa qualità.
Sequestro della CO2
Un argomento che viene spesso discusso concerne il sequestro della CO2 (anidride carbonica) prodotta dalla combustione dei fossili, poiché ritenuta la principale causa dell’innalzamento dell’effetto serra. In effetti, esistono svariati progetti in tal senso, di seguito li analizziamo con qualche dettaglio, prendendo in considerazione i vantaggi gli svantaggi ed i possibili rischi connessi ad ognuno di essi:
– mineral storage: consiste, come si desume dal nome, nello stoccaggio in minerali, ottenuto facendo reagire l’anidride carbonica con minerali contenenti calcio e manganese, imitando pertanto quanto normalmente avviene in natura, ma velocizzando il processo di alcuni ordini di grandezza. Ovviamente si possono anche utilizzare gli ossidi di calcio e di manganese provenienti da rifiuti industriali. Lo svantaggio di questa tipologia di confinamento consiste nella necessità di un significativo surplus di energia, secondo varie valutazioni, valutabile dal 60 al 180 per cento;
– miniere di carbone e giacimenti esausti di petrolio e gas naturale: questa tecnica consiste nell’iniezione di CO2 nelle miniere di carbone e nei giacimenti esausti di petrolio e gas naturale. Questa tecnologia richiede attente valutazioni, poiché l’immissione di CO2 nel sottosuolo può comportare reazioni chimiche con le rocce di copertura e con le altre rocce presenti provocando la precipitazione dei carbonati e la riduzione della permeabilità, la variazione del PH dei fluidi presenti causandone l’acidificazione e quindi la morte degli organismi del sottosuolo ed il disfacimento delle rocce, evento che comportala la liberazione degli eventuali metalli pesanti presenti. Può anche causare la riattivazione di faglie per l’aumentata pressione sulle rocce; può anche determinare la fluidificazione dell’olio, il ripristino delle pressioni nel caso di giacimenti di gas e, nel caso del carbone, la produzione di metano qualora la miniera non sia sfruttabile dal punto di vista economico per estrarre carbone. Non va neanche esclusa la possibile risalita di quantità significative di anidride carbonica a causa di terremoti o bradisismi. Inoltre, possibili rilasci subitanei, possono provocare la morte degli animali e degli uomini presenti nella zona interessata dall’evento poiché l’esposizione a concentrazioni di CO2 in aria superiori al 7% provoca morte o danni alla salute irreversibili.;
– profondità oceaniche: negli oceani sono già presenti enormi quantità di anidride carbonica e tutta quella prodotta dall’attività umana potrebbe in teoria essere aggiunta a quella già presente, poiché il rilascio attraverso la superfice degli oceani è molto lento e, se iniettata sotto i 1000 metri, potrebbe rimanervi confinata per centinaia di anni. È però necessario considerare il ruolo che svolge nel ciclo biogeochimico del carbonio, provocando l’aumento di PH con il conseguente impatto sulle Specie, determinando quindi cambiamenti negli ecosistemi marini. Una eventualità particolarmente critica è rappresentata dal possibile rilascio in atmosfera di CO2 in tempi brevi. Questo potrebbe comportare, se rilasciata in quantità significative, il trasporto in superficie degli idrati di metano (ossia clatrati, gabbiette di ghiaccio d’acqua contenenti metano allo stato liquido, che si trovano soprattutto alla base delle scarpate continentali e contengono almeno il 90% di tutto il metano presente sulla Terra). Questo evento è già avvenuto in passato, allora per cause naturali, quando l’anidride carbonica, allora di provenienza vulcanica, superò un livello di concentrazione elevato (ma non sappiamo di quanto, poiché le uniche testimonianze di questo evento sono geomineralogiche), ciò ha portato, alla fine del Permiano (circa 255 milioni di anni fa), ad un innalzamento notevole della temperatura, stimato in un range di 40/50 °C, causando la più grande delle estinzione di Specie verificatesi da quando esistono Specie pluricellulari.
Prof. Ettore Ruberti