L’Africa è e sarà uno dei continenti più vulnerabili ai cambiamenti climatici ma anche il più efficace ad accogliere gli investimenti per farvi fronte, se solo la finanza e il settore privato capiranno che da questo dipende la loro sostenibilità economica. L’articolo di Michael Olabisi su ENERGIA 2.24.
La transizione energetica a livello globale segna il passo, con una velocità inferiore a quella necessaria. Le fossili contano ancora per l’82% dei consumi totali, con una riduzione marginale in termini percentuali rispetto a quarant’anni fa, ma con un’enorme crescita in termini assoluti, quel che più conta guardando alle emissioni.
Vedere solo una faccia della medaglia – l’aumento delle rinnovabili – trascurando l’altra – l’aumento delle fossili – crea false illusioni. E le realtà e illusioni della transizione energetica è per l’appunto il tema che abbiamo messo al centro del numero 2.24 di ENERGIA con un terzetto di articoli: Vaclav Smil sui fabbisogni materiali della transizione; G.B. Zorzoli sulla vulnerabilità (ovvia ma trascurata in Europa) delle rinnovabili ai danni atmosferici; Goehring e Rozencwajg sull’impatto delle auto elettriche sulla riduzione dei consumi di petrolio con un’analisi del caso norvegese.
Tra le varie ragioni del lento progredire della transizione ve ne è una poco considerata: l’inefficiente allocazione mondiale degli investimenti definiti green. Tema che a più riprese solleviamo sia sulla Rivista che su RivistaEnergia.it. Si vedano, ad esempio, i post di quest’anno di Alberto Clò (Le emissioni continuano a crescere? Investire nel Sud del mondo) e di Enzo Di Giulio (Net zero: gli investimenti green ci sono, ma sbagliano target), ma anche quello del 2020 di Fabio Pistella (La realtà è altrove/2: investire dove c’è veramente bisogno).
Gli investimenti green ci sono, ma la loro allocazione è inefficiente
Guardando la distribuzione geografica mondiale delle emissioni emerge una netta divaricante tendenza: da un lato, la strutturale decrescita delle emissioni nelle aree avanzate e, dall’altro, una dinamica opposta nelle aree emergenti, originata dalla crescita della domanda di energia – per l’incremento demografico e la crescita del reddito pro-capite – perlopiù soddisfatta dalle fonti fossili. Questa dinamica relativa si è verificata anche nel 2023.
La crescita delle emissioni globali dell’1,1% è la risultante, infatti, di un loro calo del 4,5% nei paesi avanzati (tornate ai livelli di mezzo secolo fa), contro un aumento del 6,6% nei paesi in via di sviluppo, con uno scarto quindi superiore a due punti percentuali. “Morale”, scrive Alberto Clò nella presentazione del numero, “se non si abbassa la curva crescente delle loro emissioni non si riuscirà a piegare quella delle emissioni globali. Questo non sta avvenendo. Per riuscirvi, bisognerebbe aumentare di molto gli investimenti nel Sud del mondo, dirottandoli in parte dal Nord”.
“Dal 2019 al 2023 gli investimenti green sono aumentati a livello mondiale di un 10% all’anno, globalmente quindi di circa il 50%, raggiungendo nel 2023 i 1.800 miliardi di dollari(22). Di questi, l’85% è stato realizzato nei paesi avanzati (e in Cina) e solo il 15% nel mondo povero, nonostante conti per un terzo del reddito mondiale e per i due terzi della popolazione mondiale(23). (…)
Investendo nel Sud anche solo una parte di quel che si è speso nei paesi avanzati, specie in Europa, si sarebbero ridotte le emissioni globali in misura ben maggiore di quel che è avvenuto. In sintesi: la produttività della spesa in termini di minori emissioni è nel Sud molto molto maggiore. Perché questa riallocazione non avvenga è spiegabile con più ragioni: la minor attrattività economica degli investimenti nei paesi poveri; la certezza degli incentivi in quelli avanzati; la pressione delle agguerrite lobby delle rinnovabili; l’attenzione alle emissioni locali e non globali”.
Allocazione degli investimenti e vulnerabilità delle economie emergenti: due facce della stessa medaglia
Il tema dell’allocazione delle risorse si incrocia con quello della vulnerabilità delle economie emergenti. Queste infatti non solo faticano ad attrarre gli investimenti energetici che produrrebbero un maggior risultato in termini di riduzione globale delle emissioni, ma sono anche quelle che maggiormente sono afflitte dagli effetti dei cambiamenti climatici.
A questo tema sono dedicati tre articoli nel numero 2.24 di ENERGIA. Il primo è di Michael Olabisi della Michigan State University, che sostiene l’impossibilità per i paesi poveri di accrescere il loro debito per finanziare progetti green data la dimensione degli investimenti che sarebbero necessari rispetto alla dimensione delle loro economie. Per contrastare efficacemente i cambiamenti climatici è necessario che la finanza e il settore privato incanalino gli investimenti verso l’Africa.
Il secondo è di Minh-Ha-Duong dell’Università di Hanoi, il quale analizza le esperienze delle Just Energy Transition Partnership che, attraverso accordi tra importanti paesi avanzati, finanziano progetti nella transizione di paesi emergenti, così da ridurre l’ancoraggio spesso dominante al carbone.
Il terzo è dedicato al fronte dell’adattamento, il quale, come ben argomenta Enzo Di Giulio, sarebbe in grado di ridurre sensibilmente il rischio climatico se vi venissero dedicati gli investimenti quanto mai necessari a fronte del ritardo che continua ad accumularsi sul fronte mitigazione e dei danni provocabili da fenomeni estremi sempre più frequenti e intensi: 250 mld doll. quelli imputabili ai tre uragani che si sono verificati nel Centro America nel 2017, pari al 10% del Pil italiano. Quel che potenzialmente rende «vulnerabili» non solo i paesi del Sud del mondo, ma tutte le economie del globo, la nostra inclusa. Per questo la seconda parte dell’articolo è dedicata all’analisi del piano d’adattamento che il Mase ha rilasciato lo scorso dicembre.
Chi salderà il conto climatico dell’Africa?
In questo post presentiamo il primo di questo trittico: Il conto climatico dell’Africa. Il continente africano è e sarà uno dei più vulnerabili ai cambiamenti climatici, in termini sia umani che economici. È, per contro, quello meno attrezzato nel far fronte ai suoi effetti e implicazioni, ma al tempo stesso più adatto a trarre opportunità dalla crisi. I tradizionali strumenti della finanza multilaterale basata sul debito non paiono sufficienti e idonei per consentire all’Africa di fronteggiare i cambiamenti climatici. Occorre, secondo Michael Olabisi, esplorare nuove idee (come l’integrazione con altri accordi finanziari) e incanalare la potenza di fuoco finanziaria del settore privato. L’attuale modello di investimenti energetici in Africa evidenzia sia l’opportunità di fare meglio, sia i pregressi fallimenti di un sistema senza incentivi coordinati.
“I finanziamenti per il clima necessari al continente si aggiungono a quelli necessari per lo sviluppo e per la ripresa post-Covid. Servizi pubblici inadeguati, se non del tutto carenti, nel campo della sanità, dei trasporti e dell’istruzione frenano la crescita economica, così che alcuni paesi fanno ricorso al debito per colmare le lacune nei finanziamenti allo sviluppo”. Ma “per finanziare le azioni di mitigazione del clima, ricorrere ad ulteriori prestiti non è una buona opzione, per almeno tre ragioni”: limitata capacità di contrarli; esigenze di investimento vanno oltre la capacità delle istituzioni multilaterali di prestito e sviluppo del mondo; il debito pubblico potrebbe non essere il meccanismo di finanziamento più efficace per alcuni degli interventi climatici più promettenti.
In primo luogo, serve Una finanza «climate-friendly» (par. 1). “Tra le nuove idee da esplorare vi è l’integrazione del debito con altri accordi finanziari che rispondano alla sfida del cambiamento climatico”.
Le 500 principali aziende globali hanno registrato più di 2,9 trilioni di dollari di profitti nell’anno fiscale terminato a marzo 2023
In secondo luogo, è necessario coinvolgere i mercati privati (par. 2). “Il settore privato dispone di capacità per sostenere una spesa di 1,3 trilioni di dollari l’anno necessaria per l’adattamento climatico. (…) Se le aziende che effettuano questi investimenti convergessero uniformemente verso l’azione per il clima, il settore privato statunitense da solo potrebbe, in linea di principio, finanziare una transizione globale alle energie rinnovabili 15 volte maggiore del necessario”.
In terzo luogo, occorre rendersi conto che spingere la finanza a promuovere gli investimenti in Africa contro i cambiamenti climatici è una soluzione win-win (par. 3). “Accelerare la transizione verso le energie rinnovabili nei paesi africani è necessario per il bene del mondo. Può essere vantaggioso per tutti, se fatto bene. Le economie locali vincono, poiché gli investimenti ne guidano lo sviluppo, mentre l’economia globale vince grazie alla combinazione di profitti sostenuti e perdite climatiche evitate”.
In definitiva, dirottare le risorse verso dove più servono – il Sud del mondo – è la via per contrastare il surriscaldamento globale, perché, conclude l’Autore, “sarebbe un fallimento politico se i governi dei paesi del Nord Europa, come Germania e Regno Unito, spendessero miliardi per sostenere l’installazione nel loro paese di pannelli solari che potrebbero produrre il 40% in più di energia in un ambiente tropicale come Costa d’Avorio o Ghana”. Ma è questo ciò che avviene.
“È possibile immaginare un futuro in cui la maggior parte delle aziende perseguirà la sostenibilità ecologica globale perché da essa dipende la loro sostenibilità economica?”
Il post presenta l’articolo di Michael Olabisi Il conto climatico dell’Africa pubblicato su ENERGIA 2.24 (pp. 50-53)
Michael Olabisi, Università del Michigan
Foto di Oluwaseyi Aiyeobasan da Pixabay
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