A soli sei anni dal 2030, è doveroso domandarsi se la qualità del dibattito sulla transizione energetica sia in sintonia con l’enorme trasformazione che i target di decarbonizzazione impongono o se vi sia invece uno scollamento tra parole e realtà che complica la transizione e ostacola il perseguimento dei target.
A quasi dieci anni dall’Accordo di Parigi, preoccupa osservare come al sempre più pervasivo dibattito su transizione energetica e sostenibilità non corrisponda una riduzione delle emissioni di gas serra. Da un lato, la conversazione pubblica si allarga e si moltiplicano impegni e target di decarbonizzazione da parte di un numero sempre maggiore di soggetti. Dall’altro, le emissioni globali di gas serra continuano a crescere, evidenziando come l’approccio finora utilizzato non sia efficace nell’affrontare la sfida climatica.
Le emissioni di CO2 del settore energetico sono state di 37,4 Gt nel 2023, erano 34,7 Gt nel 2015 (Iea). Nel frattempo, aumento delle temperature, siccità, fenomeni meteorologici estremi sempre più frequenti mostrano un’anticipazione del futuro a cui il pianeta sta andando incontro.
La marcia delle rinnovabili
Ciononostante, i progressi delle nuove energie negli ultimi anni sono stati straordinari. Economie di scala e innovazione tecnologica hanno abbattuto i costi delle rinnovabili favorendone una diffusione sorprendente. Ad esempio, il Levelized Cost of Electricity (Lcoe) – il costo complessivo di produzione del MWh, lo strumento più utilizzato per confrontare le diverse tecnologie di generazione elettrica – del solare fotovoltaico si è ridotto dell’89% tra il 2010 e il 2022 (Irena).
Gli investimenti nelle rinnovabili hanno portato la capacità installata al livello record di 3870 GW (Irena) e rappresentano ormai stabilmente la porzione più ampia degli investimenti globali in nuova capacità di generazione elettrica. Nel 2023 sono stati installati 473 GW di capacità rinnovabile, ossia l’86% della capacità addizionale.
Altro fatto ormai acquisito ma fino a qualche anno fa per nulla scontato (nell’attesa di essere smentiti dalle elezioni americane di novembre!) è la quasi totale unanimità che si è creata attorno agli obiettivi di Parigi.
Eppure, i dati ci dicono che dobbiamo fare molto di più.
L’inutilità del manicheismo in un mondo complesso
Tornando al dibattito, a soli sei anni dal 2030, anno entro il quale secondo l’IPCC le emissioni di gas serra dovrebbero essere dimezzate, è doveroso domandarsi se la narrativa prevalente sulla transizione energetica sia in sintonia con l’enorme trasformazione che i target di decarbonizzazione impongono, o se vi sia invece uno scollamento tra parole e realtà che complica la transizione e ostacola il perseguimento dei target.
La questione è cruciale perché, specialmente in un settore policy-driven come quello dell’energia, un dibattito maturo e ben informato è condizione necessaria per la definizione di politiche efficaci. Notiamo invece come il più delle volte esso tenda alla semplificazione e alla polarizzazione, mettendo le fonti energetiche in contrapposizione tra loro e creando una tensione – efficace dal punto di vista narrativo quanto inutile sul piano pratico – tra il mondo delle rinnovabili (“i buoni”) e il mondo degli idrocarburi (“i cattivi”).
Il principale problema di tale racconto è che non coglie la complessità del mondo reale e del suo funzionamento, e alimenta al contempo l’illusione che la soluzione al problema del cambiamento climatico passi per l’eliminazione dei produttori di oil and gas. La verità è che senza i combustibili fossili verrebbe oggi a mancare la capacità di produrre cemento, acciaio, e di trasportare merci e persone, collasserebbe l’economia mondiale. Negarlo non aiuta la transizione.
Il caso dell’Europa e il gas
L’Europa, regione leader nella lotta globale al cambiamento climatico, offre alcuni esempi in tal senso. Un caso emblematico è la produzione europea di gas naturale, diminuita del 27% (88 bcm) tra il 2000 e il 2021 (Iea) a causa della crescente avversione dell’opinione pubblica verso gli idrocarburi e delle restrizioni progressivamente introdotte dai governi in nome dell’ambientalismo.
Questo calo si è verificato nonostante una domanda interna pressoché stabile nello stesso periodo. Che utilità ha avuto dal punto di vista della decarbonizzazione disincentivare la produzione domestica e sostituire gli stessi volumi con importazioni dall’estero? Se sì considera poi che parte della produzione si è spostata in paesi con normative ambientali molto meno rigide di quelle europee possiamo serenamente concludere, nessuna.
Occasioni perse
Tale tendenza ha inoltre rivelato un altro pregiudizio (collegato al primo) di cui il dibattito europeo è vittima, ovvero di credere che per accelerare la transizione energetica basti agire sul lato dell’offerta. La guerra in Ucraina e la crisi energetica che ne è conseguita hanno mostrato con estrema chiarezza che così non è. Dopo anni passati a dire che non c’è spazio per la produzione di gas nella transizione energetica, abbiamo improvvisamente scoperto che la domanda è anelastica e che l’unica conseguenza certa di un vuoto di offerta è l’aumento dei prezzi.
Nell’estate del 2022, i prezzi del gas hanno toccato i 340 €/MWh, più di dieci volte i livelli pre-crisi. Il venir meno delle forniture energetiche dalla Russia ha impattato così gravemente l’economia europea da rendere necessario l’intervento dei governi con costose misure di sostegno a cittadini e imprese –651 miliardi di euro a partire da settembre 2021 secondo le stime del think tank Bruegel. Queste risorse pubbliche avrebbero potuto essere più utilmente investite nella decarbonizzazione dei consumi finali, ad esempio nell’industria o nell’elettrificazione, che in Europa avanza a ritmi del tutto inadeguati a raggiungere entro metà secolo il 50% dei consumi energetici finali previsto dagli scenari net-zero (si veda l’articolo di Enzo Di Giulio Elettrificazione: dallo straordinario caso cinese a quello sconfortante europeo).
Altra lezione della crisi energetica è che la decarbonizzazione perde di significato e di legittimità sociale senza sicurezza dal punto di vista degli approvvigionamenti e senza accessibilità dal punto di vista dei prezzi. Aspetti che il dibattito ha lungo ignorato e su cui è fondamentale tornare seriamente a riflettere.
Si potrebbero fare altri esempi, come la strategia europea sull’idrogeno, che sembra presupporre l’esistenza di un mercato per l’idrogeno verde a prescindere dagli elevati costi di produzione, o l’opposizione alla carbon capture and storage, tecnologia a lungo avversata perché percepita come un espediente del settore oil and gas per eludere la trasformazione, nonostante sia una leva imprescindibile per la decarbonizzazione dei settori hard-to-abate. Per non parlare della mobilità. Trascurando gli aspetti sociali ed economici della transizione, si propone la mobilità elettrica come sola e unica soluzione possibile e si escludono i biocarburanti come opzione complementare.
Che fare quindi? Come stabilire un maggiore equilibrio all’interno del dibattito? Di certo non devono essere messi in discussione gli investimenti nelle rinnovabili o nell’efficienza energetica. Caso mai, bisogna accelerarli. Dobbiamo tuttavia riconoscere che se da più di trent’anni la quota dei combustibili fossili è ferma all’80% è anche perché oltre al mondo del sole e del vento esiste una realtà industriale difficile da decarbonizzare e per cui l’elettrificazione non è sempre un’opzione percorribile.
La realtà non è verde o nera. Iniziare a rappresentare il settore dell’energia anche per quello che è anziché continuare a guardarlo esclusivamente attraverso le lenti di come vorremmo che fosse rappresenterebbe un enorme salto di qualità. Un cambio di passo nella transizione energetica passa anche da un maggiore realismo nella discussione pubblica.
Hugo Savoini si occupa di relazioni internazionali nel settore dell’energia
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