30 Settembre 2024

Rapporto Draghi: politica climatica, causa o soluzione della scarsa competitività?

LinkedInTwitterFacebookEmailPrint

Può la politica climatica essere al contempo causa e soluzione della scarsa competitività come sostiene il Rapporto Draghi? Il Rapporto indica l’accelerazione della politica climatica come soluzione per rafforzare la competitività, ma lo stesso Rapporto Draghi conferma come questa sia causa dell’aumento dei costi energetici per l’industria e le famiglie europee.

L’accento posto dal rapporto Draghi sull’accelerazione della decarbonizzazione come percorso verso la competitività è fondamentalmente fuorviante. Il Rapporto Draghi riconosce indirettamente l’impatto negativo della politica climatica sulla competitività europea, ma sostiene che “la decarbonizzazione faciliterà il passaggio della produzione di elettricità a fonti energetiche pulite, sicure e poco costose”.

L’esperienza dell’ultimo decennio dimostra che le politiche aggressive di decarbonizzazione hanno portato all’esatto contrario: hanno fatto aumentare i costi energetici per l’industria e le famiglie europee. Una realtà che lo stesso Mario Draghi evidenzia citando i prezzi dell’elettricità, da due a tre volte superiori a quelli degli Stati Uniti, e i prezzi del gas naturale, quattro-cinque volte più alti (si veda il mio precedente articolo Errori e limiti del rapporto Draghi sull’energia).

 L’attenzione alla politica climatica: un freno alla competitività

L’ex presidente della BCE ammette: “Se l’Europa non può diventare più produttiva, saremo costretti a scegliere. Non saremo in grado di diventare, allo stesso tempo, leader nelle nuove tecnologie, faro della responsabilità climatica e attore indipendente sulla scena mondiale. Non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale. Dovremo ridimensionare alcune, se non tutte, le nostre ambizioni. […] Siamo arrivati al punto in cui, senza un’azione, dovremo compromettere il nostro benessere, il nostro ambiente o la nostra libertà”.

La libertà, un tesoro prezioso strappato alla morsa dell’oppressione a un costo incommensurabile, deve rimanere il faro dell’UE. Questo vale anche se alcuni ambientalisti hanno suggerito di ridurla per imporre una riduzione delle emissioni di CO₂, una proposta inutile e impraticabile (sul tema democrazia e autocrazie di fronte alla crisi climatica si veda l’ultimo numero di ENERGIA, ndr). Sarebbe moralmente indifendibile rinunciare al welfare, soprattutto quando sappiamo che il potere d’acquisto non è più in grado di garantire una buona qualità di vita, e nemmeno l’assistenza sanitaria, a una parte significativa degli europei.

Aumentare la competitività aumentando la spesa?

La terza opzione, “compromettere il nostro ambiente”, è purtroppo mal formulata. Per preservare il nostro benessere, dobbiamo infatti ovviamente evitare l’inquinamento e quindi proteggere l’ambiente, senza però diventare “un faro di responsabilità climatica”, come Draghi ha altrove affermato.

Questa ammissione non fa che confermare che la corsa unilaterale dell’UE verso la decarbonizzazione e la politica climatica europea sono sinonimo di un significativo declino economico e perdita della nostra competitività. Draghi è infatti consapevole che il resto del mondo continuerà ad aumentare in modo significativo le emissioni per aumentare la propria competitività attraverso l’energia abbondante e a basso costo, cioè i combustibili fossili. L’ossessione per il net zero ha portato a decisioni irrazionali, come la chiusura prematura delle centrali nucleari o il divieto dei motori a combustione interna nel 2035, senza considerare le realtà tecnologiche ed economiche.

Il costo di questa politica ammonta a centinaia di miliardi di euro all’anno. Secondo uno studio della Banca centrale europea (2021), gli investimenti necessari per raggiungere gli obiettivi climatici dell’UE ammonterebbero a 330 miliardi di euro all’anno fino al 2030. Il rapporto Draghi si spinge ancora oltre, sostenendo di spendere 700-800 miliardi di euro all’anno (tra il 4,4% e il 4,7% del PIL dell’UE) per la sua strategia complessiva.  

Un onere che la nostra industria, già indebolita, non può sostenere di fronte alla concorrenza internazionale, e nemmeno i nostri cittadini, già pesantemente tassati al punto da mettere a rischio il loro potere d’acquisto e l’accesso all’assistenza sanitaria.

Il caso dell’automotive

Consideriamo l’esempio dell’industria automobilistica europea, orgoglio della nostra economia. Il mandato di passare ai veicoli elettrici entro il 2035 rappresenta una sfida monumentale. Non solo richiede massicci investimenti in nuove linee di produzione, ma rischia anche di cancellare centinaia di migliaia di posti di lavoro nel settore dei motori a combustione.

Nel frattempo, i nostri concorrenti cinesi, che non sono gravati da tali vincoli normativi, stanno rapidamente guadagnando quote di mercato, come evidenzia il rapporto, passando “dal 5% nel 2015 a quasi il 15% nel 2023, mentre la quota delle case automobilistiche europee sul mercato europeo dei veicoli elettrici è scesa dall’80% al 60%”.

L’inflazione legislativa

Agli oneri normativi è poi da aggiungere l’inflazione legislativa. Dal 2019, sottolinea il rapporto, l’UE ha emanato circa 13.000 atti, mentre gli Stati Uniti hanno approvato circa 3.500 leggi e risoluzioni a livello federale.

Il rapporto evidenzia correttamente che le piccole e medie imprese europee ne sono particolarmente colpite. Quasi l’80% del programma di lavoro della Commissione riguarda le PMI, ma solo circa la metà delle proposte prevedono delle valutazioni d’impatto su di esse.

Le proposte presenti nel rapporto per superare questa situazione sono altamente auspicabili, ma difficilmente risultano compatibili con la volontà di continuare a imporre al mondo delle imprese obiettivi vincolanti decisi arbitrariamente.

Contraddizione in termini

Il “piano congiunto per la decarbonizzazione e la competitività” proposto dal rapporto è una contraddizione in termini: una decarbonizzazione aggressiva compromette intrinsecamente la competitività industriale, aumentando i costi energetici e riducendo l’affidabilità.

Il piano riconosce la sfida della “decarbonizzazione asimmetrica” che le industrie dell’UE devono affrontare: costi di investimento e prezzi del carbonio più elevati rispetto ai loro concorrenti internazionali. Tuttavia, le soluzioni proposte, come l’aumento dei sussidi e un meccanismo di aggiustamento del carbonio alle frontiere, sono inadeguate a contrastare gli svantaggi fondamentali in termini di costi.

Il rapporto afferma che “nel medio termine, la decarbonizzazione faciliterà il passaggio a fonti energetiche pulite, sicure e a basso costo”. Un approccio più prudente sarebbe quello di moderare il ritmo di riduzione delle emissioni, permettendo all’innovazione tecnologica di maturare e ai costi di diminuire.

L’invito del rapporto a mantenere gli obiettivi climatici per il 2030, accelerando al contempo gli interventi, potrebbe portare a un’ulteriore deindustrializzazione, con lo spostamento della produzione in regioni dove i costi energetici e gli oneri normativi sono più bassi.

Serve una gerarchia di priorità

Draghi e i responsabili politici dell’UE devono stabilire una priorità tra una politica climatica di rapida riduzione delle emissioni e la competitività industriale. L’idea che l’UE possa raggiungere contemporaneamente entrambe le cose attraverso sussidi sostanziali e politica industriale è una falsità economica. La competitività delle industrie ad alta intensità energetica dovrebbe essere prioritaria rispetto al raggiungimento di obiettivi di emissioni a breve termine.

La politica energetica europea di rapida decarbonizzazione non ha fornito il sostegno necessario alle industrie ad alta intensità energetica per adattarsi. Quel che ha portato alla delocalizzazione di alcune industrie, come quelle siderurgiche e chimiche, in regioni con normative meno severe.

La causa è una mancanza di comprensione del principio fondamentale dell’energia. I politici, compreso Draghi, si concentrano spesso sull’elettricità, trascurando il resto per ignoranza o perché si rendono conto di avere un’influenza minima sull’energia finale più significativa: il calore. Alcuni sono consapevoli che non esiste una soluzione semplice e popolare da proporre.

L’importanza (ignorata) di calore e fiamme per le industrie ad alta intensità energetica

L’elettricità rappresenta solo il 22% del consumo finale di energia nell’UE, i trasporti il 27% e il calore circa il 50%. Concentrandosi sull’energia nucleare e sulle turbine eoliche o sui pannelli solari fotovoltaici, si affronta solo un quinto del problema energetico.

Si trascura così l’energia finale industrialmente più importante: il calore, l’energia termica o le fiamme. Quasi tutte le industrie ne continueranno a fare affidamento per i loro processi: siderurgia, metallurgia, cemento, vetro, mattoni e ceramica, petrolchimica, riciclaggio e altro ancora. Tuttavia, il rapporto Draghi non menziona questa necessità, limitandosi ad alludere alle esigenze dell’industria senza specificare il tipo di energia richiesta.

Nel breve e medio termine, è improbabile che il gas utilizzato per alimentare queste industrie e questi servizi venga sostituito dalle energie rinnovabili. L’illusione della pompa di calore per tutti non merita nemmeno di essere menzionata, e infatti il rapporto fa bene a non farlo. Pertanto, il gas continuerà a svolgere un ruolo fondamentale nel prossimo futuro e l’UE dovrà gestirne in modo efficace e sicuro l’approvvigionamento.

Una politica energetica semplice e lungimirante

Dovrebbe sviluppare una politica energetica geopolitica lungimirante come quella  sviluppata dalla Commissione Prodi nel 2000. Semplice, ma estremamente perspicace: diversificare i Paesi di approvvigionamento, nonché le rotte e i mezzi di trasporto. Questa dovrebbe essere la priorità della prossima Commissione e del nuovo Parlamento.

Nonostante le sue lacune, il rapporto Draghi merita un riconoscimento per aver illuminato le contraddizioni della politica energetica europea. Questo rapporto, pur non affrontando completamente le intricate sfide energetiche dell’UE, sottolinea gli ostacoli che non possono essere superati senza un significativo cambiamento di paradigma. È giunto il momento che l’UE torni a un approccio pragmatico alla politica energetica.

Di fronte alle sfide della competitività che preoccupano Draghi, egli ricorre ai metodi convenzionali di un ampio intervento statale nelle tecnologie verdi, trascurando gli indicatori di mercato e l’efficienza economica. Questo approccio trascura che l’innovazione e la competitività sono prodotti dell’impresa privata, non di schemi burocratici.

Un approccio più cauto per migliorare la competitività dell’UE comporterebbe la necessità di concentrarsi sulla garanzia di forniture energetiche diversificate e a prezzi accessibili, senza esclusioni predeterminate, compresi i combustibili fossili, il nucleare e le fonti rinnovabili. Ciò consentirebbe alle forze di mercato, piuttosto che alla pianificazione centralizzata, di guidare la transizione energetica a un ritmo sostenibile.


Samuele Furfari è professore di geopolitica dell’energia, ESCP Business School. Il suo ultimo libero è Insicurezza energetica. La distruzione organizzata della competitività dell’UE



0 Commenti

Nessun commento presente.


Login