La presentazione del nuovo numero della rivista trimestrale ENERGIA (3.24) a firma del direttore Alberto Clò.
La dura prova dei numeri
L’efficacia di ogni politica si misura, o si dovrebbe misurare, dalla sua capacità di conseguire gli obiettivi cui era finalizzata. Nel caso delle politiche climatiche: la riduzione delle emissioni globali. Obiettivo disatteso con una loro ininterrotta crescita, proseguita anche nel 2023 (+2,1%), che ha portato all’8,3% quella complessiva nel decennio 2013-2023. Da qui l’invito di Larry Fink, Ceo di Black Rock, a perseguire un «energy pragmatism» delle politiche climatiche o di JP Morgan di effettuarne un «reality check». Verifica che su ENERGIA proponiamo anche su questo numero, in primis grazie al contributo di Stefania Migliavacca ed Enzo Di Giulio, i quali, sulla base delle tendenze in atto e simulazioni sul futuro, dimostrano come il target net-zero al 2050 annunciato da 145 paesi «sia ancora straordinariamente lontano e dunque non realistico», per numerose ragioni: (a) le emissioni di CO2 dovrebbero diminuire di dieci volte il calo osservato nel passato quinquennio; (b) la capacità rinnovabile dovrebbe aumentare di 1,5 volte; (c) l’efficienza energetica di due volte; (d) l’intensità carbonica dell’elettricità dovrebbe diminuire del 16% all’anno, contro l’1% dell’ultimo quinquennio. L’articolo completa una serie di contributi dedicati alla verifica della fattibilità dell’obiettivo net-zero entro il 2050, avviata nel 2021 (1). (…) Alle realtà e illusioni della transizione energetica è dedicata anche la riflessione di Chicco Testa, il cui titolo, non a caso, riprende quello di un trittico di articoli proposti sullo scorso numero (2). Lo scarto tra aspettative e dati è ciò che caratterizza, secondo Testa, anche la più recente versione del Pniec italiano, che ritiene irrealizzabile in alcuni dei suoi più qualificanti obiettivi: rinnovabili, efficienza, elettrificazione dei trasporti. Una «dissociazione cognitiva che ci fa immaginare realtà inesistenti», afferma l’Autore, mentre «dovremmo imparare a leggere il mondo per quel che è e non per come ci piacerebbe che fosse». La domanda mondiale di energia è cresciuta nel 2023 del 2%, al di sopra della media annua dell’1,4% del precedente decennio. (…) L’energia resta quindi un propellente fondamentale per l’auspicabile crescita delle popolazioni povere del mondo. A soddisfare la domanda mondiale sono state soprattutto le fonti fossili, con una quota nel 2023 sui consumi totali dell’81,5% (3), mentre le rinnovabili sono rimaste marginali nonostante il loro forte aumento percentuale. (…). Fino a quando le fonti green saranno additive e non sostitutive delle fossili, il «giro vizioso» – più crescita, più energia, più fossili, più emissioni – non si interromperà. (…) Difficile, se non del tutto impossibile, azzerare invece quelle dell’universo digitale (…). Se col fisico Roberto Battiston abbiamo evidenziato (…) i benefici del binomio energia-intelligenza artificiale, in questo numero di ENERGIA esploriamo le emissioni segrete del mondo digitale grazie al contributo di Giovanna Sissa dell’Università di Genova. (…) Secondo l’Autrice, l’universo digitale è responsabile di emissioni di CO2 comprese fra quelle del terzo e del quarto Stato al mondo: più del Giappone e Russia e dietro solo a Cina, Stati Uniti e India. L’impronta carbonica dell’intero settore può valutarsi (…) in 1,2-2,2 miliardi di tonnellate (dato al 2020), con un contributo fra il 2,3% e il 4,2% delle emissioni globali di gas serra. Una quota destinata nel tempo a crescere in termini assoluti e relativi, se si considera che entro il 2030 i soli data center rappresenteranno l’8% del consumo energetico totale negli Stati Uniti, il triplo di oggi. (…)
Democrazie al voto
Di fronte all’impasse della transizione, occorrerebbe riconoscere che le attuali policynon stanno funzionando, come avevano dimostrato su queste pagine Di Giulio e Migliavacca nel 2023 (8) e come è peraltro emerso in un recente autorevole studio apparso sulla rivista Science (9). (…) L’aumento dell’inflazione (per il 40% dovuto ai maggiori prezzi energetici) e il parallelo rallentamento dell’economia hanno acuito nell’opinione pubblica la percezione che a causarli abbia concorso la transizione energetica, favorendo i partiti nazionalisti ostili alle politiche climatiche. Una consapevolezza che non pare tuttavia intaccare Ursula von der Leyen che, a seguito delle elezioni europee dello scorso giugno, è andata a formare la nuova Commissione con gli sconfitti Verdi (10). «Accelerazione si candida a diventare la parola chiave della legislatura», scrive Valeria Palmisano Chiarelli nella sua analisi sulla futura Commissione (…). Un obiettivo estremamente difficile da conseguire (13), specie se si reputa di riuscirvi riconciliando, nelle parole di Ursula von del Leyen, «climate protection with a prosperous economy» (14). Per conseguire l’obiettivo intermedio del 55% al 2030, le emissioni dovrebbero ridursi negli anni restanti a un tasso tre volte superiore quello registrato nello scorso decennio. Ancor più difficile riuscirvi sul piano economico considerando un costo addizionale stimato dall’Institut Rousseau in 10.000 miliardi di euro (15), che porterebbe a 40.000 miliardi di euro l’onere complessivo (16). Per rispettare le nuove intenzioni di Bruxelles bisognerebbe profondere in questo decennio gli stessi sforzi compiuti negli scorsi quaranta anni. Per riuscirci, scrive Palmisano, occorre selezionare sapientemente una «combinazione di percorsi che permette di raggiungere l’obiettivo nel minor tempo possibile», cercando di non compromettere ulteriormente la competitività dell’economia europea già penalizzata da prezzi dell’energia due-tre volte superiori a quelli americani. Sarà interessante vedere nel concreto le idee che ha formulato Mario Draghi per rafforzare nell’energia la competitività europea, che richiederà, ha sostenuto, un «cambiamento radicale». (…). Alla prevedibile continuità delle politiche ambientali ed energetiche che si prefigura in Europa con la rinomina di Ursula von der Leyen, si contrappone una loro possibile anche profonda modifica all’indomani del voto americano, a seconda che si verifichi il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca o la vittoria di Kamala Harris. Il primo scenario – come emerge dall’articolo di Gaetano Di Tommaso del Roosevelt Institute for American Studies – significherebbe, infatti, un ritorno a un’aggressiva deregolamentazione (come quando cancellò oltre cento norme ambientali e sanitarie) o a un’attività normativa a favore dell’industria estrattiva (come si ebbe all’indomani della sua prima presidenza), anche in ragione della sua intenzione, da un lato, di ridurre i costi dell’energia con l’aumento della produzione e, dall’altro, di svuotare i più importanti atti decisi da Joe Biden, che almeno formalmente aveva riallineato il paese agli obiettivi dell’Accordo di Parigi del 2015. La vittoria di Harris disegnerebbe uno scenario profondamente diverso avendo, da vicepresidente, sostenuto le politiche ambientali di Biden, con semmai un ampliamento e rafforzamento delle politiche di contrasto all’industria fossile e di sostegno alla transizione energetica. Pur se Harris è stata finora vaga, quando non reticente, sui dettagli della sua agenda ambientale per non perdere voti in Stati produttori, la sua linea non si discosterà da quella di Biden. Alla prova di governo, i compromessi saranno tuttavia inevitabili, anche in considerazione degli accresciuti limiti all’azione presidenziale imposti dal sistema federale statunitense. (…)
Politiche climatiche tra autocrazie e democrazie
Una comunione o, perlomeno, allineamento di intenti sulle due sponde dell’Atlantico pare premessa fondamentale per procedere nel pur arduo ma necessario contrasto ai cambiamenti climatici. La percezione che le democrazie liberali non siano riuscite a rispondere all’imperativo morale e scientifico di agire sul clima sta portando sia paesi in via di sviluppo, sia intellettuali occidentali, a guardare ai regimi e ai leader autoritari: forti, apparentemente, di un orizzonte temporale che consente loro di attuare interventi a lungo termine, nonché dell’immunità dall’opinione pubblica e che dà loro maggiori margini di manovra per introdurre politiche controverse ma rispettose del clima. Di fronte alla minaccia esistenziale dei cambiamenti climatici, c’è chi ha ipotizzato la necessità di «sospendere la democrazia» (17) per affrontarla in modo più determinato. (…) «I sostenitori più radicali dell’eco-autoritarismo – scrivono Juan Pablo Osornio e Byford Tsang del Carnegie Endowment for International Peace – sostengono che la gravità della crisi ambientale richiede che le élite tecnocratiche o “despoti illuminati” all’interno di governi altamente centralizzati portino avanti le riforme economiche necessarie restringendo la libertà degli individui». (…) Le democrazie devono trovare un modo per arginare la deriva autoritaria e al contempo collaborare con le autocrazie in ambito climatico. Una chiave, secondo gli Autori, è rafforzare la finanza climatica per evitare che i paesi in via di sviluppo entrino in un ciclo perpetuo di devastazione e ricostruzione finanziata a debito. Tema, quello della necessità di indirizzare gli investimenti energetici là dove più servono ovvero nel Sud del mondo, che si ricollega al nostro precedente numero (20) (…). Sulla domanda su quale sia il sistema politico più adeguato a fronteggiare la crisi climatica si interroga anche Luigi Pellizzoni della Scuola Normale Superiore. Rispondere è arduo, date le innumerevoli declinazioni di liberalismo e autoritarismo ecologico. Il loro sviluppo storico indica che né le democrazie liberali né i regimi autoritari hanno proposto politiche davvero efficaci, nel loro variare tra un forte intervento pubblico e il prevalere di ricette neoliberali da cui il riproporsi, da un lato, di forme di pianificazione e, dall’altro, di una supervisione pubblica. Trasversale alle diverse posizioni è l’idea che la risposta stia soprattutto nell’innovazione (…). Il quesito diviene allora quale sia il regime politico più idoneo a promuovere un’innovazione finalizzata a tale obiettivo. Dal rapporto tra politica (più o meno democratica) ed ecologia, il focus si sposta su quello tra politica e scienza e tecnologia. (…).
Tra sicurezza e transizione
Complessità e innovazione sono termini chiave di un altro contributo che proponiamo su questo numero di ENERGIA. In un contesto di crisi plurime se non permanenti (policrisi o permacrisi), e quindi di grande incertezza sul futuro, il tema della sicurezza energetica è tornato prepotentemente sul tavolo dei decisori politici e aziendali al fianco di quello della transizione. (…) Come affrontare l’insieme di queste sfide – come passare nella cruna dell’ago – è il tema svolto da Stefano Venier, amministratore delegato di Snam (…). Guardando al futuro, la raccomandazione di Venier è di proseguire su queste linee d’azione, facendo perno sulla forza delle nostre maggiori imprese e su una sempre più stretta «multilevel cooperation» nazionale e internazionale, puntando su infrastrutture a prova di futuro capaci di saldare esigenze di breve periodo (sicurezza e tenuta sociale) e obiettivi di lungo termine (transizione e decarbonizzazione) guardando a quanto l’innovazione tecnologica è in grado di proporci. Ed è proprio la necessità di coniugare le esigenze di sicurezza con quelle della transizione a dare nuovo slancio al nucleare anche in Occidente e in Italia (…). ENERGIA ha riservato a questo tema un’attenzione particolare (21), che prosegue con un articolo di Lorenzo Mottura e Simone Nisi di Edison che evidenziano il rinnovato interesse sia nazionale che internazionale per questa tecnologia, testimoniata dalla dichiarazione di 20 paesi alla Cop28 di Dubai disponibili a triplicarne l’impiego entro metà secolo. Sul piano nazionale, è importante notare come il nuovo Pniec (…) offra una forte apertura alla fonte nucleare, anche per le sue possibili applicazioni accanto alle fonti rinnovabili non programmabili: in futuro potrebbe garantire maggiore stabilità al sistema con la possibilità, rispetto allo scenario senza nucleare, di un risparmio di circa 17 miliardi di euro, grazie all’ipotesi di installazione di 8 GW di nucleare, che coprirebbero circa l’11% della domanda elettrica nazionale. Ne deriverebbe, sostengono gli Autori, anche un sostegno al tessuto industriale italiano data la presenza di numerose imprese nell’intera filiera nucleare, tra cui Edison che ha avviato collaborazioni non solo scientifiche con le altre maggiori aziende italiane. Alle indiscutibili ragioni che motivano il rinnovato interesse all’opzione nucleare va aggiunto il mutato e più favorevole atteggiamento dell’opinione pubblica. Al di là di queste ragioni, aggiungiamo noi, rileva comunque – alla luce dell’infausta passata esperienza nazionale – la credibilità e affidabilità della politica che dovrebbe mantenere, se adottata, una piena, convinta, determinata continuità di azione verso questa tecnologia, evitando che ogni nuovo governo abbia a modificare quel che di positivo per il nucleare il precedente governo aveva eventualmente deliberato, causando enormi perdite di denaro come avvenuto in passato.
Accontentare tutti per non accontentare nessuno
L’11 aprile 2024 il Parlamento europeo ha approvato la riforma del mercato elettrico (…). Rispetto all’impostazione iniziale, è stata approvata una riforma che Carlo Stagnaro e G.B. Zorzoli definiscono ecumenica, avendo accontentato le divergenti richieste degli Stati membri, che si dimostrano ancora una volta poco uniti. La contrattazione a lungo termine tramite contratti per differenza (Cfd), adottabili anche per la produzione nucleare, ha messo fuori gioco i Power purchase agreement (Ppa) conservando e rendendo strutturale il mercato della capacità, a cui potranno partecipare anche le centrali a carbone meno inquinanti. L’incapacità dell’Ue e degli Stati membri – sostengono gli Autori – di individuare una riforma che identificasse e valorizzasse le misure in grado di rendere concorrenziale un mercato dominato dal lungo termine, ha generato il topolino di una riforma dove a farla da padrona è la politique politicienne (…). Il tema viene approfondito da Pippo Ranci, che evidenzia l’importanza di distinguere tra ciò che fanno e faranno gli operatori di mercato e ciò che dovrebbe fare lo Stato per due principali ragioni. Primo: risolvere la crescente incertezza indotta dai mutamenti tecnologici fissando regole certe di trasparenza e un’eventuale standardizzazione dei contratti, al fine di garantire stabilità al sistema e il funzionamento dei mercati organizzati. Secondo: assumersi una parte dei rischi per garantire alle imprese un positivo ritorno economico. Resta il fatto, a noi pare, che l’affermazione dei mercati – a fronte delle nuove priorità politiche – va accompagnandosi a un ruolo sempre più forte e invasivo della mano pubblica e quindi della politica. (…) Nel suo contributo, Clara Poletti evidenzia come la riforma si sia focalizzata sulla necessità di dare maggiore stabilità e certezza sia agli investimenti sia ai prezzi, attraverso strumenti che hanno assegnato un ruolo preminente all’intervento pubblico. Più mercato ha portato (inevitabilmente?) a più Stato. A ciò deve aggiungersi la necessità che prosegua la riflessione sul funzionamento ottimale dei mercati di breve termine, essendo il dispacciamento e il bilanciamento le fondamenta su cui si poggiano gli altri mercati. «I nostri mercati – conclude Poletti – durante la crisi hanno dimostrato di aver resistito a tensioni e a pressioni nazionali per la chiusura delle frontiere. Indietro non si torna e stare dove siamo ora sarebbe molto costoso. Non resta che proseguire nel percorso di integrazione e miglioramento, con approccio pragmatico e costruttivo».
Sistema idrico italiano, in bilico tra riforma e siccità
Molto dei processi di modernizzazione dei servizi pubblici osservati negli scorsi decenni lo si deve alla legge che nel 1995 istituì le loro Autorità di regolazione. Legge che ha consentito (…) l’avvio delle riforme strutturali nei servizi di pubblica utilità, tra cui quella del sistema idrico di cui tratta Antonio Massarutto. (…) Sebbene la maggior parte dei problemi non sia stata ancora risolta, la sua evoluzione è oggi altra da quella che si poteva solo ipotizzare qualche decennio fa. Una possibilità che si infrange tuttavia contro una disastrosa situazione di dispersioni d’acqua (volumi prelevati e utilizzati) con enormi perdite sulla rete (41 litri su 100). In questo quadro, solo le multiutility quotate hanno investito in modo consistente, superando le resistenze ideologiche mobilitate nell’ahimè vittorioso referendum del 2011 indetto sotto la bandiera dell’«acqua bene comune» e della non remunerazione del capitale investito, contro ogni logica di sostegno agli investimenti. Bene comune ampiamente indisponibile al Sud, con la disastrosa siccità anche di questa estate, specie in Sicilia, che ha portato a necessità di razionarne l’erogazione. L’analisi evidenzia successi seppur parziali che sono tuttavia incoraggianti per la dinamica che sembra essersi stabilmente avviata. L’Autore, a tal fine, avanza alcune raccomandazioni utili a consolidarla.
a.c.
Bologna, 3 settembre 2024
La presentazione del nuovo numero della rivista trimestrale ENERGIA (3.24) a firma del direttore Alberto Clò.
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