Sistemi politici autoritari vengono spesso ritenuti più efficaci delle democrazie nell’affrontare la crisi del clima, ma secondo il sociologo Luigi Pellizzoni la chiave di volta sta nella promozione dell’innovazione. Dal rapporto tra politica (più o meno democratica) ed ecologia, il focus si sposta su quello tra politica e scienza e tecnologia. La presentazione dell’articolo pubblicato su ENERGIA 3.24.
L’aggravarsi della crisi climatica e la sostanziale inefficacia delle policy finora attuate (si vedano il recente studio su Science e quello di Di Giulio e Migliavacca su ENERGIA 3.23) sta portando paesi in via di sviluppo e intellettuali occidentali a guardare con maggiore interesse e speranza i regimi autoritari ritenuti più efficaci delle democrazie liberali nel raggiungere risultati.
Quale sistema politico – autocratico o democratico – è più adatto ad affrontare le sfide della decarbonizzazione è il tema che proponiamo nel nuovo numero di ENERGIA (3.24) e che viene analizzato da due differenti punti di vista.
Autocrazie o democrazie di fronte alla crisi climatica?
Il primo è quello di Juan Pablo Osornio (Earth Insight) e Byford Tsang (ECFR) che ritengono le democrazie più adatte ad affrontare le sfide che verranno, sia di decarbonizzazione sia di gestione di una governance globale che si troverà sempre più sotto pressione, e di farlo seguendo i propri valori e principi morali.
Un punto di vista che richiederebbe una allineamento di intenti tra le due sponde dell’Atlantico, chiamate quest’anno al voto e le cui, possibili, agende energetiche e climatiche analizziamo su questo numero con Gaetano Di Tommaso per quanto riguarda lo scontro elettorale Trump-Harris negli Stati Uniti e con Valeria Palmisano Chiarelli per l’Unione europea.
Differente l’angolatura da cui analizza la questione il sociologo Luigi Pellizzoni della Scuola Normale Superiore di Firenze, per il quale il focus si sposta dal rapporto tra politica ed ecologia a quello tra politica, scienza e tecnologia.
Premesso che “né le democrazie liberali né i regimi autoritari comunisti, post-comunisti e di destra hanno dato gran prova di sé da un punto di vista ambientale, dimostrandosi tutti convinti inquinatori e forsennati estrattori di risorse”, più che i sistemi politici di per sé per affrontare i cambiamenti del clima diventa importante quali sono in grado di promuovere l’innovazione.
Un tema, quello dell’innovazione, non nuovo sulle pagine di ENERGIA , trattato con differenti approcci in diversi articoli come quelli di Quadrio Curzio e di Collins e Michot Foss nel 2022 e di GB Zorzoli nell’1.24.
Date le “innumerevoli declinazioni e sfumature di liberalismo e autoritarismo ecologico” scrive Pellizzoni, “stabilire quale sia la più adeguata alla sfida climatica è arduo e difficilmente immune da opzioni ideologiche. Un tratto che accomuna gran parte delle prospettive è però la convinzione che la risposta alla sfida stia innanzitutto nell’innovazione”. La questione diventa quindi se e quali sistemi politici sono più o meno efficaci nel promuovere l’innovazione in contrasto alla crisi del clima.
Possono coesistere mercato, crescita economica e tutela ambientale?
L’autore ripercorre la storia del pensiero ecologico e gli strumenti di policy individuati (1. Politica (più o meno democratica) ed ecologia). Si va così dalla “necessità di un intervento pubblico a correzione degli effetti perversi del mercato” e dei meccanismi di command-and-control (Kapp, Daly, Georgescu-Roegen) alla progressiva affermazione del neoliberalismo e dell’idea “che ai «fallimenti» del mercato occorre rispondere con ancora più mercato”, da cui emergono le politiche basate su incentivi monetari.
La panoramica prosegue riepilogando i presupposti teorici da cui si originano i movimenti per la Decrescita, le istanze “eco-socialiste” e il “paternalismo illuminato” che ritengono il fallimento di esperienze come il Protocollo di Kyoto o dell’Accordo di Parigi all’impossibilità di coniugare mercato, crescita economica e tutela ambientale.
Nel secondo paragrafo, il sociologo indaga il rapporto tra democrazia e scienza sia mutato al mutare del rapporto tra scienza ed expertise (par. 2). Autori come Popper e Dewey hanno teorizzato un’affinità elettiva tra democrazia e ricerca scientifica, con la prima che è garanzia di una scienza libera che, a sua volta, è indice di un buon livello di democrazia. “Negli ultimi anni, tuttavia, l’accento sempre maggiore su una scienza votata a finalità pratiche (…) ha portato in primo piano la questione dell’expertise, intesa come sapere idoneo alla soluzione di quesiti di policy (pubblica e privata). Il punto non è più l’affinità elettiva tra scienza e democrazia, ma il fatto che il parere esperto è in grado di rafforzare l’azione di governo (o l’attività di impresa)”.
La politica e la differenza (mai troppo ribadita) tra scienza ed expertise
La riflessione passa quindi al rapporto tra expertise e politica (par. 3), il cui dibattito “risale all’idea platonica di «governo dei custodi» – coloro che sanno – in alternativa al governo delle leggi”. Una delle vulnerabilità di questo modello è che la politica è essenzialmente “lotta per il potere tra visioni contrastanti della società”, per cui semplicemente non esiste una definizione oggettiva di cosa sia “il bene collettivo”.
Quando gli scienziati vengono coinvolti nell’arena politica per avvalorare una posizione – senza esplicitare i limiti della conoscenza applicata – si originano dunque equivoci e forti contestazioni (che abbiamo visto in azione durante la pandemia).
“Per esempio, il fatto che il dibattito scientifico su una questione complessa come il cambiamento climatico sia inevitabilmente costellato da diatribe e disaccordi viene utilizzato per instillare il dubbio che il problema non ci sia, che sia minore di quanto paventato oppure che le cause siano esclusivamente o principalmente naturali (20). Un altro indicatore è che le mobilitazioni ecologiste danno risalto crescente all’evidenza scientifica, cercando di spostare l’attenzione del pubblico dalle emozioni ai fatti e in questo modo di rafforzare la propria causa. Il prezzo è ovviamente di esporsi al rischio di una contestazione dell’evidenza addotta da parte degli avversari (21)”.
Sono possibili una scienza e una tecnologia non orientate all’estrazione di valore dalle risorse?
E quando la società diventa ipertecnologica, come cambia il rapporto tra politica e scienza? È l’interrogativo che l’autore si pone nel quarto paragrafo nel quale presenta la Scienza Post-Normale, un approccio molto rivoluzionario che “contrasta frontalmente con la tesi dell’eco-autoritarismo quale male necessario” in favore di “più e non meno democrazia”.
Un altro punto di osservazione è quello proposto da Wainwright e Mann, che costruiscono scenari alternativi “sulla base della persistenza o del crollo dell’ordine globale capitalista e della presenza o meno di un «sovrano planetario», ossia di un’istanza capace di assumere il controllo del cambiamento climatico, o almeno delle sue conseguenze”.
“Si potrebbe continuare con altri esempi. Nella misura in cui l’equazione tra democrazia e capitalismo e quella tra democrazia e scienza sono sempre meno accettabili a scatola chiusa, l’assunzione che l’innovazione sia tanto più garantita quanto più la ricerca si svolge nel contesto dei diritti democratici e dello scambio di mercato è anch’essa sempre meno sottoscrivibile a occhi chiusi”.
Un’altra scienza e un’altra tecnica?
Nelle conclusioni (5. Un’altra scienza e un’altra tecnica?), l’autore lancia una sorta di provocazione. “Più che ragionare su democrazia e autoritarismo sarebbe forse il caso di chiedersi se siano possibili una scienza e una tecnologia diverse, non votate all’incremento della potenza o dell’efficienza a fini di dominio (sulla natura e sugli esseri umani) e di estrazione di valore”.
È in questo modo che la questione viene inquadrata da Adorno, Marcuse, Benjamin e Stengers che funziona da presupposto teorico per alcune esperienze di materialismo sostenibile illustrate nell’articolo su ENERGIA 3.24.
Il post presenta l’articolo di Luigi Pellizzoni Scienza e politica di fronte alla crisi climatica pubblicato su ENERGIA 3.24 (pp. 28-33)
Luigi Pellizzoni, Scuola Normale Superiore di Firenze
Foto: Unsplash
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