Il voto negli Stati Uniti decreterà la continuità o la discontinuità su energia e clima, a seconda che vinca Trump o Harris. A prescindere da chi vincerà, sottolinea Gaetano Di Tommaso su ENERGIA 3.24, il prossimo presidente dovrà gestire una realtà in cui la transizione avanza ma i combustibili fossili sono ancora inevitabili, sostenuti da un’industria estrattiva che mantiene un peso economico, politico, e sociale di prim’ordine.
Il 2024 è l’anno del voto per entrambe le sponde dell’Atlantico. Elezioni che avranno un forte impatto sia interno che internazionale, su molteplici dimensioni. A partire da quella energetico-climatica, la cui importanza assunta nell’ultimo decennio – sia per il manifestarsi dei cambiamenti climatici e dei suoi danni che a seguito della più grave crisi energetica dal 1973 – tende a sovrastare e in parte determinare le altre. Come quella geopolitica, quella industriale (si vedano l’Inflation Reduction Act statunitense e il Green Deal Industrial Plan di Bruxelles), quella commerciale (di cui è esempio il Carbon Border Adjustment Mechanism o la guerra tra Stati Uniti e Cina avviata da Trump).
Democrazie al voto
ENERGIA 3.24 dedica la coppia di articoli d’apertura alle democrazie al voto e agli scenari che si possono prefigurare. Se per l’Unione europea è ormai noto che l’esito delle elezioni porterà alla conferma e addirittura un consolidamento della politica attuale, ancora fortemente incerto è il quadro che si può delineare oltreoceano.
“Accelerazione si candida a diventare la parola chiave della legislatura”, scrive Valeria Palmisano Chiarelli nella sua analisi sulla da poco presentata Commissione von der Leyen bis. Alla prevedibile continuità delle politiche ambientali ed energetiche che si prefigura in Europa, si contrappone una loro possibile continuità o al contrario profonda modifica negli Stati Uniti, a seconda che si verifichi il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca o la vittoria di Kamala Harris.
“Martedì 5 novembre i cittadini statunitensi sceglieranno il loro prossimo presidente in un clima altamente divisivo” scrive Gaetano Di Tommaso del Roosevelt Institute for American Studies. “Qualunque sia la scelta, l’esito del voto lascerà il segno sia negli Stati Uniti che all’estero, dove il ruolo di Washington rimane cruciale nella gestione dei dossier di politica internazionale più complessi, tra i quali la sicurezza e transizione energetica, tema centrale e punto di contatto tra crisi internazionali e preoccupazioni interne.
L’importanza dell’estrazione di petrolio e gas negli Stati Uniti: 950 mld $ nel 2023
Il prossimo presidente dovrà gestire una realtà in cui la transizione – intesa come sistema di investimenti e tecnologie – avanza inesorabilmente e in cui i combustibili fossili sono ancora inevitabili, sostenuti da un’industria estrattiva che mantiene un peso economico, politico, e sociale di prim’ordine nel paese”.
L’articolo muove da una panoramica dell’amministrazione uscente (1. L’ultima presidenza Biden) che, pur non rinnegando l’importanza e la solidità dell’industria dei combustibili fossili negli Stati Uniti, ha incoraggiato in maniera significativa la transizione energetica, trovando proprio nelle politiche ambientali una delle aree d’azione di maggior impatto.
“Ad aprile 2021, Biden ha annunciato l’obiettivo ambizioso di ridurre del 50% le emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030 e di decarbonizzare completamente la produzione di elettricità entro il 2035. (…) Agli annunci sono poi seguite politiche concrete. Nell’agosto 2022, Biden ha firmato l’Inflation Reduction Act (Ira), il più grande investimento federale nella lotta al cambiamento climatico, con circa 370 miliardi di dollari messi a disposizione tra sgravi fiscali e sovvenzioni per promuovere la produzione di energia rinnovabile, l’efficienza energetica e l’acquisto di auto elettriche (4). Dopo due anni, i risultati iniziano a essere visibili”.
Continuità o discontinuità?
Di Tommaso confronta quindi i possibili esiti delle elezioni di novembre. A partire dal ritorno di Trump (par. 2), che porterebbe a un’aggressiva deregolamentazione, a un’attività normativa a favore dell’industria estrattiva, anche in ragione della sua intenzione di ridurre i costi dell’energia e di svuotare i più importanti atti decisi da Joe Biden.
“Paradossalmente, a contrastare queste intenzioni potrebbero essere proprio i rappresentanti repubblicani in Congresso. Gli incentivi dell’Ira stanno beneficiando principalmente Stati tradizionalmente repubblicani, che hanno raccolto oltre l’80% degli investimenti, con conseguente rivitalizzazione di industria ed economia”.
L’arrivo di Harris (par. 3) alla Casa Bianca disegnerebbe uno scenario profondamente diverso, con semmai un ampliamento e rafforzamento delle politiche di contrasto all’industria fossile e di sostegno alla transizione energetica. “Da vicepresidente, Harris ha sostenuto le politiche ambientali dell’Amministrazione Biden, che rappresentavano in realtà una versione al ribasso dell’agenda climatica, ancora più ambiziosa, che aveva promosso prima di arrivare a ricoprire il ruolo attuale”.
Tuttavia, “nella pratica, Harris dovrà confrontarsi con una serie di limiti politici, economici e istituzionali” che Di Tommaso illustra nell’articolo.
Nelle riflessioni conclusive l’autore ricorda come, che la spunti Trump o Harris, “alla prova di governo, i compromessi saranno inevitabili, soprattutto considerati i limiti all’azione presidenziale imposti dal sistema federale statunitense, legati cioè al ruolo del Congresso, delle corti, e degli Stati”.
Politiche climatiche tra autocrazie e democrazie
“Quanto in continuità sarà la prossima presidenza con il corso intrapreso da Biden diventerà la misura delle ambizioni statunitensi e delle opportunità che i paesi europei avranno nella collaborazione con Washington sulle questioni energetiche”.
“Una comunione o, perlomeno, allineamento di intenti sulle due sponde dell’Atlantico pare premessa fondamentale per procedere nel pur arduo ma necessario contrasto ai cambiamenti climatici”, scrive Alberto Clò nella presentazione del numero.
“La percezione che le democrazie liberali non siano riuscite a rispondere all’imperativo morale e scientifico di agire sul clima sta portando sia paesi in via di sviluppo, sia intellettuali occidentali, a guardare ai regimi e ai leader autoritari: forti, apparentemente, di un orizzonte temporale che consente loro di attuare interventi a lungo termine, nonché dell’immunità dall’opinione pubblica e che dà loro maggiori margini di manovra per introdurre politiche controverse ma rispettose del clima”.
L’analisi delle democrazie al voto (USA e UE) viene affiancata su questo numero da un tema attiguo, tanto rilevante quanto trascurato: quale sistema politico – autocratico o democratico – è più efficace nell’implementare politiche climatiche? Questione alla quale tentano di rispondere, da due angolature differenti, Pablo Osornio e Byford Tsang e il sociologico Luigi Pellizzoni.
Il post presenta l’articolo di Gaetano Di Tommaso Harris vs Trump: transizione e continuità nell’energia e clima pubblicato su ENERGIA 3.24 (pp. 14-19)
Gaetano Di Tommaso, Roosevelt Institute for American Studies
Foto: Unsplash
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